Genetica predittiva e figli su misura: il nuovo confine etico

Genetica predittiva e figli su misura: il nuovo confine etico

Sommario: 1. Una nuova frontiera della nascita programmata – 2. Il servizio: tra promessa scientifica e narrazione commerciale – 3. Il nodo etico della disuguaglianza genetica – 4. Il paradigma culturale: tra ottimizzazione e selezione – 5. Il rischio sistemico: chi decide quale vita vale di più? – 6. Uno sguardo al futuro

 

1. Una nuova frontiera della nascita programmata

Stiamo assistendo alla trasformazione silenziosa – ma non troppo – dell’idea di generare un figlio in un servizio premium, quasi un upgrade della vita familiare modellato secondo logiche tipiche del consumo evoluto. La retorica del “figlio migliore” si insinua nel dibattito pubblico con una naturalezza sorprendente, come se il linguaggio della tecnologia potesse trasmigrare senza frizioni nel territorio più intimo dell’esperienza umana.

A New York, la società Nucleus ha tappezzato la metropolitana con slogan accattivanti – «Have Your Best Baby», «These babies have great genes» – veri e propri manifesti della nascita come prodotto su misura. La risposta del mercato è stata immediata: l’azienda rivendica un incremento delle vendite del 1700%, un dato che, più che fotografare il successo della campagna, illumina la disponibilità crescente dell’opinione pubblica ad accogliere la promessa di una genitorialità ottimizzata. Ironia della sorte: una strategia comunicativa degna del lancio di un nuovo smartphone viene utilizzata per parlare del bene forse meno “aggiornabile” che esista, la vita umana.

Non si tratta, tuttavia, di un fenomeno di nicchia o confinato alla dimensione metropolitana newyorkese. Negli Stati Uniti circa il 2% dei nuovi nati vede la luce grazie a tecniche di fecondazione assistita, generando ogni anno decine di migliaia di bambini concepiti tramite IVF. Sono numeri che collocano la questione fuori dal perimetro della curiosità bioetica e la trasformano in un tema sistemico, capace di incidere – oggi in modo embrionale, domani forse in modo strutturale – sulla percezione collettiva della riproduzione.

Si delinea così un mercato che pare sempre meno clinico e sempre più orientato al branding, dove il lessico della pubblicità e quello della biologia finiscono per dialogare con una naturalezza che meriterebbe ben più di un sopracciglio alzato. La promessa non è più solo quella di assistere alla nascita di un figlio, ma di “progettarlo”, “sceglierlo”, quasi confezionarlo: un passaggio culturale che, per quanto elegante nelle sue campagne pubblicitarie, porta con sé interrogativi profondi che il diritto, la società e la scienza non possono permettersi di eludere.

2. Il servizio: tra promessa scientifica e narrazione commerciale

l pacchetto “Nucleus Embryo”, proposto al costo di circa 5.999 dollari, si presenta come un servizio altamente specializzato, capace di confrontare tra loro gli embrioni creati tramite IVF, analizzandone il DNA e stimando il rischio futuro di un ventaglio vastissimo di malattie, predisposizioni e tratti individuali. La promessa è semplice solo in apparenza: orientare la scelta dell’embrione da impiantare attraverso un’analisi genetica avanzata, quasi si trattasse di una valutazione comparativa di beni di consumo piuttosto che di potenziali vite umane.

La tecnologia alla base di questo processo si fonda sui polygenic risk score: strumenti statistici sofisticati che aggregano migliaia di varianti genetiche e restituiscono valori probabilistici, non deterministici. Il fascino di questi punteggi risiede nella loro eleganza matematica, ma la stessa eleganza è anche ciò che può indurre in errore il pubblico meno avvezzo alle sfumature dell’analisi genomica. Un rischio elevato presentato con un grafico colorato può sembrare più vero di quanto sia; un rischio moderato può apparire trascurabile solo perché la curva è meno ripida. La scienza, purtroppo, non sempre parla il linguaggio essenziale delle brochure commerciali.

Gli studi più autorevoli sottolineano, con crescente insistenza, che l’affidabilità dei polygenic score crolla proprio nel contesto più delicato: la scelta tra embrioni appartenenti alla stessa coppia. Le differenze genetiche tra fratelli e sorelle – anche allo stadio embrionale – sono infatti estremamente sottili, talmente sottili da rendere le previsioni statistiche spesso indistinguibili dal rumore di fondo. Eppure, nella narrazione promozionale, queste lievissime oscillazioni vengono tradotte in indicazioni quasi oggettive, come se tra due embrioni vi fosse un divario genetico paragonabile a quello tra due popolazioni diverse.

