Nullità selettive: tra scelta legittima e abuso del diritto

Nullità selettive: tra scelta legittima e abuso del diritto

Sommario: 1. Premessa – 2. Sanatoria del negozio nullo – 3. Conversione e riqualificazione del contratto nullo: quale discrimine? – 4. Le categorie di nullità: virtuale, strutturale e testuale – 5. Il regime processuale della nullità – 5.1. il rilievo d’ufficio e il giudicato implicito – 5.2. Il rilievo d’ufficio della nullità per altra causa: domanda di nullità come domanda autodeterminata – 5.3. Il rilievo d’ufficio della nullità integrale del contratto rispetto al quale è stata dichiarata la nullità parziale – 6. La nullità parziale ed i suoi rapporti con la nullità di protezione – 6.1. La nullità selettiva: il peculiare caso degli ordini di investimento – 7. L’abuso del diritto e il potenziale contrasto con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea – 8. Considerazioni conclusive

 

Premessa

Il presente contributo si propone di sottoporre, senza pretese di completa esaustività vista la vastità dell’istituto, a disamina le nullità contrattuali. Partendo dal generale e giungendo al particolare, passando dalla natura di tale forma d’invalidità, dalle sue caratteristiche sostanziali e ai riverberi che queste hanno in sede processuale, si analizzeranno le modalità attraverso le quali la giurisprudenza ha fatto dialogare la nullità con i principi generali dell’ordinamento e, nella specie, con il canone della buona fede, con il principio della domanda e con l’abuso del processo.

1. La nullità come species di invalidità

La nullità è una forma di invalidità che esprime un giudizio di disvalore dell’ordinamento rispetto ad un determinato modello negoziale nel suo complesso o relativamente a determinati elementi che, mancando nel contratto, o essendone viziati, finiscono per produrre un effetto disapprovato dal sistema in quanto lesivo di interessi di carattere generale e super individuale. Alla categoria dell’invalidità afferiscono tanto l’annullabilità quanto la nullità, due forme di fisiologica disfunzione del contratto cui l’ordinamento reagisce diversamente.

La nullità, rappresentando la forma più grave di patologia che affligge il negozio giuridico, in ragione del contrasto perpetrato dal negozio con interessi superiori, riceve un trattamento di radicale censura: diversamente dal contratto annullabile, che produce effetti fintanto che non ne venga pronunciata l’invalidità, con sentenza costitutiva avente efficacia ex tunc, il negozio nullo è inefficace sin dall’origine e non è in grado di produrre alcun effetto.

La sentenza di nullità, infatti, è meramente dichiarativa e si limita a riconoscere al negozio un’inefficacia che gli preesiste: la dichiarazione di nullità implica che tutto ciò che è stato eseguito in adempimento del negozio nullo va restituito, in quanto non trova fondamento nel negozio, secondo il brocardo quoad nullum est, nullum producit effectum.

La nullità, in quanto conseguenza di un’inefficacia originaria del contratto, è di regola insanabile e la natura pubblica ed indisponibile dell’interesse presidiato giustificano un trattamento processuale diverso rispetto a quello riservato all’annullabilità.

Tale forma di invalidità, diversamente dall’annullamento, può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse (si parla, in tal senso, di legittimazione assoluta), è rilevabile d’ufficio e la relativa azione è imprescrittibile.

L’annullabilità, che invece tutela un interesse particolare, quindi nella disponibilità delle parti, è una forma di invalidità che consente al contratto annullabile di essere provvisoriamente efficace. La relativa azione è sottoposta a prescrizione, è normalmente sanabile attraverso la convalida espressa o tacita.

Quanto ai profili processuali, poi, per l’annullabilità la legittimazione ad agire è relativa, potendo essere fatta valere solo dalla parte nel cui interesse è prevista e la relativa invalidità non è rilevabile d’ufficio.

Ulteriori profili differenziali si colgono in relazione ai rapporti rispetto ai terzi atteso che (fermo quanto previsto dai meccanismi di pubblicità sanante ex art. 2652 n. 6 c.c.), la nullità è loro opponibile e travolge, dunque, anche i diritti eventualmente acquistati dai terzi.

Invece, con riferimento agli effetti dell’annullamento, opera l’art. 1445 c.c., secondo il quale l’annullamento che non dipende da incapacità legale non pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi in buona fede, salvi gli effetti derivanti dalla trascrizione della domanda giudiziale (che, ove trascritta anteriormente all’atto di acquisto, pregiudica il diritto acquistato dal terzo). Quindi, di regola, il terzo che ha acquistato in buona fede a titolo oneroso, senza dunque conoscere la causa di annullabilità che inficiava il titolo del suo dante causa, non subisce gli effetti della sentenza di annullamento, salvo che abbia trascritto il suo acquisto quando già era trascritta una domanda di annullamento.

Diversamente, nel caso della nullità non opera la salvezza degli effetti in favore dei terzi: di regola, per tale forma di invalidità, vale il principio “resoluto iure dantis, resolvitur et ius accipientis”, quindi la nullità è opponibile anche ai terzi, salvi gli effetti della c.d. pubblicità sanante.

Per mezzo di questa il terzo, generalmente pregiudicato dalla pronuncia di nullità eccezionalmente, potrà veder fatto salvo il proprio acquisto se la domanda giudiziale diretta a far dichiarare la nullità dell’atto di acquisto soggetto a trascrizione venga trascritta decorsi i cinque anni dalla data della trascrizione dell’atto di acquisto impugnato.

Il legislatore prevede, ai fini di un completo dispiego degli effetti della pubblicità sanante, che il terzo sia stato in buona fede (e, cioè, non conoscesse della causa di invalidità dell’atto d’acquisto poi impugnato) e che abbia provveduto a trascrivere il suo atto d’acquisto anteriormente alla trascrizione della domanda giudiziale volta a far dichiarare la nullità.

2. Sanatoria del negozio nullo

Analizzando la nullità per differenza rispetto al regime dell’invalidità che consegue ai vizi di annullabilità, va evidenziato come questa non ammetta il rimedio, generalmente ammesso nell’annullabilità, della convalida ex art. 1444 c.c.

Ed infatti, dispone l’art. 1423 c.c. che il contratto nullo non può essere convalidato, salvo che la legge disponga diversamente.

La ratio della diversa modalità di trattamento dei due regimi della convalida risiede prevalentemente nel diverso interesse che ciascuna delle due invalidità intende presidiare: l’annullabilità, in quanto volta a cautelare la parte svantaggiata dall’accordo, può essere convalidata solo ove questa stessa parte (la stessa che ha la legittimazione all’esercizio dell’azione di annullabilità) dichiari di volerla convalidare.

