
Il prefetto nella storia d’Italia: dalle origini alla Costituzione del 1948
Sommario: 1. Le origini dell’istituto – 2. Il periodo napoleonico: dagli intendenti ai prefetti – 3. La prefettura nell’Italia preunitaria – 4. Il ruolo del prefetto nell’Italia unita – 5. Il periodo giolittiano e la prima guerra mondiale – 6. I prefetti durante il fascismo
1. Le origini dell’istituto
Il lungo percorso dell’accentramento del potere e dell’istituzione di una figura di raccordo centro-periferia emerge nettamente dalle origini istituzionali del prefetto[1].
L’istituzione di organi centrali, situati in periferia con lo scopo di controllare le amministrazioni locali, era una prassi già ben nota nell’antichità, specialmente nelle civiltà più sviluppate, fondate su un decentramento organizzativo, dove era essenziale far giungere altresì in provincia le direttive politico-amministrative centrali. Tale necessità venne percepita nel mondo romano, a partire dal II secolo a.C., quando comparvero per la prima volta i termini “prefectus” e “prefectura”. Questi termini non coincidono, se considerati in chiave diacronica, con il significato attribuito oggi alla figura del prefetto; ciononostante, essi rappresentano il precedente storico e concettuale di un funzionario preposto all’esercizio di poteri delegati dal centro[2].
Sotto l’aspetto etimologico, “prefètto” deriva dal latino praefectus, che significa «preposto, messo a capo» (der. di praeficĕre, comp. di prae «avanti» e facĕre «fare»)[3], indica colui che è preposto ad una funzione. Infatti, a Roma, praefectus era colui che veniva preposto ad espletare sia funzioni dell’amministrazione centrale sia funzioni di impatto minore, di natura amministrativa, giurisdizionale e militare.
Col termine “praefectura”, i Romani fecero riferimento sia alla funzione (officium) espletata dal prefetto sia l’ambito territoriale dove veniva esercitata da quest’ultimo.
L’officium era sempre delegato al praefectus dal titolare del potere centrale: il rex, in età monarchica; i consoli o il pretore, in età repubblicana; il princeps, nel Principato; l’Imperatore, nel Dominato e in età giustinianea[4].
Il prefetto si configura quale erede, per continuità funzionale e concettuale, di istituzioni proprie dell’antica Roma, e quando Napoleone ascese al potere, coerente con la concezione di ripetizione storica persistente nel neoclassicismo rivoluzionario, decise di sopprimere la figura degli intendenti dell’Ancien Régime attribuendo così al prefetto – assistito da sottoprefetti negli arrondissements[5] – l’autorità centrale e unica per il decentramento nella giurisdizione del dipartimento[6].
L’istituto prefettizio italiano, tuttavia, non trae ispirazione diretta dal modello napoleonico, bensì da quello francese del XVI secolo, rappresentato dalla figura dell’Intendant. Questi, espressione diretta del potere centrale e inserito stabilmente nel suo entourage, agiva quale rappresentante del governo nelle province ed esercitava penetranti poteri di vigilanza e controllo sulle amministrazioni periferiche. Nella Francia dell’Ancien Régime l’introduzione di tale figura divenne necessaria nel momento in cui, parallelamente al rafforzarsi dell’accentramento governativo, il sovrano avvertì in misura crescente l’esigenza di sottoporre la periferia a più stringenti forme di supervisione.
Analogamente, anche nel Piemonte preunitario, si procedette alla nomina di funzionari centrali, anch’essi denominati “intendenti”, inviati presso le amministrazioni locali per assolvere una pluralità di funzioni di natura fiscale, finanziaria, economica e politica. Tali funzionari finirono nel corso degli anni a giungere l’apice della gerarchia amministrativa locale divenendo veri e propri agenti delegati del governo centrale.
Con l’unità d’Italia, l’intendente piemontese, nato quale organo essenzialmente amministrativo e progressivamente trasformatosi in organo politico, si convertì nella figura del prefetto italiano, nella cui persona vennero a concentrarsi l’amministrazione e la politica statale, nonché la doppia qualità di rappresentante dello Stato unitario e del Governo[7].
2. Il periodo napoleonico: dagli intendenti ai prefetti
L’introduzione della prefettura nell’ordinamento degli Stati italiani è rinvenibile al 1800, in Francia, ad opera di Napoleone Bonaparte, personalità che si distinse non solo in ambito militare ma anche per quanto concerne l’organizzazione dello Stato. Nell’arco di breve tempo, il prefetto napoleonico s’impose in tutti gli Stati conquistati d’Europa, sia per la sua proprietà di essere un funzionario professionista, sia perché era un organo politico-amministrativo che derivava direttamente da quell’ideologia democratico-borghese che era stata portata in auge dalla rivoluzione del 1789[8].
In particolare, fu con la legge organica del 28 piovoso anno VIII (17 febbraio 1800) che Napoleone, all’epoca primo console in seguito al colpo di stato del 18 brumaio anno VIII (9 novembre 1799), creò un impianto istituzionale concepito per garantire la massima autorità possibile al potere centrale, pur nel rispetto di alcune imprescindibili conquiste ad opera della Rivoluzione.
La storiografia ha a lungo insistito sulla derivazione dell’istituto prefettizio dalle intendenze dell’Antico Regime. In effetti, se ci si limita a considerare il modello nella sua configurazione più schematica – vale a dire ponendo l’accento sulla comune natura di organi deputati a rappresentare, sul territorio, l’autorità di governo – tale parallelismo appare pressoché inevitabile. Tuttavia, l’assetto istituzionale entro il quale le due figure si trovarono ad operare risultava profondamente diverso; differenza che si traduceva in effetti tutt’altro che marginali sulla rispettiva capacità di incidenza nella gestione della cosa pubblica. Ne derivava che il prefetto, nella concreta prassi amministrativa, finiva per assumere tratti funzionali e politici che lo allontanavano sensibilmente, e in misura non trascurabile, dalla figura dell’intendente. Occorre sottolineare che la Francia napoleonica rimaneva sempre figlia della Rivoluzione, della quale aveva fatto proprie alcune scelte cardinali, fra cui l’eliminazione dei corpi intermedi della società, a cominciare dalle corporazioni. Risulta utile ricordare la posizione di Martucci[9], il quale ha evidenziato come la legge napoleonica del 28 piovoso non possa essere considerata il momento fondativo delle funzioni prefettizie, malgrado introducesse una novità sotto l’aspetto denominazionale dell’ufficio. Quest’ultima, infatti, dovette essere coniata ex novo, poiché la Rivoluzione francese aveva imposto l’abbandono di qualsiasi richiamo al lessico e alle strutture dell’Ancien Régime. Ciò non significa che la spinta rivoluzionaria non avesse già generato figure di funzionari incaricati di fungere da tramite tra il governo centrale e i dipartimenti; tali funzioni, tuttavia, erano state affidate, di volta in volta, ai procureurs général-syndics, ai rappresentanti del popolo in missione o ai commissari del potere esecutivo presso i dipartimenti.
Napoleone, nel dichiarato intento di marcare una netta cesura rispetto al recente passato rivoluzionario e, al contempo, di richiamarsi simbolicamente all’antichità imperiale romana che intendeva rievocare e in qualche misura restaurare, scelse di denominarli “prefetti”. Analoga operazione lessicale egli aveva peraltro già compiuto nel 1799 nei confronti di altri organi costituzionali, quali il Consolato, il Tribunato e il Senato[10].
In ottica comparativa, nell’Ancien régime, in maniera diametralmente opposta, il sovrano, benché assoluto, regnava su una società nella quale restava centrale il principio del rapporto di scambio con le rappresentanze provenienti dalle numerose entità corporative su cui poggiava tutta l’organizzazione sociale. Il sovrano, i cui poteri che rivestiva erano notevolissimi e la cui autorità era indiscutibile, restava perciò anzitutto un grande giudice, regolatore supremo di una società in cui il ruolo dei molti corpi e l’equilibrio fra questi era indispensabile nel fare funzionare tutta la macchina dello Stato, che perlopiù creava dall’interno il proprio sistema di poteri. Pertanto, il compito del sovrano, prima ancora di agire, era quello di concedere proprio la “facoltà di agire”, distribuendo privilegi e privative, in seguito vigilando giudiziariamente affinché queste venissero difese e osservate. Questo, per l’appunto, era il campo di azione nel quale si muovevano gli intendenti, i quali erano innanzitutto dei controllori e disciplinatori per conto del sovrano, anziché amministratori in prima persona[11].