Il risultato è un report impeccabile nella forma, ricco di grafici, percentili e punteggi, che sembra suggerire una possibilità concreta di “ottimizzare” il figlio futuro. Ma dietro questa estetica della precisione scientifica si cela una fragilità strutturale: la distanza tra il dato probabilistico e la sua interpretazione pratica. Una distanza che il marketing tende ad appiattire, come se l’incertezza fosse un inconveniente correggibile con un buon design grafico.

In definitiva, ciò che viene venduto come un avanzamento oggettivo della medicina riproduttiva rischia di essere, più modestamente, una proiezione di desideri moderni sulla superficie luccicante della genetica predittiva. E dietro l’idea seducente di selezionare “l’embrione migliore” si nasconde la verità più sobria – e meno glamour – che la scienza, almeno allo stato attuale, non può garantire ciò che la comunicazione commerciale lascia intendere.

3. Il nodo etico della disuguaglianza genetica

Il primo terreno problematico è quello della disuguaglianza, forse il più immediato ma anche il più insidioso. L’accesso combinato a IVF e screening genetico, operazioni dall’elevato costo economico e simbolico, finisce per attribuire a una parte della popolazione un margine competitivo – reale o, talvolta, solo percepito – nella possibilità di orientare alcune caratteristiche del futuro figlio. Chi può sostenere tali spese si colloca in una posizione di privilegio che trascende il mero potere d’acquisto: si traduce in una sorta di “vantaggio riproduttivo” che non ha precedenti nella storia recente. Chi, invece, non può permetterselo resta inevitabilmente ai margini, non solo del mercato, ma della possibilità stessa di partecipare a questo nuovo modello di selezione prenatale.

Si delinea così una dinamica che rischia di introdurre una forma di stratificazione sociale inedita, fondata non più – o non solo – su reddito, istruzione o capitale culturale, ma su ciò che potremmo definire, senza troppi giri di parole, “vantaggi genetici acquistabili”. Una formula che, per quanto volutamente diretta, descrive con precisione la posta in gioco: la possibilità che il patrimonio genetico diventi una dimensione economicamente modulabile, e dunque commerciabile.

Il pericolo, qui, non è soltanto teorico. L’idea di poter “migliorare” statisticamente alcuni tratti del proprio figlio crea una distanza crescente tra chi può accedere a questi strumenti e chi ne resta escluso. Una distanza che, nel tempo, potrebbe tradursi in disparità crescenti anche sul piano sociale: se certe predisposizioni, longevità attese o resistenze a particolari patologie venissero percepite come il risultato di scelte prenatali, la linea di separazione tra “chi ha potuto scegliere” e “chi non ha potuto” assumerebbe un rilievo quasi antropologico.

In prospettiva, rischiamo di trovarci di fronte a una società divisa non solo da condizioni materiali, ma da aspettative genetiche differenti. Una società in cui le opportunità biologiche non sarebbero più un fatto casuale, ma il riflesso diretto del reddito familiare. E benché l’immagine possa sembrare vagamente distopica, essa merita di essere considerata oggi, anziché quando sarà troppo tardi per governarne gli esiti.

4. Il paradigma culturale: tra ottimizzazione e selezione

Il secondo problema riguarda il terreno, ancora più scivoloso, della cultura che rischiamo di costruire intorno a questi servizi. La scelta dell’embrione non è un atto tecnico neutro: è un gesto carico di aspettative, paure, simboli e proiezioni. Quando un report genetico indica un rischio maggiore di depressione, autismo o altre condizioni sensibili, la reazione – profondamente umana e perfettamente comprensibile – può essere quella di privilegiare un embrione ritenuto “più sicuro”, o quantomeno meno problematico. Ed è proprio in questa zona grigia, fatta di emozioni legittime e informazioni parziali, che il confine tra prudenza riproduttiva e selezione implicita diventa sorprendentemente sottile.

Bioeticisti e associazioni di settore invitano da tempo alla cautela: lasciato privo di un dibattito pubblico serio, questo processo può condurre verso forme di eugenetica commerciale, sofisticate nella tecnologia ma elementari nella logica. A guidare le scelte non sarebbe la scienza, che peraltro non offre certezze in questo campo, ma il marketing, con la sua straordinaria capacità di trasformare una probabilità in una promessa e un’incertezza in un difetto da evitare. È la dinamica dell’“efficientamento” applicata alla vita prima ancora che questa inizi, con l’effetto collaterale di assimilare i futuri figli a prodotti da selezionare in funzione delle “specifiche” più rassicuranti.