La nullità, posta invece a presidio di interessi generali che trascendono quelli individuali, non è, per tale ragione, generalmente convalidabile.

Il contratto nullo, al più, può essere sanato, come testimoniato dalla previsione di cui all’art. 590 c.c. ove il legislatore dispone che, ove chi, conoscendo la causa della nullità, ha, dopo la morte del testatore, confermato la disposizione o dato ad essa volontaria esecuzione, la disposizione deve intendersi sanata e la possibilità di far valere la nullità della disposizione testamentaria totalmente esclusa.

Ulteriori forme di sanatoria della nullità sono, poi, previste nell’ambito di alcuni contratti come, ad esempio, rispetto ai contratti di lavoro dove è previsto, dall’art 2126 c.c., che se è stata data esecuzione al contratto di lavoro dichiarato nullo, la cui nullità non dipenda dall’illiceità dell’oggetto e della causa, il lavoratore ha comunque diritto alla restituzione per la prestazione svolta.

Particolare rilevanza ai fini della disamina possiede, poi, anche la disciplina della nullità del contratto di società ossia quel contratto che, fino alla registrazione della società presso il registro delle imprese, possiede una valenza meramente interna, obbligando le parti ad effettuare i conferimenti ivi previsti.

Successivamente all’iscrizione, mediante la quale essa consegue la personalità giuridica e inizia a operare anche all’esterno, invece, acquista la sua piena cogenza anche all’esterno.

Tuttavia, al fine di garantire la stabilità delle relazioni commerciali nel corso del tempo poi intrattenutesi, l’art. 2332 c.c. esclude la possibilità generale di dichiarare la nullità, prevedendo una serie di ipotesi eccezionali e tassative di nullità, onde preservare la stabilità degli ormai intessuti rapporti commerciali.

Ulteriore ipotesi di sanatoria conosciuta al sistema è, ancora, la sanatoria del contratto di trasferimento del diritto reale privo della cd. menzione urbanistica, cioè dell’indicazione del titolo sulla cui base l’immobile è stato realizzato.

In tal caso, l’art. 43 del d.p.r. 380 del 2001 prevede espressamente che, laddove la mancata indicazione del titolo non dipende dalla sua inesistenza (nel qual caso, la nullità sarebbe insanabile), essendosi in presenza di una mera carenza meramente formale, l’omissione è sanabile mediante una menzione successiva, che può provenire anche dall’acquirente.

Va precisato che, in tale evenienza, il legislatore non colpisce con la nullità la vendita dell’immobile abusivo: tale negozio non ha di per sé un oggetto illecito non essendo, l’immobile abusivo, incommerciabile.

Diversamente, sarebbe illecito il contratto avente per oggetto la costruzione dell’immobile abusivo, non il trasferimento dell’immobile abusivo.

Pertanto, ove il titolo non dovesse esistere, la nullità sarebbe inevitabilmente insanabile; esistendo, invece, il titolo, lo stesso può essere indicato anche ex post.

L’eventualità che l’immobile risulti non conforme rispetto al titolo, invece, non costituirebbe un problema di validità civilistica, perché il contratto è valido; al più, costituirà un problema urbanistico o di adempimento o di vizio del bene (in caso di ignoranza sulla difformità del bene rispetto al titolo).

3. Conversione e riqualificazione del contratto nullo: quale discrimine?

Sebbene, come detto, il contratto nullo sia insuscettibile di convalida, lo stesso risulta tuttavia convertibile, ex art. 1424 c.c., in altro contratto diverso del quale contenga i requisiti di sostanza e forma quando, avendo riguardo allo scopo perseguito dalle parti, si può concludere che le stesse lo avrebbero voluto ove avessero conosciuto della nullità.

Da un punto di vista eminentemente processuale, la conversione richiede, tuttavia, un’istanza di parte e non può essere rilevata d’ufficio: pertanto, rilevata giudizialmente la nullità, la parte che ha interesse alla conversione deve, nella prima difesa successiva, fare istanza di conversione e chiedere che il negozio venga convertito.

Diverso è, invece, il funzionamento della riqualificazione del negozio che può essere effettuata anche d’ufficio, in quanto il negozio non è nullo, ma viene semplicemente riqualificato. Quindi viene interpretato e qualificato diversamente, ritenendo ad esempio che un determinato contratto sia in realtà un altro.

Giova evidenziare che il confine tra conversione e riqualificazione non è sempre netto; la questione, da ultimo, è stata sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite relativamente al cd. mutuo edilizio eccedentario, cioè il mutuo finanziato per una somma eccedente rispetto al limite dell’80% del valore dell’immobile oggetto dell’ipoteca ipoteca che garantisce il finanziamento accordato come, invece, prescritto dall’art. 38, co. 2 T.U.B.

La questione acquisisce rilevanza a misura che ci si interroghi sulle conseguenze derivanti dalla violazione della regola che impone il suddetto limite di finanziabilità.

Si contendevano il campo tre diverse impostazioni ermeneutiche: secondo una prima tesi, la violazione di detto limite non avrebbe inciso sulla validità del contratto attesa la funzionalità di detto limite a presidiare una correttezza comportamentale dell’ente bancario in favore della stabilità del mercato creditizio e, pertanto, sanzionabile  solo sul piano amministrativo[1].

Si evidenziava, infatti, che ritenere diversamente avrebbe significato prevedere, per la banca, una soluzione più dannosa del problema che ci si proponeva di ovviare: assoggettando la violazione del limite di finanziabilità al regime della nullità, infatti, in ossequio al brocardo “quoad nullum est, nullum producit effectum” e alle regole restitutorie ad esso annesse, l’istituto di credito avrebbe, in quel modo, intanto, dovuto rinunciare alla prosecuzione del rapporto negoziale e, più ancora, per poter recuperare dal privato le somme date a titolo di finanziamento, avrebbe dovuto perdere la garanzia ipotecaria, non potendosi più avvalere del mutuo assistito da tale garanzia, in quanto nullo.