L’Ancien régime non aveva conosciuto il funzionario pubblico di professione perché in quell’epoca il munus pubblicum discendeva dal diritto di nascita oppure dalla vendita da parte del sovrano delle cariche ed era di esclusivo dominio dell’aristocrazia. Napoleone comprese che il nuovo sistema politico-amministrativo che aveva realizzato potesse superare in modo definitivo tutti quei privilegi di casta che erano stati eliminati dalla rivoluzione.
Infatti, le campagne napoleoniche ebbero la conseguenza di esportare in gran parte d’Europa, quei principi che erano stati sanciti con la Rivoluzione francese (liberté, égalité e fraternité). Restava il compito all’amministrazione statale l’onere di dare attuazione al riconoscimento a tutti i cittadini dei diritti dell’uomo, nonché di garantire pari trattamento a tutti i cittadini su tutto il territorio nazionale.
Napoleone, per realizzare ciò, scelse come mezzi, dei rappresentanti politico-amministrativi dotati di vasti poteri, i quali dovevano porsi al servizio della comunità superando le logiche individualistiche, particolaristiche e cetuali dell’Antico regime. Non si trattò di una impresa semplice. Ciò è da ricondurre al fatto che gli enti territoriali puntavano ai propri interessi locali e settoriali, sovente altresì in contrasto con l’interesse nazionale. La necessità di uniformare e fruire i diritti soggettivi fondamentali era in antitesi rispetto alla tradizionale prerogativa di autonomia dei corpi sociali dell’Ancién régime. Pertanto, i prefetti, considerato il loro radicamento nel territorio, avevano il fine di coordinare in loco gli interessi nazionali (centrali) con quelli periferici (locali). Il prefetto, nella sua veste di rappresentante del Governo, era incaricato di mediare fra centro e periferia, fra il generale nazionale, sorto dalla Rivoluzione repubblicana e borghese, ed il particolare locale, residuo, in passato, del sistema cetuale e corporativo.
Da quel momento, i prefetti, malgrado i numerosi ostacoli, iniziarono a rivestire un ruolo di assoluta rilevanza, adoperandosi per agevolare e promuovere lo sviluppo economico, sociale, culturale dei cittadini, nel rispetto delle autonomie locali. Ciononostante, essi dovettero sforzarsi non poco per far valere le proprie competenze, questo anche per via di una legislazione non chiara che poneva a loro fianco, nel corso della Repubblica, altre Amministrazioni, molto più vicine agli abitanti dei dipartimenti, espressioni degli interessi particolari. La coesistenza fra tali organi e il rappresentante del governo fu ardua[12].
Il prefetto, nel dipartimento a lui affidato, conservava la stessa funzione fiduciaria e di controllo che spettava all’intendente, ma dato che è anzitutto un amministratore, esprime per la prima volta la dislocazione di tutta l’attività amministrativa nelle mani dello Stato, che rimane ben separato dalla società degli individui. Considerata l’assenza della collegialità, non vi è pertanto la rappresentanza, e con essa quell’elemento sociale che l’amministrazione aveva sempre avuto nell’Ancien régime. Nel nuovo impianto istituzionale il consenso della società è considerato ormai irrilevante: lo Stato è diventato il solo rappresentante di ogni interesse pubblico e si muove per diventare attore del sociale, soggetto cui compete la capacità e il dovere di provvedere nell’interesse del singolo. Risiede qui l’evidente potere politico di cui i prefetti napoleonici disponevano, erede della capacità non solo di regolare, ma altresì di indirizzare, di cui il potere esecutivo si era dotato dopo avere marginalizzato tutto l’apparato legislativo. Infatti, il governo di Napoleone non solo dispone di un enorme potere regolamentare, ma la medesima attività legislativa finisce per essere da questi controllata del tutto[13].
Riguardo all’aspetto che attiene prettamente ai poteri del prefetto napoleonico, questi erano rivestiti di un’autorità particolarmente ampia (sebbene assai delimitata), al punto che lo stesso Napoleone, quando si trovava a Sant’Elena, si riferiva ad essi come «imperatori dai piccoli piedi». Nominato dal governo, può essere revocato ed è tenuto a prestare giuramento. Inoltre, non può lasciare il Département di sua competenza che deve ispezionare ogni anno, senza previa autorizzazione. Tale doppio aspetto è da ricondurre all’esigenza di assicurare il prestigio della figura: lavora nei palazzi del dipartimento (ex sedi delle intendenze, o edifici nuovi appositamente costruiti), indossa l’uniforme di funzione, è membro della nuova nobiltà imperiale, con annessi titoli, e percepisce ricchi emolumenti. È posto a capo di una serie di uffici gestiti dal Segretario Generale di prefettura (Vice Prefetto vicario). In questo modo viene ad instaurarsi un apparato amministrativo, ulteriore lascito della rivoluzione, che costituisce il fattore di stabilità ed equilibrio nella gestione della vita locale.
La legge del 28 Piovoso, aprendo all’articolo 1 ribadiva il riparto del territorio in dipartimenti già stabilito negli anni rivoluzionari, e ai sensi dell’art. 3 dispone in maniera intenzionalmente coincisa: «Il prefetto solo sarà incaricato dell’amministrazione». Ciò malgrado, tali competenze sono limitate: non ha attribuzioni in ambito di giustizia, di insegnamento e di università, in materia di difesa e di finanza pubblica.
Dall’altra parte, le competenze residuali a questi attribuite, non sono poche. Anzitutto l’ordine pubblico, settore di cui è a capo sotto la guida del governo, in collegamento diretto col Ministro dell’Interno e della Polizia. Il controllo da parte del governo si esercita tramite l’intervento di un corpo di Consiglieri di Stato incaricati di realizzare ispezioni, un fatto che gli lascia un margine di manovra piuttosto vasto, sebbene ineguale a seconda della posizione di vicinanza o meno della sede di servizio rispetto a Parigi.
Sotto l’aspetto politico, il Prefetto napoleonico deve controllare l’opinione pubblica persuadendola tramite una serie di privilegi (onorificenze e pensioni) a vantaggio delle élite che sono ancora da conquistare, garantire la quiete delle fasce popolari assicurando la sussistenza, controllare gli oppositori, siano essi giacobini o monarchici. Il suo compito è quello di gestire i rimanenti rapporti politici: le candidature nelle liste di notabili e nei collegi elettorali, di cui stabilisce le liste a livello dipartimentale e della circoscrizione, disporre dell’elenco dei giurati presso il tribunale, nominare i sindaci dei comuni con popolazione inferiore ai 5000 abitanti.
Dal punto di vista amministrativo, il prefetto si occupa della gestione del contenzioso amministrativo con il Consiglio generale (provinciale), della trasmissione al Consiglio generale delle direttive emanate da Parigi concernenti la circoscrizione e le coscrizioni, della gestione del prelievo fiscale nonché della sua ridistribuzione (tra le funzioni più delicate) ed il bilancio dipartimentale (provinciale)[14].
La scelta di tali attribuzioni di potere, di evidente logica militare, fu quella di realizzare strutture di comando monocratiche, affiancate da apparati consiliari dalle competenze limitate, o che comunque non siano mai confliggenti con quelle dei responsabili dell’esecutivo. Seguendo la scala gerarchica, subordinato al prefetto, nel sotto-ordinato riparto territoriale dell’arrondissement, vi era collocato un sottoprefetto o viceprefetto. In ultimo, nello scalino più basso, il territorio municipale, a cui era posto il maire, sindaco o podestà nel linguaggio italiano. Il principio, pertanto, era quello di attribuire totalmente la responsabilità del comando a un solo amministratore, collocato in una rigida catena gerarchica, e che dal prefetto giungeva fino ai maires, questi ultimi non più frutto dell’espressione delle autonomie locali, le quali venivano tuttavia riconosciute sebbene in modo ridotto, ma in primo luogo funzionari anch’essi del potere esecutivo. Proseguendo la scala gerarchica verso l’alto, a partire del prefetto, questi doveva prendere gli ordini, e rendere conto del proprio operato, ai ministri, primo su tutti dell’Interno, dal quale direttamente dipendeva[15].