Ma la questione non si limita alla potenziale deriva eugenetica. C’è un rischio più silenzioso, e proprio per questo più insidioso: quello di erodere la riflessione collettiva sul valore intrinseco di ogni vita umana, sostituendola gradualmente con una narrazione in cui alcune esistenze appaiono più “accettabili” di altre. Un rischio che si aggancia, quasi senza che ce ne accorgiamo, alla logica contemporanea della performance: la vita merita se parte con le “giuste premesse”, se promette un potenziale desiderabile, se non presenta “indicatori di rischio” troppo vistosi.

Il pericolo, in ultima analisi, è quello di ridurre la complessità dell’essere umano a una serie di percentuali e grafici, delegando a un algoritmo – e a chi lo commercializza – la valutazione di ciò che è degno, desiderabile o compatibile con un ideale di normalità sempre più standardizzato. Senza una riflessione ampia, pubblica e consapevole, il passaggio dalla prevenzione alla selezione potrebbe diventare talmente graduale da non lasciarci nemmeno il tempo di accorgercene. Il che, se vogliamo concederci una punta di ironia, è il modo più elegante – e più pericoloso – con cui si sono spesso affermate le peggiori idee.

5. Il rischio sistemico: chi decide quale vita vale di più?

Accettare che slogan come «Have your best baby» diventino la norma significa, in sostanza, affidare a soggetti privati – aziende, investitori, incubatori tecnologici – il potere di definire quali vite siano “preferibili”, “ottimali” o semplicemente più meritevoli di venire al mondo. Non è una delega simbolica: è un trasferimento effettivo della capacità di orientare immaginari collettivi, criteri di desiderabilità e perfino aspettative sulla “qualità” della prole. In altre parole, significa permettere al mercato di modellare l’idea stessa di normalità biologica.

È una posizione scivolosa, perché sposta la discussione etica dal foro pubblico – dove potrebbe essere affrontata con consapevolezza e pluralismo – a un modello consumistico che tende naturalmente ad appiattire le complessità e a segmentare perfino la nascita in target e fasce di prezzo. La vita, in questo schema, rischia di perdere il suo carattere intrinsecamente non negoziabile per assumere contorni più simili a quelli di un prodotto di fascia alta: differenziato, personalizzabile, e – perché no – potenziabile.

Il rischio non è soltanto teorico. Una volta che la logica della scelta “migliore” si radica nel linguaggio e nelle abitudini, ciò che oggi appare provocatorio diventa rapidamente banale. E da qui lo scivolamento è naturale: se posso scegliere tra embrioni quello con il minor rischio statistico di alcune patologie, perché non dovrei voler intervenire anche su tratti considerati “desiderabili” dalla cultura dominante? Non è difficile immaginare un futuro in cui preferenze estetiche o inclinazioni cognitive inizino a essere presentate come semplici opzioni aggiuntive, magari racchiuse in un pacchetto “premium plus”.

Un sorriso amaro nasce spontaneo all’idea che, un domani, perfino la selezione del colore degli occhi o della predisposizione musicale del nascituro possa finire in abbonamento mensile, magari con uno sconto fedeltà per chi rinnova per la seconda gravidanza. Ironia, certo; ma non un’ironia del tutto innocua. Perché è proprio attraverso questi piccoli paradossi che si intravede la possibile deriva: una normalizzazione progressiva della scelta biologica guidata dal mercato, in cui la distinzione fra desiderio, aspettativa sociale e pressione commerciale diventa sempre più sfumata.

Ed è in quella sfumatura che si annida la vera inquietudine. Perché quando la linea che separa l’innovazione dalla selezione si fa troppo sottile, non basta più sorridere amaramente: occorre interrogarsi apertamente su quale futuro stiamo consegnando, non solo alla tecnologia, ma alla nostra idea più profonda di umanità.

6. Uno sguardo al futuro

Il tema non riguarda soltanto chi ricorrerà alla fecondazione assistita: riguarda ciascuno di noi, perché contribuisce a modellare il contesto culturale, giuridico e persino simbolico nel quale le nuove generazioni nasceranno, cresceranno e impareranno a percepire se stesse. Le scelte che compiamo oggi, in apparenza circoscritte al campo della biotecnologia riproduttiva, esercitano in realtà un’influenza discreta ma profonda sulla maniera in cui la società definisce il concetto di “normalità” e quello di “possibilità”. E, come sempre accade quando il diritto incontra l’innovazione, la questione non è decidere se cambierà qualcosa, ma come e a vantaggio di chi.