Una seconda impostazione[2], invece, pur mirando a ricondurre la violazione del limite di finanziabilità al regime della nullità, in ragione della riconduzione del limite di finanziabilità ad elemento di struttura qualificante del tipo “mutuo edilizio”, riteneva di poter attivare, in tale evenienza, il regime di conversione ex art. 1424 c.c. del mutuo fondiario in mutuo ordinario assistito da ipoteca ordinaria. Tale soluzione, però, veniva criticamente censurata per l’aver introdotto un’opzione che, da un punto di vista processuale, presenta profili di delicatezza: si evidenziava, infatti, la non rilevabilità d’ufficio della conversione che va, piuttosto, va eccepita dalla parte interessata entro la prima difesa utile. Veniva, inoltre, rilevato che, da un punto di vista pratico, tramite la conversione del mutuo fondiario in mutuo ordinario assistito da ipoteca, la banca avrebbe perso le garanzie privilegiate del primo e, cioè, il consolidamento accelerato dell’ipoteca fondiaria e la possibilità, per la banca, di esercitare, nei confronti del debitore eventualmente fallito, l’azione esecutiva individuale, agendo direttamente sull’immobile, senza attendere l’apertura della procedura fallimentare (rectius, liquidazione giudiziale).

Una terza impostazione giungeva, invece, allo stesso risultato “sostitutivo” del mutuo fondiario con il mutuo ordinario assistito da ipoteca ma facendo leva sul potere di riqualificazione del Giudice.

Ed infatti, se il limite di finanziabilità ex art. 38, co. 2 T.U.B. va inteso quale elemento strutturale e tipizzante del negozio, non occorrerebbe un’istanza di conversione dalla parte interessata perché è lo stesso giudicante che, interpretando il negozio e avuto riguardo alle intenzioni delle parti, rilevando la mancanza dell’elemento tipico, non può che ravvisare in quel contratto, invero, l’avvenuta stipula di un mutuo ordinario.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione[3], con la sentenza n. 33719 del 16 novembre 2022, hanno accolto la prima tesi, ritenendo che la violazione del limite dell’80% nel mutuo fondiario non comporta nullità del contratto.

È stato, infatti, rilevato come il limite di finanziabilità non sia un elemento essenziale del contratto, ma una regola tecnica di prudente gestione. Di tal ché, la sua violazione non comporta nullità del contratto di mutuo ed il contratto resta valido come mutuo fondiario, anche se la somma supera il limite. Conseguentemente, non sarà possibile per il giudice riqualificare d’ufficio il contratto come mutuo ordinario, né per la parte sarà possibile invocare l’art. 1424 c.c. ai fini della conversione, perché non si è in presenza di un contratto nullo.

4. Le categorie di nullità: virtuale, strutturale e testuale

Le considerazioni svolte dalle Sezioni Unite in materia di mutuo fondiario di cui supra hanno avuto una particolare rilevanza anche in merito all’individuazione esatta di quel che può dirsi “norma imperativa”, la cui violazione può dare la stura ad una delle tre forme di nullità e, specificamente, la c.d. nullità virtuale.

Generalmente, quanto alle cause che danno luogo a nullità, può dirsi che il sistema conosce un trittico di ipotesi da ricondursi, ex art.1418 c.c., rispettivamente alla categoria della nullità virtuale, a quella della nullità strutturale ed infine alla nullità testuale.

Alla prima categoria di nullità afferiscono tutte le ipotesi nelle quali il regolamento contrattuale risulti contrario a norme imperative.

Comprendere, tuttavia, quando la norma sia imperativa e quando la sua violazione dia concretamente la stura ai rimedi predisposti in caso di nullità è operazione ermeneutica non sempre agevole.

Con la pronuncia in materia di mutuo eccedentario, in particolare, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha avuto modo di definire, in maniera più precisa, i confini del concetto di norma imperativa:  può dirsi norma imperativa quella norma che si occupa del contratto o dei suoi elementi intrinseci e strutturali, mirando a vietare uno specifico contenuto contrattuale; che abbia natura inderogabile; che possieda un contenuto sufficientemente specifico e, infine, che sia posta a presidio di interessi generali (diversamente da quanto si ritenne per il limite di finanziabilità, posto, invece, a tutela della tenuta del sistema creditizio quale interesse particolare).

La nullità può, poi, essere strutturale, nella misura in cui risulti carente dei suoi elementi essenziali, ex art. 1325 c.c. e, dunque, dell’accordo, dell’oggetto, della forma ove richiesta ai fini della validità o della causa.

Potrebbe, infatti, riscontrarsi la carenza dell’accordo, come nell’ipotesi di vendita, uti condominus, del bene in comproprietà ma senza il consenso delle altre parti, sanzionata con la nullità.

Potrebbe mancare completamente l’oggetto o essere lo stesso impossibile, indeterminato o                                 indeterminabile; potrebbe mancare la forma prescritta per la validità o, infine, potrebbe mancare la causa.

Il giudizio sull’esistenza della causa, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale, passa oggi per la disamina della causa in concreto, con l’abbandono della causa in astratto. Infatti, non è più sufficiente quel positivo riscontro circa la conformità del tipo contrattuale che le parti hanno posto in essere rispetto al tipo astratto previsto dalla legge e al quale hanno inteso confarsi.

È invece necessario che il contratto soddisfi la funzione economico-individuale che le parti avevano inteso conseguire col contratto; la causa, identificandosi con gli interessi oggettivamente perseguiti, tramite il contratto, dalle parti, non si appiattisce più sul tipo.

Alla luce di queste riflessioni la giurisprudenza, esemplificativamente, ritiene oggi nulla la vendita con corrispettivo effettivamente sproporzionato laddove dia esito negativo la verifica circa l’eventuale intento di liberalità indirettamente perseguito dalla parte sacrificata (operando, diversamente, le regole in materia di donazione indiretta di cui all’art. 809 c.c.), in ragione dell’opacità della causa, non evincibile dal contratto.

Ancora, la nullità strutturale può dipendere da illiceità dell’oggetto, dei motivi comuni ad entrambe le parti, della causa (in caso di contrarietà del all’ordine pubblico e al buon costume) e dalla frode alla legge perpetrata dalle parti col contratto.

La nullità testuale, infine, può ricorrere in tutti i casi previsti dal legislatore (ad esempio i casi di cui agli artt. 778 c.c., 1350 c.c.).

5. Il regime processuale della nullità

5.1. il rilievo d’ufficio e il giudicato implicito

Quanto al regime processuale, il tema della rilevabilità d’ufficio della nullità è stato oggetto di un dibattito giurisprudenziale molto ampio.

La principale obiezione che originava il dibattito risiedeva nel fatto che, così come interpretata, la rilevabilità d’ufficio non riusciva a dialogare correttamente con il principio della domanda[4]: si riteneva, infatti, che il Giudice non sempre potesse rilevare d’ufficio la nullità e che bisognava verificare se, nel caso di specie, rilevando d’ufficio la nullità, il giudice andasse ultrapetita, dando all’attore più di quanto egli abbia domandato.