Nei riguardi dei livelli posti al di sotto del prefetto (sottoprefetti, sindaci), egli esercitava un controllo di merito. In aggiunta aveva la facoltà, previa approvazione del Ministero dell’Interno, di emanare decreti prefettizi e aveva il potere di sospendere o revocare i sindaci delle piccole città e dei villaggi e proporre la sospensione degli altri.
Per quanto concerne l’aspetto socio-economico, il prefetto assumeva funzioni specifiche nel campo dei lavori pubblici, dell’edilizia, della costruzione della rete stradale insieme agli ingegneri del Genio Civile. In relazione al campo che attiene alle inchieste amministrative finalizzate alla stesura di statistiche nazionali, programmava una statistica delle risorse umane sulla base delle liste di notabili di cui dispone, in particolare può indagare coloro che pagano più tasse e allargare la sua ricerca a coloro che hanno ricche ereditiere da maritare. In più, predispone di una griglia statistica della popolazione, della produzione agricola o industriale e del commercio.
L’autorità delegata dal potere centrale è solamente controbilanciata dalle istanze che stanno attorno al Prefetto, come il Consiglio di prefettura (da 3 a 5 membri).
A fianco alle istanze dipartimentali, il Prefetto aveva un potere sui Sottoprefetti di stanza nelle singole circoscrizioni e sui Consigli circoscrizionali ad essi collegati. I Sottoprefetti, nominati dal governo, in tale sistema hanno rivestito solamente un ruolo marginale. Mentre in un primo momento venivano reclutati fra i notabili locali, successivamente erano scelti fra gli uditori del Consiglio di Stato, i cd. “giovani lupi” all’inizio della loro carriera e non particolarmente propensi a scalare la carriera sotto l’aspetto locale. Persino il Consiglio circoscrizionale riveste un ruolo non rilevante.
Si giunge così alla base della piramide amministrativa, vale a dire la rete di comuni e di municipalità. Il Consolato ha posto fine all’esperienza del Direttorio delle municipalità cantonali e riunificato le municipalità delle grandi aree urbane che erano state in precedenza frazionate, mentre Parigi manteneva uno statuto speciale. Tuttavia il Comune, in apparenza restaurato (solamente il numero era stato ridotto) non è per questo autonomo. La legge di Piovoso ha reso il sindaco dei grandi comuni (quelli con più di 5000 abitanti) un funzionario nominato e revocabile dal governo, mentre il Prefetto nomina i sindaci dei piccoli comuni. I Consigli municipali che prestano assistenza ai sindaci sono scelti, per le grandi aree urbane, dal governo e su proposta delle assemblee generali cantonali sulla base di un criterio censuario particolarmente selettivo. È bene sottolineare che il principio di elezione diretta da parte di dette assemblee sia stato conservato nei piccoli comuni: costituisce il solo elemento del sistema di decentramento introdotto nel corso della fase iniziale del periodo rivoluzionario. Nonostante i sindaci godessero di vasti poteri in ambito di polizia e di finanza, dato che gestivano il bilancio comunale, le modalità di nomina li rendevano degli accondiscendenti esecutori sotto il controllo del Sottoprefetto. Ciononostante, mentre le piccole città lamentavano della mancanza di personale di buon livello per la gestione della politica locale, i sindaci dei comuni di grandi dimensioni sono stati, per il governo e i prefetti, degli interlocutori tenaci e legati alla tutela degli interessi locali[16].
Le prefetture erano dei grandi uffici amministrativi il cui personale variava, in base alla rilevanza del dipartimento, dai quindici ai quaranta funzionari circa, sotto la direzione di un segretario generale di nomina governativa di notevole autorevolezza. Esse costituivano il luogo all’interno del quale si svolgeva la doppia azione del raccordo operativo e decisionale con il vertice governativo e della trasmissione delle direttive verso la periferia, con simultaneo controllo sull’azione, con poteri coercitivi considerevoli, degli istituti subordinati. Le prefetture corrispondevano con tutti i ministeri, perciò le loro competenze tangevano tutti i rami della pubblica amministrazione: l’ambito ecclesiastico, l’agricoltura, il commercio, l’industria, i lavori pubblici, la viabilità, la navigazione, le scuole, le istituzioni di cultura, ecc..
In determinati campi di interesse strategico per lo Stato le prefetture venivano affiancate, nel dipartimento, da specifiche istituzioni tecniche, le quali sottraevano loro parte dei poteri: questo valeva per le finanze e per tutto il sistema impositivo, come pure per la strategica materia militare; ciononostante persino in detti ambiti alla prefettura venivano lasciate rilevanti funzioni di controllo e supervisione.
Al tempo stesso, all’interno di questi uffici, situati nella capitale di ciascun dipartimento, si compiva il lavoro di mediazione con la società. In aggiunta alle forme di rapporto diretto che ogni prefetto era autorizzato (e stimolato) a stringere con i notabili del luogo, gli veniva affiancato, proprio con la legge del 28 piovoso, il Consiglio di prefettura, organo consiliare residente all’interno di ogni prefettura, che si riuniva sotto la presidenza del medesimo prefetto, formato da tre a cinque membri a seconda del numero degli abitanti del corrispondente dipartimento, e incaricato anzitutto di pronunciarsi in prima istanza su questioni di contenzioso amministrativo. L’art. 4 della legge elenca le molteplici situazioni nelle quali i singoli cittadini potevano fare ricorso al giudizio di questo organo: questioni inerenti alle imposte dirette, dispute sui lavori pubblici, contese tra imprenditori e amministrazione pubblica e fra privati e imprenditori, gestione di strade, beni demaniali.
Sostanzialmente il Consiglio finiva per costituire lo sbocco naturale per quelle che nell’Ancien régime erano le petizioni e le suppliche dirette al re, e che col nuovo organismo, trovavano un interlocutore istituzionale più raggiungibile e, con tutta probabilità, persino più credibile in relazione alla correttezza delle decisioni.
I membri del Consiglio di prefettura, nominati dal vertice ma scelti all’interno del notabilato del dipartimento, non sarebbero tuttavia rimasti solamente giudici del contenzioso: interpellati gradualmente a svolgere anche compiti di amministrazione attiva, nella maggior parte dei casi avrebbero rappresentato l’essenziale interfaccia fra le polarità maggiormente significative di interesse economico del dipartimento, di cui sempre alcuni dei prescelti erano espressione, e il prefetto, effettiva interfaccia del governo[17].
3. La prefettura nell’Italia preunitaria
Come dianzi trattato, le prefetture, elementi cardine nel rapporto centro-periferia dell’ordinamento dello Stato italiano, sono istituti di derivazione francese.
Nel corso della storia italiana, in totale, l’istituto del “prefetto” prende forma per tre volte.
La prima avviene nell’aprile del 1801, quando Jean-Baptiste Jourdan, generale nonché amministratore della XXVIIa divisione francese, divise il Piemonte occupato in dipartimenti, procedendo quindi alla nomina di prefetti e sottoprefetti, in applicazione della legge 28 piovoso anno VIII (17 febbraio 1800) con cui Napoleone aveva istituito in Francia dette figure. Vi erano alcune differenze circa l’attribuzione di poteri tra i funzionari piemontesi e francesi, la cui più importante, riguarda il fatto che i primi (fino al 1805) rispondevano del proprio agire direttamente a Jourdan e non a Parigi[18]. Qui, il prefetto napoleonico simbolizza pienamente la concezione moderna dello Stato in qualità di detentore unico ed esclusivo del potere pubblico. In tale veste, riveste un ruolo di primo piano nelle vicende politiche, economiche e sociali dei territori di assegnazione, all’interno dei quali si mostra quale tutore esclusivo del pubblico interesse. L’obiettivo di Napoleone era, difatti, di istituire un fiduciario con compiti sia di controllo che di esecuzione diretta, quale strumento centrale della gestione amministrativa imperiale. Un funzionario factotum investito della rappresentanza del potere centrale nei dipartimenti creati all’interno degli Stati italiani nell’era napoleonica. La sola eccezione alla generale applicazione di tale modello sarà opera del conte Francesco Melzi d’Eril[19].