Le tecnologie genomiche avanzano con un ritmo quasi esponenziale; le promesse commerciali si moltiplicano, spesso in anticipo rispetto alle effettive certezze scientifiche; e la sottile linea che separa la cura dal potenziamento tende progressivamente ad assottigliarsi, talvolta fino a diventare indistinguibile. Ciò che oggi è presentato come un semplice supporto decisionale potrebbe, in pochi anni, trasformarsi in una prassi consolidata, un’aspettativa sociale o perfino un criterio di responsabilità genitoriale. Il rischio è che ciò che nasce come libertà di scelta si trasformi, senza dichiararlo, in un nuovo dovere implicito: scegliere “il meglio” per il proprio figlio, secondo parametri stabiliti non dalla comunità, ma dal mercato.

La sfida, nei prossimi anni, sarà dunque quella di costruire una cornice regolatoria e culturale capace di valorizzare l’innovazione senza scivolare nella tentazione di trattare l’essere umano come un prodotto ottimizzabile, un bene perfezionabile a colpi di algoritmi e statistiche. Non si tratta di frenare il progresso, ma di assicurarsi che il progresso non scavalchi gli spazi essenziali dell’etica, della dignità e del pluralismo sociale. Il diritto – e con esso la società – dovrà interrogarsi su come tutelare il valore intrinseco di ogni vita senza ostacolare i benefici reali delle nuove tecnologie, evitando che la promessa di “massimizzazione” genetica si tramuti in una nuova forma di conformismo biologico.

Un equilibrio delicato, certo; ma proprio per questo assolutamente necessario. Perché la posta in gioco non è soltanto la governance della genetica predittiva, bensì la definizione di ciò che, come comunità, riteniamo accettabile, desiderabile o semplicemente possibile quando parliamo del futuro dell’umanità. In questo senso, le scelte di oggi non ricadono sulle tecnologie, ma sulle nostre idee più profonde di libertà, vulnerabilità e uguaglianza. E saranno quelle idee – non gli algoritmi – a determinare il mondo in cui le generazioni future impareranno a vivere.


Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.

Anna Romano

Co-responsabile di sezione a Salvis Juribus
Nata a Napoli nel 1993, ha conseguito la laurea in giurisprudenza nel marzo 2017 con votazione di 100/110, presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II, discutendo una tesi in Cooperazione Giudiziaria dal titolo "Le procedure estradizionali nel contesto dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia", relatore Prof.ssa Fabiana Falato. Spinta da una forte passione per le materie giuridiche, già durante il percorso universitario ha collaborato con una Rivista giuridica, Salvis Juribus, inizialmente redigendo articoli di approfondimento su specifiche tematiche inerenti l’ambito della contrattualistica, la responsabilità civile e l’edilizia. In seguito, ha rivestito un ruolo di responsabilità all’interno della medesima Rivista occupandosi del coordinamento degli Autori e della relativa gestione per quanto concerne la Sezione “Famiglia”. Nel marzo 2017, inoltre, la tesi di laurea ha ricevuto la dignità scientifica essendo stata pubblicata sulla Rivista Salvis Juribus.

Articoli inerenti

Natura giuridica e valore probabilistico del “danno significativo” nell’uso dell’Intelligenza Artificiale

Natura giuridica e valore probabilistico del “danno significativo” nell’uso dell’Intelligenza Artificiale

di Michele Di Salvo La Commissione Europea, il 6 febbraio scorso, ha fornito chiarimenti interpretativi e indicazioni operative. In questo...

Il trust e il suo utilizzo nell’arte

Il trust e il suo utilizzo nell’arte

Sommario: 1. Il trust – 2. Il trust ed il passaggio generazionale della ricchezza – 3. Il trust nel mondo dell’arte 1. Il trust è un...

Sul mandato di credito e sulla sua natura giuridica

Sul mandato di credito e sulla sua natura giuridica

Sommario: 1. Il mandato di credito. La nozione – 2. La natura giuridica del mandato di credito1. Il mandato di credito. La nozione Il...

Sulla donazione di enfiteusi

Sulla donazione di enfiteusi

L’enfiteusi, che trova disciplina nel Titolo IV del Libro IV del Codice Civile, viene definita come quel rapporto giuridico in base al quale il...