La giurisprudenza[5] operava, sul punto, un distinguo tra le domande dirette ad ottenere l’esecuzione del contratto, nel qual caso il rilievo ufficioso mira ad evidenziare l’infondatezza della pretesa in ragione dell’ineseguibilità del contratto, in quanto nullo, e le domande dirette ad ottenere la caducazione o lo scioglimento del vincolo, come nei casi di domande di annullamento, rescissione o risoluzione.

In tutte queste ipotesi non si riteneva sussistente il potere del rilievo d’ufficio perché contrastante con la domanda attorea e costitutivo, altrimenti, di un vizio di ultrapetizione: all’attore sarebbe toccato, in tal modo, un’utilità maggiore di quella insita nel petitum della sua domanda.

Tale idea fu, però, successivamente scardinata dalle Sezioni Unite[6] con una considerazione assorbente: le domande di risoluzione, rescissione o annullamento non possono trovare alcun accoglimento ove il contratto fosse nullo perché sono tutte domande che presuppongono la provvisoria efficacia del contratto o, in ogni caso, la sua non nullità.

I diritti alla risoluzione, alla rescissione e all’annullamento, osservano le Sezioni Unite, sono diritti potestativi, ad esercizio giudiziale (salvi i casi di risoluzione stragiudiziale) che nascono in quanto un contratto efficace, in punto di non nullità, vi sia.

È indubbio che, rispetto ad essi, la questione relativa alla nullità del contratto è una questione evidentemente pregiudiziale di cui il giudice deve occuparsi, sicché non residuerebbe spazio per discutere di un eventuale problema di ultrapetizione.

Un tema da attenzionare è, semmai, l’eventualità che il rigetto della domanda di annullamento, risoluzione o rescissione, per rilievo d’ufficio di nullità in qualità di questione pregiudiziale, dia poi vita ad un giudicato sulla nullità.

La risposta resa dalle Sezioni Unite è stata affermativa: il rigetto della domanda per nullità del contratto implica un giudicato sulla nullità e ciò, per diversi ordini di ragione.

Da un punto di vista sostanziale, infatti, non sarebbe accettabile, per l’ordinamento, che un negozio venisse giudizialmente accertato come nullo ai soli fini del rigetto e che, tuttavia, continuasse a vagare nel sistema nonostante il gravissimo vizio dal quale è affetto.

La conclusione della sussistenza di un giudicato esteso alla nullità viene poi confortata da ragioni strettamente processuali: infatti, da tale prospettiva, deve osservarsi che tra la domanda di annullamento, risoluzione o rescissione e la nullità sussiste un rapporto di pregiudizialità logica e non di pregiudizialità tecnica ex art. 34 c.p.c. che, ove esistente, impedirebbe senz’altro al giudicato di formarsi sulla questione incidentale (in quanto decisa, secondo il principio di cui al richiamato art. 34 c.p.c., incidenter tantum).

Nella nostra ipotesi, infatti, la non nullità è l’antecedente logico necessario del rimedio che viene attivato (rectius, annullamento, risoluzione o rescissione): non si tratta di un rapporto tra due diritti, di cui ciascuno è in grado di fornire una propria utilità finale a chi ne è titolare (ad esempio, accertare lo status di figlio è pregiudiziale rispetto alla sussistenza del diritto agli alimenti e qui ciascuno dei due diritti ha una sua utilità compiuta) che verrebbe, se del caso, trattata ex art. 34 c.p.c.

Nel caso del riscontro di nullità di un negozio rispetto al quale le parti richiedono la risoluzione, l’annullamento o la rescissione, il Giudice si trova al cospetto di una pregiudizialità tra un rapporto giuridico (se esiste o non esiste) e i singoli effetti  che ne derivano.

Ne discende che, «Il giudice, innanzi al quale sia stata proposta una qualsiasi azione di impugnativa negoziale (di adempimento, risoluzione, annullamento, rescissione), se non rigetta la domanda sulla base della individuata “ragione più liquida”, ha l’obbligo di rilevare ex officio, e di indicare alle parti ai fini dell’attivazione del contraddittorio, l’esistenza di una causa di nullità negoziale, ancorché soggetta a regime speciale[7].

Il giudicato si potrebbe, poi, formare anche sulla non nullità[8], e ciò accade tutte le volte nelle quali il giudice esamina nel merito la domanda di annullamento, risoluzione o rescissione, con una motivazione che, inequivocabilmente, implica l’idea che il contratto non sia nullo (ad esempio, verifica se c’è stato inadempimento, se l’eventuale inadempimento è grave) e decide così, implicitamente, sulla non nullità.

La motivazione deve, però, inequivocabilmente inferire rispetto alla non nullità: il giudicato implicito di non nullità deve, infatti, essere univoco. Diversamente, il giudicato non riuscirebbe a coprire, tra le altre, anche la questione relativa alla nullità del negozio.

In ogni caso, hanno precisato le Sezioni Unite, che, fermo il potere del rilievo ufficioso di nullità in qualsiasi stato e grado del processo, il Giudice, una volta riscontrata tale invalidità, deve sottoporre alle parti la questione, stimolando il contraddittorio mai svoltosi sulla questione ex art. 112 c.p.c. (c.d. divieto della terza via).

Sottoposta alle parti la questione, queste potranno proporre domanda giudiziale di nullità anche se diversa dalla loro azione originaria (atteso che il rilievo ufficioso giustifica la proposizione di domande nuove nel corso del giudizio) e il giudice accoglierà la domanda di nullità, rigettando, poi, la domanda originaria e si pronuncerà, nel dispositivo, su ambedue le domande. In tale evenienza, il giudicato si formerà anche sulla nullità.

Potrebbe, però, darsi il caso che la questione, sebbene sottoposta alle parti, non venga da queste fatta oggetto di autonoma e specifica domanda di nullità; le parti si potrebbero, infatti, limitare ad insistere nelle loro rispettive difese.

In tal caso, il Giudice, se dovesse ritenere il contratto nullo, dovrà dichiarare in motivazione la nullità, sulla quale questione scenderà parimenti il giudicato, come nell’altra evenienza ma, diversamente da quella, in questo caso non potrà dichiarare nel dispositivo il rigetto della domanda di nullità (in quanto mai proposta) ma dichiarerà solo il rigetto della domanda.

Sebbene in entrambi i casi scenda il giudicato sulla nullità, il fatto che solo nella prima ipotesi la nullità venga dichiarata in dispositivo ha un rilievo non indifferente ai fini della c.d. pubblicità sanante.

La Suprema Corte, infatti, sul punto rileva che solo in presenza di una domanda di nullità formale la sentenza sarà opponibile ai terzi aventi causa (ove la domanda giudiziale venisse trascritta nei registri pubblici entro i cinque anni dalla data di trascrizione dell’atto negoziale).