La seconda volta in cui prende forma l’istituto prefettizio, infatti, si manifesta nel 1802, nel territorio della Repubblica Italiana (1802-1805), tramite il decreto del 6 maggio del medesimo anno col quale il Vicepresidente Francesco Melzi d’Eril istituiva in tutti i dipartimenti in cui essa era suddivisa, una prefettura e una sottoprefettura (il presidente restava sempre Napoleone)[20]. In questo contesto si è venuto a creare un originale sistema di coamministrazione dei dipartimenti ad opera delle deputazioni provinciali e dei prefetti[21]. Detta formula tende a conservare uno spazio di potere autonomo in capo all’aristocrazia locale, instaurando un equilibrio con le neocostituite autorità centrali, dei cui interessi i prefetti italiani esprimono in quel breve periodo solamente una funzione di ausilio e complessivamente limitata. Tale deroga in relazione al modello generalizzato di ispirazione francese della prefettura cesserà di esistere nel 1805, con l’ascesa del nuovo viceré del Regno d’Italia, Eugène de Beauharnais[22].
Le prefetture avevano sede presso il capoluogo di ogni dipartimento ed erano poste sotto la direzione del prefetto, nominato dal Ministro dell’interno, assistito da due luogotenenti con voto consultivo. In aggiunta, il prefetto per l’esercizio delle proprie funzioni era supportato da un consiglio generale di prefettura, con finalità consultive.
Le vice prefetture erano istituite solamente in determinati capoluoghi distrettuali, indicati in una tabella ad hoc, con le stesse funzioni delle prefetture, e l’implicita individuazione di un ulteriore livello di governo, vale a dire il circondario di giurisdizione del viceprefetto.
Al distretto era posto un sottoprefetto e per il comune vi era il sindaco, concepito come organo esponenziale dell’ente e delegato del Governo. Il decreto istituì anche un organo con funzioni di rappresentanza degli interessi locali, il consiglio generale dipartimentale.
La legge 24 luglio 1802 specificò l’articolazione dell’amministrazione dipartimentale e le rispettive funzioni, ribadendo sostanzialmente nel prefetto il ruolo di trasmissione del potere esecutivo nei dipartimenti. Tramutò i consigli di prefettura in amministrazioni dipartimentali, già presenti nella Repubblica cisalpina, ma attribuendogli compiti di gestione amministrativa (riparto delle imposte tra i comuni, opere pubbliche, controllo contabile) che in precedenza erano assegnate al consiglio di prefettura, non più previsto. Tale organizzazione territoriale venne ribadita in una fase iniziale durante la trasformazione costituzionale, pressoché improvvisa, dalla forma di governo repubblicana a quella monarchica, con la proclamazione del Regno d’Italia, avvenuta il 17 marzo 1805. I segni della nuova monarchia ereditaria vennero tracciati nello statuto costituzionale del 19 marzo 1805 al quale fecero seguito, nell’arco di poco tempo, l’entrata in vigore del codice napoleonico e l’emanazione del decreto sull’amministrazione pubblica e sul comparto territoriale del regno. Il provvedimento, che si è manifestato dopo il passaggio di poteri da Melzi d’Eril al viceré Eugenio di Beauharnais, attribuì in via generale a Napoleone, sovrano del regno d’Italia, la nomina dei funzionari delle amministrazioni periferiche e, in particolare, allo scopo di minimizzare il rischio di sovrapposizioni e conflitti di attribuzioni fra le amministrazioni dipartimentali e i prefetti, decise si sopprimere le prime, accentrandone proprio nei secondi i poteri[23].
Pertanto, venne così rafforzata la figura del prefetto, concepita di stretta nomina governativa, come riferimento di un sistema di organizzazione dei poteri locali di natura statale e di impostazione gerarchica, fondato sulla ripartizione del territorio fra dipartimenti, distretti, cantoni e comuni, ancora ispirato dal modello francese, incentrato proprio sul prefetto quale organo di garanzia del perseguimento della uniformità politica e amministrativa[24].
Il consiglio di prefettura divenne organo collegiale formato da funzionari di carriera, assorbendo le funzioni dell’amministrazione dipartimentale, e competente a dirimere le controversie per esecuzioni dei regolamenti del censo, quelle fra l’amministrazione e appaltatori di opere pubbliche, i ricorsi privati contro gli appaltatori e per danni da opere pubbliche nonché le richieste di autorizzazione a stare in giudizio da parte di comuni, di istituti pubblici di beneficenza e di istruzione.
Il prefetto approvava o sospendeva le decisioni dei consigli comunali e distrettuali, ma non quelle dei consigli di prefettura che avevano anche la prerogativa di rivedere il bilancio consuntivo e stabilivano quello preventivo delle prefetture. Invece, i compiti dei consigli generali dei dipartimenti vennero limitati alla possibilità di esporre gli eventuali reclami del dipartimento al Ministro dell’interno.
Al di là delle modifiche di alcune denominazioni, il sistema amministrativo napoleonico venne mantenuto persino dopo la sua caduta e il ripristino dello status quo ante bellum avvenuto con la restaurazione delle forme di stato preesistenti. Questo perché tale sistema si è mostrato in grado di assicurare un’attività uniforme su tutto il territorio, in una prospettiva non solo di controllo governativo ma anche di egualitarismo, efficienza e sviluppo[25], tant’è che non solo i Savoia ma anche i Borbone, tornati al potere in seguito al congresso di Vienna, avevano suddiviso i rispettivi territori in circoscrizioni affidate ad un governatore di nomina regia, il quale de iure era denominato “intendente”, ma de facto era riconducibile al prefetto di epoca napoleonica.
La terza volta in cui compare la figura del prefetto avviene nel 1861, con l’unificazione dell’Italia, quando il r.d. 9 ottobre, n. 250 cambiò in “prefetto” e “sottoprefetto” la denominazione dei funzionari che l’originaria legge comunale e provinciale sabauda, in seguito estesa al regno d’Italia (con la l. 23 ottobre 1859, n. 3702, nota anche come «Legge Rattazzi»), li denominava in precedenza come “governatore” e prima ancora come “intendente generale”. Tuttavia, occorre rammentare che tutte queste norme facevano un esplicito riferimento ad un modello specifico: quello napoleonico[26].
4. Il ruolo del prefetto nell’Italia unita
La prima fonte dell’organizzazione costituzionale e amministrativa, prima piemontese e poi italiana, è rappresentata dalla legge provvisoria del 7 ottobre 1848 e nel successivo Regio Decreto del 23 ottobre 1859, n. 3702[27].
Nel momento in cui si compie il processo di unificazione nazionale, la scelta relativa al livello di fiducia da accordare alle classi dirigenti locali assume un ruolo centrale. Si afferma l’orientamento a prendere le distanze, quanto più possibile, dalle precedenti tradizioni amministrative locali, percepite come un ostacolo al rafforzamento dell’autorità centrale e al compimento della dignità nazionale. Prevale la cultura di matrice illuministica, che conduce alla piena affermazione del principio di sovranità, dello Stato di diritto e della supremazia dell’ordinamento statale.