Se invece le parti dovessero desistere dal proporre la domanda di nullità, la sentenza contenente il rigetto della domanda principale, in ragione della riscontrata nullità motivata ma non sussumibile nel dispositivo, non sarà opponibile ai terzi di buona fede che abbiano trascritto anteriormente il loro atto di acquisto.

5.2. Il rilievo d’ufficio della nullità per altra causa: domanda di nullità come domanda autodeterminata

Il potere di rilevare d’ufficio la nullità, poi, si estende alle ipotesi nelle quali la domanda attorea abbia ad oggetto la nullità del negozio per una data causa (ad esempio, il difetto di forma) ma, il Giudice riscontri, invece, la nullità del contratto per illiceità.

In tal caso, la nullità deve essere rilevata dal Giudice e sottoporla al contraddittorio delle parti rinvenendosi, la ratio del potere d’ufficio, la natura autodeterminata della domanda di nullità, tale per cui il Giudice non sarà vincolato alla qualificazione giuridica consegnata dalla parte.

5.3. Il rilievo d’ufficio della nullità integrale del contratto rispetto al quale è stata dichiarata la nullità parziale

Le Sezioni Unite, con la sentenza prima citata[9], hanno poi avuto modo di interrogarsi e di rispondere alla questione relativa la sussistenza di un potere del Giudice di dichiarare d’ufficio la nullità dell’intero contratto successivamente all’accertamento della nullità parziale ex art. 1419 c.c. di esso, ove riscontri che il residuo regolamento contrattuale risulti, alla luce di un’oggettiva valutazione complessiva, ormai completamente squilibrato.

La giurisprudenza ha fornito, invero, risposta negativa: va infatti preliminarmente ribadito che la nullità parziale di un contratto importa la nullità dell’intero contratto solo ove risulti che i contraenti non lo avrebbero concluso senza la parte colpita da nullità.

Epperò, tale risultanza deve essere l’esito di un raffronto oggettivo tra l’equilibrio originario del contratto e l’equilibrio che lo stesso ha dopo l’epurazione dalla parte invalida stimolato dal contraente che ne ha interesse.

Si badi che la funzione consegnata dal legislatore alla nullità parziale ex art. 1419 c.c. è diversa rispetto a quella che assolve, invece, la nullità nell’intero sistema.

Ed infatti, mentre quest’ultima è posta a presidio di interessi superindividuali, la nullità parziale protegge l’interesse particolare del contraente alla salvaguardare dell’equilibrio contrattuale originario, ove persistente a seguito dell’epurazione dalla clausola viziata.

Ove il residuo regolamento, per la parte che risulta svantaggiata dalla nullità parziale – e che, evidentemente, traeva vantaggio dalla clausola nulla -, dovesse divenire squilibrato, dovrà essere quest’ultima a chiedere al Giudice, nel merito, un accertamento sull’equilibrio residuo.

Il Giudice potrà, così, procedere ad una valutazione, accertando se la pretesa al travolgimento dell’intero contratto sia o meno fondata, alla luce di un oggettivo raffronto tra i due equilibri e vagliando la buona fede del soggetto da cui proviene la domanda di caducazione del residuo regolamento.

All’esito, potrà tanto affermare l’integrità dell’equilibrio contrattuale è rimasto inalterato, quanto, diversamente, affermare che l’alterazione dello stesso e, dunque, una dichiarazione atta a ritenere travolto il residuo.

È proprio per la diversità ontologica delle finalità sottese ai due rimedi che le Sezioni Unite hanno disconosciuto, in capo al Giudice, il potere di rilevare d’ufficio la nullità integrale del contratto di cui sia stata dichiarata la nullità parziale. Ed infatti, se il rilievo d’ufficio si giustifica in quanto si è al cospetto di un contratto che pone in serio pericolo l’interesse superindividuale, tale giustificazione non sussiste più di fronte alla nullità della singola clausola.

6. La nullità parziale ed i suoi rapporti con la nullità di protezione

Specificamente concentrandosi sul peculiare regime riservato alla c.d. nullità parziale, ex art. 1419 c.c., quale sub specie della nullità che, andando a colpire esclusivamente le singole parti o le singole clausole del contratto, tende a preservare il restante regolamento negoziale nei termini anzidetti, può rilevarsi la sua natura conservativa e manutentiva.

Tale rimedio trova la propria esplicazione nel brocardo utile per inutile non vitiatur, operando, come visto prima, solo ove risulti che i contraenti lo avrebbero concluso anche senza quella parte colpita dalla nullità: è dunque necessario che il contenuto vietato non sia stato l’unico e determinato motivo che ha indotto ambedue le parti a contrarre.

Inoltre, come prescritto dal secondo comma della citata norma, la nullità delle singole clausole non importa la nullità del contratto quando quelle nulle sono sostituite di diritto da norme imperative come accade, ad esempio, nel caso del patto di non concorrenza stabilito per una durata superiore a cinque anni (art. 2596, co. 2 c.c.).

Peculiare forma di nullità è, poi, prevista nel codice consumeristico che, anziché prendere in prestito la disciplina civilistica, ne ha previsto una ad hoc: la nullità di protezione.

Tale forma di nullità, specificamente, è quella nullità prevista solo in favore del contraente debole, unico abilitato ad eccepirla e a farla valere. Oltre alla restrizione in punto di legittimazione, data anche dell’interesse particolare che eccezionalmente è chiamata a presidiare qui la nullità, l’ulteriore peculiarità di tale invalidità emerge nel caso di nullità parziale: ed infatti, diversamente da quanto accade ai sensi dell’art. 1419 c.c., nel caso in cui le clausole affette da nullità afferiscano al contratto consumeristico, ove dovesse risultare che il professionista non avesse stipulato il contratto in assenza della parte o della clausola nulla, il contratto si conserva comunque.

Questa previsione tende, infatti, a sanzionare il professionista, vincolandolo ad un regolamento negoziale che sarebbe stato per lui profittevole solo in presenza di clausole vessatorie e che, epurato da queste, acquisisce un carattere più equilibrato in favore del consumatore.

6.1. La nullità selettiva: il peculiare caso degli ordini di investimento

Da un punto di vista procedurale, invece, si parla di nullità selettiva nel momento in cui il soggetto in favore del quale la nullità è prevista e che vuole avvalersene seleziona le parti del contratto rispetto alle quale intende far produrre gli effetti caducatori dell’invalidità, scegliendo, al contempo, di preservare gli effetti delle altre parti del contratto dalle quali discendono, per lui, effetti vantaggiosi.

Il tema si è recentemente posto rispetto agli ordini di investimento di cui all’art. 23 T.U.F. e alla possibilità per la parte debole, ossia il cliente investitore, congiuntamente alla domanda giudiziale di nullità del contratto quadro a monte per mancato rispetto del requisito di forma, di poter selezionare, al fine di travolgere con la nullità, i soli ordini di acquisto rivelatisi per lui svantaggiosi, pretendendone la relativa restituzione, e di tenere invece fermi quelli vantaggiosi.

Le Sezioni Unite[10], chiamate ad esprimersi sul tema hanno, invero, rilevato che in siffatta ipotesi non assume assorbente rilevanza la questione sulla sussistenza o meno di un diritto del consumatore di selezionare, ai fini della nullità, solo alcuni degli ordini di esecuzione: non è revocabile in dubbio che tale diritto vi sia e che alberghi nella previsione civilistica, di cui all’art. 36 del Codice del consumo e all’art. 1419 c.c., in forza della quale è possibile conservare la parte del contratto non viziata se quella parte non risultava determinante per il contraente.

Ed infatti, la ratio conservativa sottesa al regime delle nullità parziali non assolve alla funzione di procedere ad una sterile caducazione di parti di regolamenti contrattuali ma ha la funzione di epurare il contratto da tutte quelle parti del contratto nulle che danneggiano la parte in favore della quale sono previste, potendo salvare quelle parti che hanno, invece, oltre che una validità, una loro piena autonomia e funzionalità.

Il diritto del consumatore, così ritenuto sussistente, deve tuttavia misurarsi con l’esigenza di preservare la funzione riequilibratrice delle nullità di protezione e deve con esso dialogare.

Le Sezioni Unite hanno, infatti, rilevato che tale disciplina, se illimitata, finirebbe per assegnare al consumatore un’iper tutela; tale rischio può agevolmente essere arginato riconducendo l’esercizio del diritto di selezionare le nullità, entro i canoni della buona fede, tanto oggettiva, quanto soggettiva.

È stato, infatti, osservato che il consumatore, nell’agire ai sensi dell’art. 23 T.U.F., deve orientare la propria condotta a quel canone di buona fede ch’è richiesto tanto nell’obbligazione ex art. 1175 c.c. – dove essa funge da fonte dell’obbligazione in grado, dunque, di generarne una risarcitoria ove il comportamento di una delle parti risulti violativo della buona fede -, quanto nell’esecuzione del contratto, ex art. 1375 c.c. – dove la buona fede assume, stavolta, un ruolo valutativo del comportamento delle parti successivo alla stipula -.

Nel caso in esame, è stato osservato come risulti imprescindibile un attento esame di tutti gli investimenti complessivamente eseguiti al fine di verificare se la selezione degli ordini di pagamento sia avvenuta secondo buona fede e se, in particolare, il pregiudizio subito dal consumatore, in forza degli ordini svantaggiosi, sia superiore o almeno pari al vantaggio che gli deriverebbe dagli ordini che vorrebbe schermare dalla nullità.

Diversamente, se gli ordini vantaggiosi hanno prodotto un rendimento economico maggiore rispetto al petitum azionato, la pretesa di selezionare la nullità degli ordini di esecuzione svantaggiosi sarebbe infondata e verrebbe senz’altro fatto salvo il diritto dell’intermediario di sollevare l’eccezione di buona fede finalizzata a paralizzare quella richiesta che finisce per favorire un ingiustificato sacrificio economico per lui e un’inopportuna occasione speculativa per il consumatore.

A tale conclusione, il Giudicante è pervenuto ancorandosi al principio, immanente al sistema, che impone al titolare del diritto di esercitarlo negli stretti limiti in cui gli è utile, sfuggendo ad ogni occasione potenzialmente abusiva dello stesso.

7. L’abuso del diritto e il potenziale contrasto con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea

L’abuso del diritto, infatti, costituendo concreta estrinsecazione del dovere di solidarietà sociale ex art. 2 Costituzione e, conseguentemente, della buona fede, ha anche ricevuto un riconoscimento da parte del legislatore nazionale nella legislazione di settore e in quella processualcivilistica.

Invero, nel progetto del codice del 1942, venne inserita una disposizione generale e tipizzante l’abuso del diritto all’art. 7 che stabiliva che “Nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto gli fu riconosciuto”.

Benché tale norma non sia stata trasfusa nell’attuale codice, l’immanenza del divieto dell’abusivo esercizio del diritto risulta oggi testimoniato dalla posizione assunta dalla legislazione sovranazionale: il corretto esercizio del diritto è infatti presidiato sia dalla Carta Europea Dei Diritti dell’Uomo e delle libertà Fondamentali del 19450, art. 17, che dall’art. 54 Carta di Nizza dell’Unione Europea, la cui valenza giuridica è, a seguito del Trattato di Lisbona del 2009, pacificamente equiparata ai Trattati (TUE e TFUE).

Si ritiene esemplificativa dell’abuso del diritto la previsione di cui all’art. 833 c.c. volta a vietare gli atti emulativi quale estrinsecazione di esercizio distorto di quel diritto – di proprietà – che, sebbene sorga pieno ed esclusivo, va esercitato, in ogni caso, entro i limiti e nelle forme imposti dall’ordinamento.

La legislazione di settore ha, poi, provveduto a tipizzare questa forma di abuso nel diritto tributario consegnando, all’art. 10-bis dello Statuto dei Diritti del Contribuente, la nozione di operazione abusiva e le relative conseguenze.

Generalmente, l’abuso del diritto va inteso come quell’esercizio del diritto che, rispetto alle finalità per le quali quel diritto stesso è riconosciuto, viene attuato in misura sproporzionata o inopportuna (abuso c.d. funzionale) o attraverso modalità tali da attribuire, al titolare, una posizione di vantaggio ulteriore da quella che gli sarebbe riconosciuta (c.d. abuso modale) e che, in ultima sintesi, finisce per disvelare un comportamento artatamente opportunistico e speculativo.

È stato osservato che, affinché l’una o l’altra modalità abusiva possa concretizzarsi, è necessario il soddisfacimento congiunto di più condizioni e, specificamente, la titolarità̀ di quel diritto in capo al soggetto; la molteplicità̀ delle funzioni cui può assolvere quel diritto ovvero la pluralità̀ di modalità con le quali può esercitarsi; un pregiudizio ingiustificato alla sfera altrui; la formale correttezza dell’esercizio del diritto che però, alla luce di una valutazione sotto il profilo funzionale o modale, risulti sostanzialmente difforme allo scopo per cui quel diritto è riconosciuto e attribuito.