Diventa quindi necessario potenziare gli strumenti di controllo del centro sui territori, soprattutto su quelli annessi più di recente. Il nuovo assetto istituzionale non incontra ovunque consenso: il malcontento è particolarmente acceso in area lombarda, dove si ritiene che il nuovo modello amministrativo non migliori, ma addirittura peggiori, l’organizzazione precedente di tradizione austro-ungarica. Non mancano, inoltre, coloro che – a partire dallo stesso conte di Cavour – avvertono il pericolo di un eccessivo accentramento derivante dall’adozione del modello francese, per cui, come osservava Giuseppe Saredo, «Ogni Prefetto è un Ministro nella provincia che governa».[28]. Nel discorso inaugurale della Commissione straordinaria costituita presso il Consiglio di Stato, il ministro dell’Interno del governo Cavour, Luigi Carlo Farini, invita a non sottovalutare il ruolo dei corpi intermedi formatisi nel tempo nella storia di quei territori. Egli li definisce centri di forze morali che, se compressi in nome di un rigido formalismo istituzionale, potrebbero reagire e riaffermarsi in modo pericoloso; se invece adeguatamente riconosciuti e legittimamente valorizzati, possono contribuire in modo straordinario al rafforzamento e al prestigio della nazione[29]. In sostanza, si tratta dell’idea – destinata tuttavia a restare minoritaria e ad essere poi accantonata negli anni seguenti – di predisporre un assetto amministrativo capace di conciliare, da un lato, le esigenze dell’unità nazionale e della nuova statualità e, dall’altro, le tradizionali libertà politiche locali. Al vertice delle regioni che si intendeva istituire (ma che, a quel tempo, non erano ancora state effettivamente create) avrebbe dovuto porsi un governatore, organo esecutivo regionale investito anche di una funzione rappresentativa del potere esecutivo centrale. Subordinati a tale figura sarebbero stati collocati gli intendenti provinciali, ossia gli attuali prefetti.
Si delineava, dunque, un modello amministrativo che di fatto rimase soltanto sulla carta, ma che lasciava ancora aperta la possibilità che lo Stato italiano potesse assumere, almeno in linea teorica, i tratti di una federazione di Stati. La proposta avanzata da Farini – il quale, alla fine del 1860, venne sostituito al Ministero dell’Interno da Marco Minghetti – mantenne uno spazio a questa prospettiva regionalista, pur concependo la Regione come un ente in parte transitorio ed esperimentale, strutturato quale consorzio permanente delle province e guidato da un governatore, rappresentante unico del potere esecutivo di queste ultime.
Nel frattempo, il regio decreto 9 ottobre 1861, n. 250 attribuì la denominazione di prefetti ai precedenti governatori delle province, di sottoprefetti agli intendenti di circondario e di consiglieri di prefettura agli ex consiglieri di governo. Il successore di Minghetti, Bettino Ricasoli, ritirò nel gennaio 1862 tale proposta e i progetti precedentemente elaborati, temendo che l’istituzione delle regioni potesse mettere in pericolo l’unità statale faticosamente conseguita, e orientò il processo verso quella che sarebbe divenuta la legge n. 2248 del 20 marzo 1865, recante l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia (la cosiddetta legge Lanza)[30].
L’ordinamento del Regno di Sardegna era collegato alle istituzioni, risalenti all’Antico regime, che attribuivano agli intendenti la tutela delle comunità locali nel campo finanziario e in quello giuridico-amministrativo. Il provvedimento dell’autunno 1859 effettua una variazione della denominazione, da “intendenti” a “governatori”, e due anni dopo, col r. d. n. 250 del 9 ottobre 1861, diventano “prefetti”, e di conseguenza, gli intendenti di circondario prendono il nome di “sottoprefetti”, e i consiglieri di governo e di intendenza diventano “consiglieri di prefettura”[31].
Gli anni dal 1859 al 1866 sono fondamentali nell’inquadramento della figura dei prefetti italiani. Il Regno d’Italia eredita l’esperienza amministrativa provinciale del cessato Regno di Sardegna, in un periodo storico di continua emergenza legato a difficoltà sia interne che esterne, le quali pongono alla prova le capacità delle prefetture di assicurare l’ordine interno nonché di perseguire gli obiettivi politici governativi. La tenuta delle istituzioni, nel corso della terza guerra d’indipendenza, concluderà la situazione d’incertezza.
Il Regno di Sardegna era ripartito in divisioni, province, mandamenti e comuni. Le divisioni erano costituite da più province, sotto la supervisione di un intendente generale che era alla guida della più rilevante, mentre le altre erano sottoposte a intendenti provinciali. Con la legge Rattazzi tale suddivisione venne estesa a tutti i territori italiani: le divisioni divennero le nuove province, quelle vecchie divennero i circondari, ed i mandamenti e comuni restarono invariati. Tale mutamento di denominazioni corrispondeva alla soluzione di numerosi attriti che duravano dai tempi delle riforme albertine: in numerosi erano contrari alle divisioni, e avrebbero optato per garantire la massima autonomia alle piccole province dell’Antico regime. La Legge Rattazzi risolse la questione trasformando le divisioni in province. Il nome di intendente rimase ai responsabili dei circondari, mentre i capi delle province assunsero il nome di governatori. Considerata la situazione di emergenza del nuovo regno, in cui problemi civili e militari si tessevano fra loro, la nomea di governatore poteva essere un rinvio ai governatori militari delle province sabaude prima dello statuto. La legge 3720 del 13 novembre 1859 sull’amministrazione della pubblica sicurezza, accogliendo anche qui l’eredità precedente, attribuì al Ministero degli interni, attraverso i governatori, il controllo delle forze di polizia, la cui creazione nello Stato sabaudo risaliva a pochi anni prima.
I prefetti erano gli agenti dello Stato e del governo nelle province ed erano chiamati a organizzare e indirizzare il consenso verso il governo. I loro compiti erano di garantire l’ordine interno, sorvegliare la stampa e indirizzare il voto sui candidati graditi al governo[32].
Proprio per quanto concerne l’aspetto elettorale, nel XIX secolo costituiva una prassi comune fra i Paesi liberali il fatto che gli organi statali indirizzassero il voto verso il partito al governo. Ciò non si manifestava attraverso brogli elettorali, bensì convincendo gli elettori sulla base del prestigio rappresentato dall’autorità. Il diritto di voto concesso con lo statuto spettava solamente ad un ristretto gruppo di persone. Dopo la seconda guerra d’indipendenza il corpo elettorale venne allargato, seppur leggermente, restando tuttavia limitato a poche centinaia di aventi diritto per collegio: un numero talmente limitato da permettere un agevole contatto diretto fra prefetti ed elettori.
I governi della destra storica avevano delle ragioni valide per far sì che gli organi dello Stato fossero al servizio di un partito. Il Regno d’Italia unificato il 17 marzo 1861 era particolarmente fragile nonché pieno di nemici interni ed esterni. Il solo alleato affidabile era l’Inghilterra, questo per ragioni geopolitiche, in funzioni antifrancesi nel mediterraneo, mentre il rapporto con la Francia era ambiguo, per via della “questione romana”. Sul fronte interno, vi erano diverse sette desiderose di ripristinare l’ordine preunitario o quantomeno cercare ancora una soluzione repubblicana al Risorgimento, con intrecciate connessioni con servizi segreti e gruppi stranieri. Il compito dei prefetti/governatori era quindi di tutelare l’ordine interno delle proprie province, e a tale scopo erano ricondotte le elezioni, dove l’obiettivo era di impedire che i partiti estremisti potessero porre in discussione l’unità appena ottenuta[33].
Tale atmosfera durerà per molto tempo. A conferma di ciò, in una circolare del 1867, Bettino Ricasoli ripeteva che le prefetture dovevano lavorare di comune accordo col governo, per preservare le attribuzioni del potere esecutivo. I funzionari provinciali, così quelli statali, sono tenuti a manifestare la loro fedeltà, perché è «una seria guarentigia per una più efficace manifestazione della volontà nazionale, la quale apparirà tanto più sincera e solenne, quanto più accuratamente sarà sottratta alle subdole influenze esercitate da partiti a danno del governo»[34].
Ciò doveva valere per tutti gli impiegati, attendendosi che esercitassero il loro voto in conformità al governo. Questi rappresentavano una fetta significativa dell’elettorato, per cui era indispensabile associare la fedeltà allo Stato a quella al governo[35].
Per comprendere l’importanza che viene attribuita al prefetto, degne di nota sono le parole del ministro dell’Interno Minghetti, contenute nella relazione introduttiva al complesso dei provvedimenti inerenti all’ordinamento dello Stato, effettuatasi nel marzo 1861, dove il prefetto viene definito come «il rappresentante del Governo nelle Provincie»[36]. La ragione del mutamento della denominazione è racchiusa in queste parole: «In ogni provincia vi è una potestà governativa alla quale la presente proposta dà il nome di prefetto, sia per cancellare antiche e svariate memorie, sia perché quello d’intendente, attribuito ad altri funzionari nel ramo delle finanze, parve meno opportuno. […] Tutti gli affari che possano terminarsi dal prefetto senza salire a più alta gerarchia gli sono attribuiti, e gli è data, entro il cerchio delle leggi e sotto il superiore indirizzo, ogni ampiezza di risolvere e di eseguire»[37].