Nelle discipline di settore, le condotte abusive sono variamente represse: è, ad esempio, il caso dell’abuso di posizione dominante nei contratti di subfornitura di cui all’art. 9 della L.1998, n. 192 che, in tema di contratti di subfornitura, prevede la nullità dei patti con i quali si abusi della dipendenza economica della controparte.

Si tratta di tutte quelle operazioni contrattuali nelle quali l’impresa in grado di determinare significativi squilibri tra diritti e obblighi nei rapporti con l’altra, si rifiuti a contrarre se non a condizioni ingiustificatamente gravose o discriminatorie per la controparte.

Altre ipotesi di abuso del diritto conosciute all’ordinamento sono, poi, quelle dell’abuso della maggioranza sulle minoranze rispetto all’adozione delle delibere assembleari, dell’abuso dello schermo societario laddove un soggetto decida di far figurare all’esterno una società, in luogo dell’attività unipersonale, per giovarsi dei benefici fiscali.

È forma di repressione di abuso del diritto quella contenuta all’art. 1284 c.c. che, in tema di interessi moratori, prevede un meccanismo, al contempo deterrente e sanzionatorio, che equipara il saggio degli interessi che maturano durante il giudizio a quello degli interessi che maturano nelle transazioni commerciali.

La ratio della norma, in questo caso, è evidentemente quella di scoraggiare l’intento di ricorrere alla tutela giurisdizionale al solo scopo di dilatare i tempi di pagamento, sanzionando, così, l’abuso.

Un’ulteriore ipotesi tipizzata di abuso è quella rinvenibile nell’art. 96, co. 3 del c.p.c. che sanziona quel soggetto che, soccombente in giudizio, si dimostri aver agito e resistito in seno allo stesso con mala fede o colpa grave, prevedendo una condanna alle spese maggiorata.

Tale istituto (c.d. condanna da lite temeraria) è stato invocato, ad esempio, nelle ipotesi di riscossione c.d. frazionata di un unico credito da parte di quel creditore che, titolare di un unico credito, abbia proceduto ad ingiungere, al proprio debitore, più parti dello stesso, in luogo dell’esercizio del proprio diritto di intentare un’unica azione giudiziaria, costringendolo, così, a subire le spese processuali di più giudizi, laddove tale pretesa non sia fondata su di un interesse oggettivo al frazionamento.

Un’ipotesi speculare è prevista, inoltre, all’art. 26 del codice del processo amministrativo.

La giurisprudenza ha poi ritenuto abusivo il comportamento di quel locatore che, a fronte dell’inadempimento del conduttore rispetto al pagamento dei canoni di locazione, agisca in giudizio per ottenerne l’adempimento degli stessi decorso un lasso di tempo assai considerevole rispetto al primo inadempimento. Ed infatti, questo comportamento inerte è stato ritenuto astrattamente in grado di far maturare in capo al conduttore un affidamento circa l’avvenuta rimessione di quel debito.

In questo caso, la giurisprudenza ha ritenuto che agire in giudizio “ex abrupto”, per ottenere la riscossione dei canoni di pagamento maturati in un vasto arco temporale e non riscossi prima, configuri un’ipotesi di abuso del diritto. Il rimedio generalmente concepito in caso di abuso del diritto e la possibilità, per la controparte, di sollevare la c.d. eccezione di dolo.

Essa si distingue in exceptio doli generalis seu praesentis, laddove venga opposta al fine di paralizzare l’azione di colui il quale, abusando del proprio diritto, agisce in giudizio per farlo valere e fonda una pronuncia di rigetto della domanda per improponibilità, e in exceptio doli specialis seu praeteriti, tramite la quale è possibile far valere il raggiro subito nel momento in cui è stato posto in essere un dato negozio e a causa del quale lo stesso è stato concluso, al fine di ottenerne l’annullamento ovvero di far dichiarare la violazione delle regole di buona fede e correttezza.

Attraverso l’eccezione di dolo è, talvolta, possibile porre la parte che avrebbe esercitato il proprio diritto oltre i limiti consentiti dall’ordinamento, nella stessa posizione in cui si trovava in un momento antecedente all’adozione del comportamento abusivo: è quanto prevede, infatti, l’art. 9 della prima citata legge in materia di subfornitura ove consente al soggetto che, dopo aver rifiutato le condizioni economiche sfavorevoli che la controparte “forte” aveva provato ad imporgli, subisce un ingiustificato recesso, di agire con l’exceptio doli generalis e porre nel nulla il recesso, ritenendo il contratto ancora in essere.

Alla luce di tutte le superiori argomentazioni può dirsi che, indubbiamente, il ruolo della buona fede informa l’intero sistema e involge tanto il diritto sostanziale quanto la sfera processuale.

Purtuttavia, va evidenziato come, allo stato, le considerazioni assunte dalle Sezioni Unite in materia di limitazioni del diritto dell’investitore nella selezione degli ordini di pagamento al fine di canalizzare il suo comportamento entro il canone di buona fede ed eludere, così, qualsivoglia forma di esercizio abusivo del diritto di agire in nullità di protezione, non si pongono in completa armonia con quanto ritenuto, invece, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea[11], granitica nell’escludere la possibilità di limitare gli effetti dell’azione di nullità relativa in danno del consumatore, se ciò pregiudicherebbe la tutela effettiva dello stesso.

È appena l’occasione di rammentare che le pronunce della CGUE, seppur non vincolanti, veicolano dei principi europei cui il nostro ordinamento, per l’effetto della cessione di sovranità, in forza degli artt. 10 e 117 Cost., si è impegnato ad aderire.

8. Considerazioni conclusive

Conclusivamente, può osservarsi che, sebbene l’esercizio del diritto di selezionare la nullità degli ordini di pagamento non costituisca, di per sé, abuso del diritto, esso non è tuttavia incondizionato ed anzi va calibrato al canone di buona fede.

E, ben potendo, a tali considerazioni, obiettarsi l’orientamento della giurisprudenza europea avverso le prassi nazionali limitative degli effetti delle nullità predisposte in favore del consumatore, va comunque evidenziato che la collocazione, sul contraltare rispetto al contraente debole, della buona fede è, invero, declinazione del più ampio principio di solidarietà sociale ex art. 2 Costituzione. Valore, questo, primario ed inderogabile e, in quanto tale, afferente al c.d. nucleo rigido dei diritti fondamentali, non scalfibile dall’ordinamento unionale.