Tali disposizioni, intese in senso provvisorio, verranno ribadite dalla legge organica del 20 marzo 1865, n. 2248, all. A, che indicherà il prefetto quale rappresentante dell’esecutivo e dello Stato, destinato a ricoprire, fino alla riforma del 1888, la carica di presidente della deputazione provinciale.
Il prefetto è stato definito «la figura centrale, il pilastro» dell’amministrazione statale nella Provincia e sui Comuni, attribuendo a queste poteri più ampi rispetto al vecchio intendente e al vecchio governatore[38].
Nell’arco degli anni detta figura è cambiata notevolmente a livello di composizione. In particolare, mentre in una fase iniziale fra i prefetti vi erano uomini prestati o trasferiti dalla politica, successivamente il criterio è cambiato finendo per far rivestire queste figure al personale burocratico di carriera. Infatti, tramite la legge del 13 maggio 1877, malgrado alcuni limiti, si viene ad affrontare la questione del prefetto-politico. In particolare, con questa disposizione si viene ad escludere dall’elettorato passivo gli esponenti della burocrazia e delle amministrazioni pubbliche. Pertanto viene meno quella circostanza nella quale sia possibile, da parte di un prefetto, condizionare con il proprio voto l’esistenza del governo, per poi essere, al tempo stesso, subordinato al medesimo governo[39].
Nei primi anni dell’Italia unita le prefetture rivolsero particolare attenzione alle organizzazioni ostili al nuovo Stato. Come dianzi anticipato, erano molteplici i nemici interni. Vi erano infatti i sostenitori degli antichi stati italiani annessi, i repubblicani, e i cattolici difensori dello Stato pontificio e dei suoi antichi diritti. Se l’attività dei legittimisti poteva essere proibita, si doveva tollerare l’esistenza degli altri, anche per via della natura cattolica e liberale che si intendeva improntare al neo nato Regno d’Italia. Persino i gruppi tendenzialmente favorevoli venivano sorvegliati, nel timore che iniziative avventate o garibaldine potessero causare reazioni internazionali negative.
I fatti d’Aspromonte del 1862 costituiscono un esempio di tale difficile linea di tolleranza e scontro che coinvolgeva le prefetture.
I prefetti non erano soltanto chiamati a impedire che i sostenitori del governo oltrepassassero i limiti consentiti dalle circostanze politiche, ma dovevano anche vigilare sulla correttezza e sulla lealtà del loro sostegno. Accadde persino che, nel 1862, il prefetto di Genova fosse sul punto di finanziare un gruppo intenzionato ad attentare alla vita del presidente del Consiglio[40].
A Genova operavano con particolare intensità diversi gruppi di orientamento reazionario, composti non soltanto da sostenitori dell’ex Regno delle Due Sicilie, ma anche dei ducati dell’area padana e del Granducato di Toscana[41].
Nel corso del 1866 l’operatività di tali gruppi suscitò profonde inquietudini nelle autorità, in ragione dell’imminenza del conflitto bellico, dal quale molti si attendevano l’occasione propizia per sovvertire il nuovo assetto statuale; aspettativa non priva di fondamento, considerate le difficoltà che attraversavano il Regno d’Italia e il vivido ricordo di come la sconfitta di Napoleone avesse determinato la restaurazione delle dinastie precedentemente deposte. Roma costituiva il fulcro di queste trame, rese possibili anche grazie al sostegno del potere pontificio; le prefetture e le questure si adoperavano per impedire le comunicazioni tra i legittimisti e il territorio laziale.
Anche i cattolici intransigenti, determinati a difendere il potere temporale del pontefice e i diritti della Chiesa, rappresentavano un ulteriore fattore di criticità. Alcuni di essi si dichiaravano disposti ad accettare, seppur obtorto collo, l’esistenza del Regno d’Italia, a condizione che non venisse posto termine allo Stato pontificio; altri, invece, riponevano le proprie speranze in una nuova Restaurazione. In ragione della natura dichiaratamente cattolica del nuovo Stato, tale attività fu inizialmente tollerata, nella prospettiva di ricondurla progressivamente su posizioni più concilianti. Ciò non impedì tuttavia l’adozione di provvedimenti che condussero alla confisca di numerosi beni ecclesiastici.
Lo scontro aveva del resto preso avvio già nel Regno di Sardegna, successivamente alla concessione dello Statuto, con la promulgazione delle leggi Siccardi, le quali determinarono lo smantellamento di antichi privilegi ecclesiastici, aprendo una fase di profonda ridefinizione dei rapporti tra Stato e Chiesa.
A seguito della proclamazione dello Stato unitario, lo Stato pontificio scelse di sostenere il governo borbonico in esilio, escludendo così qualsiasi possibilità di intesa con il nuovo Regno e trasformandosi in un centro propulsore per numerosi gruppi di matrice antiunitaria.
Durante la terza guerra d’Indipendenza, le prefetture sorvegliarono attentamente l’attività degli ecclesiastici, per timore che potessero fomentare rivolte. Infatti, dopo la vittoria, il governo, con le leggi 3036 del 7 luglio 1866 e 3848 del 15 agosto 1867, rimosse il riconoscimento giuridico alle congregazioni religiose, sopprimendo numerosi conventi e confiscando i loro beni[42].
Negli anni la classe burocratica inizia ad avviare il percorso della propria emancipazione (grazie anche alla normativa varata dal primo gabinetto della Sinistra), e il ceto prefettizio acquista nell’ordinamento una posizione privilegiata; tuttavia, sono ancora numerosi i suoi esponenti che continuano a rendersi tutori e garanti degli uomini o dei gruppi al potere.
Di grande importanza sono altresì le parole di Francesco Crispi, Ministro dell’Interno nell’ultimo esecutivo, guidato da Depretis, il 4 luglio 1887, nel chiudere la discussione sul disegno di legge per il collocamento in aspettativa, in disponibilità e a riposo per motivi di servizio dei prefetti, pone in risalto il fatto che l’Italia abbia «ancora bisogno di pubblici funzionari, i quali educhino le popolazioni e le avviino sul cammino della libertà». Inoltre, aggiungeva che fosse essenziale la presenza, da parte dello «Stato presso ogni Comune e presso ogni provincia [di un] funzionario che ne curi gl’interessi»[43].
Nel discorso dell’11 luglio al Senato Crispi ritiene il progetto in discussione, una volta diventato legge, una garanzia per il superamento delle croniche collusioni fra potere politico e prefetti, da tutti riprovate e denunziate[44]. Si riveleranno inutili i tentativi, realizzati nel medesimo anno e successivamente, di avviare il riordinamento delle prefetture e delle sottoprefetture, al punto da affermare tre anni dopo che: «L’azione dei prefetti è tanto più libera e tanto meno difficile quando non c’entra la politica; e che ciò non avvenga, permettetemi carissimi colleghi che ve lo dichiari, in gran parte dipende da voi. È entrato nelle abitudini della vita nostra, che ogni deputato vuole il suo prefetto»[45] [46].
5. Il periodo giolittiano e la prima guerra mondiale
Nel corso di quella che la storiografia definisce “età giolittiana”, il ruolo del prefetto conobbe un significativo ampliamento: accanto alle tradizionali attribuzioni, egli assunse anche una funzione fin allora marginale, se non del tutto inedita, ovvero quella di mediatore nelle controversie di lavoro[47].