 

 

 

 

 

 

[1] Si esprimeva, in tal senso, la Corte di Cassazione Civile, Sez. I, 28 novembre 2013, n. 26672.
[2] Orientamento consacrato nella pronuncia del 13 Luglio 2017 n. 17352  Corte di Cassazione Civile, Sez. I.
[3] Nella specie, ci si riferisce alla sentenza n. 33719 del 16 novembre 2022 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, in particolare, ha affermato i seguenti principi di diritto: “In tema di mutuo fondiario, il limite di finanziabilità di cui all’articolo 38, secondo comma, del d.lgs. n. 385 del 1993, non è elemento essenziale del contenuto del contratto, non trattandosi di norma determinativa del contenuto del contratto o posta a presidio della validità dello stesso, ma di un elemento meramente specificativo o integrativo dell’oggetto del contratto; non integra norma imperativa la disposizione – qual è quella con la quale il legislatore ha demandato all’Autorità di vigilanza sul sistema bancario di fissare il limite di finanziabilità nell’ambito della «vigilanza prudenziale» (cfr. articoli 51 ss. e 53 t.u.b.) – la cui violazione, se posta a fondamento della nullità (e del travolgimento) del contratto (nella specie, del mutuo ormai erogato cui dovrebbe conseguire anche il venir meno della connessa garanzia ipotecaria), condurrebbe al risultato di pregiudicare proprio l’interesse che la norma intendeva proteggere, che è quello alla stabilità patrimoniale della banca e al contenimento dei rischi nella concessione del credito.
Qualora i contraenti abbiano inteso stipulare un mutuo fondiario corrispondente al modello legale (finanziamento a medio o lungo termine concesso da una banca garantito da ipoteca di primo grado su immobili), essendo la loro volontà comune in tal senso incontestata (o, quando contestata, accertata dal giudice di merito), non è consentito al giudice riqualificare d’ufficio il contratto, al fine di neutralizzarne gli effetti legali propri del tipo o sottotipo negoziale validamente prescelto dai contraenti per ricondurlo al tipo generale di appartenenza (mutuo ordinario) o a tipi contrattuali diversi, pure in presenza di una contestazione della validità sotto il profilo del superamento del limite di finanziabilità, la quale implicitamente postula la corretta qualificazione del contratto in termini di mutuo fondiario.”.
[4] Si veda, per tutte, Cassazione Civile, 12 aprile 2006 n. 8612 la quale ha affermato che una sentenza di rigetto della domanda di risoluzione per inadempimento del conduttore nel pagamento dei canoni relativi ad un determinato periodo impedisce nel successivo giudizio, volto al conseguimento del corrispettivo della locazione, di rilevare d’ufficio la nullità del contratto (per vizio di forma), per essersi formato nel primo giudizio il giudicato sulla validità del contratto, che costituiva “presupposto logico giuridico essenziale” della prima decisione.
[5] Cass. Ult. Cit.
[6] In tal senso, Cassazione Civile, Sezioni Unite, sentenza n. 26242 del 12 dicembre 2014 secondo cui “Il giudice, innanzi al quale sia stata proposta una qualsiasi azione di impugnativa negoziale (di adempimento, risoluzione, annullamento, rescissione), se non rigetta la domanda sulla base della individuata «ragione più liquida», ha l’obbligo di rilevare ex officio, e di indicare alle parti ai fini dell’attivazione del contraddittorio, l’esistenza di una causa di nullità negoziale, ancorché soggetta a regime speciale.”.
Tali principi, invero, erano già in parte consacrati nella sentenza del 4 settembre 2012, n. 14828, sempre delle Sezioni Unite ove si ammise la possibilità, per il giudice, di dichiarare d’ufficio la nullità del contratto non solo a fronte di un’azione di adempimento, ma anche di risoluzione, evidenziando come in entrambe le ipotesi la validità del contratto sia il presupposto logico-giuridico dell’azione proposta in giudizio.
[7] Così, Sez. Un. 2014, sent. ult. Cit.
[8] Diversamente da quanto riteneva, ad esempio, la Sez. III della Cassazione Civile nella sentenza del 16 maggio 2006 n. 11356 nella quale, pur ponendosi nella linea della rilevabilità officiosa del contratto, ex art. 1421 c.c., anche nell’ipotesi di domanda di risoluzione di esso, ha osservato che la pronunzia di rigetto non costituisce giudicato implicito – con efficacia vincolante nei futuri giudizi – laddove le questioni concernenti l’esistenza, la validità e la qualificazione del rapporto che ne costituisce il presupposto logico- giuridico non abbiano costituito oggetto di specifica disamina e valutazione da parte del giudice.
[9] Così, Sez. Un. 2014, sent. ult. Cit.
[10] Nella specie, Cass. Civ., Sez. Un., 4 novembre 2019, n. 28314.
[11] Nella specie, si veda C-453/10, Pereničová e Perenič (2012), nella quale la CGUE ha chiarito che la normativa nazionale che consente di limitare gli effetti della nullità di una clausola abusiva è in contrasto con la Direttiva 93/13; C-260/18, Dziubak (2019) con la quale la Corte ha ribadito che il Giudice non può moderare o ridurre l’effetto della nullità per “equità” o equilibrio contrattuale; C-776/19 a C-782/19, BNP Paribas (2021) dove la CGUE, in un caso di contratti di credito al consumo, ha sottolineato che il principio di effettività impone che le norme nazionali non possano “svuotare” la tutela offerta al consumatore, ad esempio limitando la restituzione delle somme indebitamente versate.

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Adua Lega

Giurista abilitata all'esercizio della professione di Avvocato con solida formazione in ambito civile, penale e amministrativo, attualmente impiegata come Funzionario Amministrativo Direttivo presso un ente locale. Dopo la laurea in Giurisprudenza, ho svolto una pratica forense completa, approfondendo prima il diritto civile e successivamente il penale, esperienze che mi hanno fornito un approccio concreto e multidisciplinare alla materia giuridica. Ho avuto, inoltre, l’onore di svolgere il tirocinio 73 D.lgs. 69/2013 stage presso la Corte d’Appello del distretto in cui risiedo, che mi ha permesso di osservare da vicino l’attività giudiziaria e di affinare le mie capacità analitiche e redazionali. Ho poi ricoperto il ruolo di Funzionario Giudiziario Addetto all'Ufficio per il Processo (AUPP) nella medesima Corte d'Appello per la durata di due anni. Nel mio attuale incarico presso la Pubblica Amministrazione, che mi consente di affrontare quotidianamente tematiche giuridiche complesse, applicando rigore normativo, senso pratico e capacità decisionale, mi occupo di attività che richiedono una profonda conoscenza normativa, attenzione ai dettagli e un costante dialogo con diversi attori istituzionali e privati. Spero, con la mia collaborazione alla Rivista, di fornire ai professionisti ed ai neofiti del settore un contributo utile e gradito.

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