Per quanto attiene alla sfera della loro immagine, benché già in passato non perfettamente rispettabile, questa, agli albori del XX secoli viene sensibilmente screditata. A fornire tale contributo, vi fu Gaetano Salvemini, definendo Giolitti il «ministro della mala vita». Questo epiteto, nonché titolo della sua opera pubblicata nel 1910, rappresenta un attacco contro la strumentalizzazione dell’amministrazione pubblica sotto il suo governo. Nella sua opera, si scagliava con violenza contro i funzionari pubblici periferici, in particolar modo nel Sud Italia, noti per essere coinvolti nei meccanismi di corruzione elettorale e di un’arbitraria pratica di governo. Non era la prima volta che il prefetto veniva posto al centro degli intrighi. Già agli inizi degli anni Ottanta del XIX secolo, erano rivolte delle critiche al funzionamento del sistema politico italiano e, quale inseparabile parte di esso, al prefetto. Contemporaneamente, alcuni tra i primi commentatori (come Silvio Spaventa, Marco Minghetti, Pasquale Turiello) e Gaetano Mosca, ciascuno secondo la propria specifica visuale, considerarono il prefetto alla stessa stregua del governo, che alla loro percezione risultava degenerato.
Ulteriore elemento comune di tali opere polemiche, in aggiunta al fatto di ricavare i loro esempi soprattutto dalla situazione nel Mezzogiorno, consisteva nell’incentrarsi sull’aspetto politico del lavoro del prefetto, una visuale che finisce così inevitabilmente di obnubilare la complessità degli aspetti della sua funzione. Perdipiù, l’occupazione degli interessi politici nell’ambito dell’amministrazione prefettizia veniva concepita quale primo logico passo verso maneggi e brogli, il tutto in un contesto in cui il governo e il Parlamento venivano biasimati per la loro inefficienza, ulteriore fattore che finiva per sottoporre altresì i prefetti a dure critiche[48].
Inoltre, con Giolitti si è invertito un rapporto consolidatosi da diversi anni: adesso dalla carriera prefettizia è possibile accedere facilmente ad incarichi politici (un esempio è il caso di Tittoni), a nomine diplomatiche in sede rilevanti (Camillo Eugenio Garroni) o si può con ottenere più agevolmente il laticlavio (fra gli altri, Annaratone, Panizzardi, Caracciolo di Sarno, Vittorelli ed il medesimo Garroni)[49]. Per comprendere gli atteggiamenti di rigidità dei Presidenti nei confronti dei prefetti, proprio il caso Annaratone è degno di menzione. Questi è stato trasferito da Brescia a Girgenti, per espressa volontà di Crispi per via della sua eccessiva, non regolamentare, vicinanza con Zanardelli: qui si evince la severità dello statista esponente della Sinistra storica[50]. Di analogo tenore era altresì Giolitti. Ad esempio, un prefetto, accusato di non aver provveduto alla salvaguardia dell’ordine pubblico, subisce tale reprimenda: «Vedo che Ella non ha energia necessaria per reggere una provincia. Appena avuta notizia disordini Stornara doveva mandare tanta forza da occuparla militarmente [ed] arrestare tutti quelli che avevano preso parte tumulto qualunque fosse loro numero. Vedo che Ella crede governo liberale debba essere governo debole. La avverto che se altri fatti avvengono sua carriera finirà in modopoco decoroso»[51] .
Nuovamente, nei riguardi di un sottoprefetto tramite telegramma: «Mi consta che sottoprefetto di Paola […] si è messo interamente al servizio del partito di opposizione al Governo. Lo chiami e gli dichiari che se continua per tale via lo retrocederò immediatamente al posto di consigliere destinandolo alla peggiore residenza. Non tollero traditori»[52].
Ancora Giolitti, nel 1904 diramava a 33 prefetti (quasi la metà del totale) un telegramma circolare, recante istruzioni finalizzate a tutelare, dietro la motivazione dell’ordine pubblico, gli elettori favorevoli all’esecutivo, incoraggiandone l’impegno nelle operazioni di preparazione e di svolgimento del voto[53] [54].
Aspetto cruciale della carriera prefettizia, in particolare durante le elezioni consisteva quindi nell’assicurarsi che venisse rispettata la legge. A tale riguardo, è essenziale considerare che, sino alla legge 30 giugno 1912 n. 665 che introdusse il suffragio universale maschile, il corpo elettorale era rappresentato da una ristretta minoranza della popolazione. Pertanto, la lotta politica non si svolgeva perciò tra partiti politici organizzati, bensì tra consorterie e gruppi di interessi. Se nel 1865, gli elettori ammontavano al 2% della popolazione, nel 1913 erano il 23,2%.
Si comprende pertanto come, fino allo scoppio della Grande guerra, gli interventi dei Prefetti nelle elezioni si svolsero in mancanza di partiti organizzati[55].
Nei mesi antecedenti all’intervento italiano nel conflitto, quando questo era ancora probabile, ma certo, l’attenzione del Paese non è solo diretta all’approntamento delle Forze Armate ed il loro adeguamento. Il 1914 aveva dimostrato con drammatica evidenza che il conflitto, inizialmente accolto con favore ed entusiasmo, non sarebbe stato breve ed avrebbe invece impegnato a fondo, probabilmente per anni, tutte le risorse umane, materiali dei belligeranti. Per tale ragione, dagli inizi del 1915, si costituiscono in tutto il territorio nazionale degli appositi «Comitati per la preparazione del popolo alla eventualità della guerra», su iniziativa di associazioni, istituzioni e cittadini autorevoli, ma sempre sotto la supervisione dei Prefetti, i quali provvedono periodicamente ad informare il Ministero dell’interno in merito ai progressi realizzati[56].
Con l’ingresso dei vari Paesi nel conflitto, le legislazioni di guerra avevano previsto limitazioni dei diritti di libertà dei civili, e fra questi, l’internamento costituì un provvedimento fra i più vasti e punitivi. Ad esso fecero ricorso tutti gli Stati che, con l’inizio della guerra, chiusero le loro frontiere ed espulsero o internarono tutti i cittadini dei Paesi nemici. Con l’avanzamento della medesima, man mano che il nemico cominciava ad occupare territori, ulteriori masse di civili vennero trasferite lontano dai loro paesi, per essere relegate in baraccopoli o in centri ghettizzati, se non persino deportate in campi di lavoro, talvolta a ridosso delle medesime linee del fronte. Oltre all’allontanamento dei sudditi nemici, ciascun paese belligerante effettuò altresì quello dei propri cittadini che risiedevano nelle zone di operazione. L’evacuazione avvenne non solo allo scopo di salvaguardarne l’incolumità, ma anche per la preoccupazione che si potessero verificare episodi di collusione con il nemico. In tale circostanza all’allontanamento fece sovente seguito altresì l’internamento. Quest’ultimo, poteva essere effettuato per diverse ragioni politiche: fu questo lo strumento, assieme ai dispositivi giudiziari, tramite cui le autorità riuscirono a soffocare non solo l’opposizione pacifista e socialista, bensì anche le richieste operaie e la più generale protesta popolare. Le condizioni di vita di coloro che vennero sottoposti all’internamento furono quasi sempre drammatiche: considerata la mancanza delle convenzioni internazionali, non vi era alcuna garanzia, ragion per cui coloro che vi furono sottoposti rimasero privi di ogni tutela. In determinati Stati, furono obbligati a prestare lavori forzati e vennero sottoposti a vessazioni da parte sia delle autorità che delle popolazioni ospitanti. Tuttavia, anche in quei casi dove ciò non si verificò, l’abbandono della propria casa e dei propri familiari, la difficoltà o l’impossibilità di trovare un lavoro, generarono condizioni di vita drammatiche e di frequente insostenibili, sollevando più volte la protesta della Croce Rossa internazionale.
In merito al numero degli allontanati e eventualmente internati, nei primi mesi del conflitto, furono migliaia le persone allontanate dalle loro residenze e furono disperse in tutta la penisola, di frequente intere famiglie, provenienti dalle zone occupate o da quelle dove si effettuavano le operazioni. Sin dalle prime settimane, oltre alle popolazioni dei territori occupati e di frontiera, ad essere allontanate furono altresì quelle dalle zone interne dello Stato per ragioni di ordine politico, sia da parte delle autorità militari, sia dai medesimi prefetti, i quali approfittarono delle nuove facoltà che credevano fossero loro attribuite dalle leggi eccezionali al fine di internare gli individui più noti della dissidenza politica. Con l’avanzare della guerra, mentre diminuì l’ammontare degli internati che provenivano dalle aree occupate o dalla zona delle operazioni, l’allontanamento per motivi politici incrementò considerevolmente, raggiungendo l’apice nell’ultimo anno del conflitto. Perdipiù, i primi allontanamenti e internamenti si verificarono in un contesto privo di regole e sulla base di motivazioni molto generiche, di frequente in base a segnalazioni anonime o in seguito a delazioni di organismi o singole persone. Sovente gli internati venivano trasferiti nelle isole perché malvisti dai prefetti delle località nelle quali erano stati in precedenza alloggiati, in quanto paventavano un condizionamento negativo sulle popolazioni
A tale riguardo, è possibile menzionare il caso di un cittadino svizzero che viene allontanato da Pavia «perché inviso alla popolazione pavese»[57] o rammentare la pessima opinione nei riguardi degli internati in Sardegna, i quali venivano accusati di appiccare gli incendi[58]. Dopo che il decreto del 18 gennaio 1918 stabilì l’istituzione di luoghi di internamento per tutti i cittadini nemici, senza distinzione di età, in molte province si crearono frequentemente condizioni di forte ostilità nei confronti dei nuovi internati. Questa ostilità non derivava tanto da un «patriottismo malinteso», come osservò il prefetto di Benevento, quanto piuttosto dai problemi concreti causati dall’arrivo di centinaia di persone, che comportò un aumento dei canoni degli alloggi e dei prezzi dei generi alimentari nei mercati[59].
Sotto il profilo amministrativo, durante la guerra era importante l’attribuzione delle competenze, a seconda che fosse delle autorità militari o di pubblica sicurezza (p.s.). Sia nei territori occupati che nelle zone dichiarate territorio di guerra (che si distinguevano in zone di operazioni, delle retrovie ed esterne alle retrovie) la competenza in merito all’internamento di civili spettò alle autorità militari, in base al codice penale militare. Nei territori non compresi nella zona di guerra le autorità di p.s. al fine di allontanare individui indesiderati potevano far ricorso, come provvedimenti ordinari di p.s. presi fuori da un pronunciamento giudiziario, al rimpatrio obbligatorio e al domicilio coatto (quest’ultimo era «la celebrazione più pura del sospetto e la fonte palese di ogni possibile arbitrio»[60]); ad essi si collegava il confino di polizia, che doveva tuttavia essere preceduto da una sentenza. Il rimpatrio obbligatorio di chi destasse sospetti rappresentava la misura meno severa di cui le autorità di p.s. potessero fare impiego per ragioni di ordine pubblico. In base alla legge di p.s. del 1889, il sospetto doveva essere “ragionevole” e “fondato”; tuttavia, non ne era definito l’oggetto e lasciava pertanto ai prefetti una libertà insindacabile[61]. La seconda misura preventiva di polizia amministrativa in mano ai prefetti era il domicilio coatto.
Dato che vi era una lacuna normativa circa le indicazioni delle modalità e delle forme degli interventi, gli internamenti di persone “sospette” si svolsero, nella fase iniziale, in un grande caos normativo, che costituì la genesi di molteplici contrasti. La gestione in zona di guerra del potere di allontanare e decidere l’internamento di soggetti ritenuti pericolosi per l’ordine pubblico fu affidata dal Comando Supremo al Segretariato Generale per gli Affari civili (SGAC), organo istituito il 29 maggio 1915 per sovrintendere all’amministrazione civile nelle zone occupate e diretto per l’intero periodo bellico da un alto funzionario del Ministero degli Interni, Agostino D’Adamo, rigidamente sottoposto alla gerarchia del Comando Supremo, ma dotato di funzioni di mediazione fra questo e il Governo.
Il Comando Supremo affidò invece ai prefetti il compito di decidere presso quale località internare gli individui colpiti dal provvedimento, a prescindere che essi fossero cittadini austro-ungarici o italiani. Occorre rammentare anche un altro aspetto discriminatorio non nuovo nella giurisdizione italiana degno di rilievo: l’obbligo di risiedere in una determinata località concerneva solamente i non abbienti, per i quali il Ministero versava un sussidio; invece, per coloro che avessero i mezzi materiali era possibile vivere in un luogo differente da quello assegnato (parenti, mezzi propri, lavoro). Questi ultimi, dietro richiesta e inerente permesso delle autorità politiche, avevano la possibilità di recarsi nelle località da loro prescelte.
Riguardo al campo di azione dei prefetti in materia di ordine pubblico era stato ampiamente esteso in base alle leggi eccezionali: la legge del 21 marzo 1915, n. 273, recante «Misure per la difesa economica e militare dello Stato», aveva previsto all’articolo 11, in aggiunta alla limitazione della libertà di stampa, delle sanzioni contro lo spionaggio e altre norme riguardanti la difesa militare dello Stato. Inoltre, provvedimenti straordinari di pubblica sicurezza erano attuabili sulla base del decreto legge 20 giugno, n. 885, recante la diffusione di notizie «concernenti la guerra o fatti connessi»; e, in particolar modo, il decreto del 23 maggio 1915, n. 674, aveva dotato i prefetti di poteri sostanzialmente illimitati nel campo dell’ordine pubblico affermando che questi, in situazioni di urgenza, avevano il potere di adottare qualsiasi provvedimento che ritenessero essenziale per la tutela dell’ordine pubblico, persino «in deroga alla legge di pubblica sicurezza». Fu tale clausola (a cui Vittorio Emanuele Orlando si riferì più volte allo scopo di incentivare l’azione preventiva e repressiva delle autorità di pubblica sicurezza) che creò numerose ambiguità in merito all’interpretazione dei poteri dei prefetti in relazione agli internamenti, di modo che, intendendo la norma in maniera estensiva, nei primi mesi del conflitto numerosi molti prefetti, sia in zona di guerra che fuori di essa, reputarono di avere la facoltà di porli in essere, e ne approfittarono per attuarli di propria iniziativa e senza aver preso alcun contatto con l’autorità militare[62].
6. I prefetti durante il fascismo
L’istituto prefettizio nel periodo immediatamente successivo alla Grande guerra e, in particolar modo, con l’affermarsi del fascismo, mantiene degli elementi di continuità con il passato ma, al tempo stesso, presenta altresì delle novità. Queste ultime sono collegate alle modalità con le quali vennero definite, a livello centrale e periferico, le relazioni fra Stato e partito nazionale fascista (P.N.F.), nonché alle riforme, in senso centralistico e autoritario, che investirono le autonomie comunali e provinciali. Tra l’altro, la carica prefettizia non venne riservata a persone manifestamente “fasciste” con la totale esclusione di prefetti di “carriera”, e la vigilanza sul territorio provinciale restò di competenza del prefetto[63].
L’“effetto Giolitti” sui membri della carriera prefettizia e, in generale, su tutta la burocrazia italiana è durato per molto tempo ed ha innescato l’effetto di preservare, quantomeno parzialmente, nel corso del periodo fascista, la Pubblica Amministrazione da eccessi e prevaricazioni. Questo perché i funzionari entrati in funzione nel corso del precedente periodo del liberalismo giolittiano, si ritenevano servitori dello Stato, anziché del regime.
A testimonianza di ciò, vi sono le memorie del socialista Giuseppe Romita, primo Ministro dell’Interno nel secondo dopoguerra, il quale ha affermato che: «I Prefetti […] non erano stati così ben visti dai fascisti come si diceva. Effettivamente, taluni si erano posti a completo servizio del regime, ma altri, la maggioranza, avevano adempiuto al proprio dovere impedendo ai gerarchetti locali di compiere quelle prepotenze per le quali viceversa questi avevano una così profonda vocazione»[64].
Al principio dell’insediamento del regime, nel corso della prima seduta del Gran consiglio del gennaio 1923, giunse la richiesta di Mussolini al partito di avere nei suoi ranghi 76 prefetti politici e altrettanti questori politici, al fine di rinnovare, con nuovi elementi, due delle carriere tradizionali dell’amministrazione pubblica. Qualche anno dopo, il medesimo Mussolini avrebbe ricordato tale episodio nel discorso dell’Ascensione tenuto il 26 maggio 1927, quando i prefetti politici erano già 22: «Coloro che ricordano il Gran Consiglio che si tenne al Grand Hotel in data 11 gennaio 1923 […] ricordano che io dissi al Partito: datemi 76 prefetti fascisti e 76 questori. Parve un’eresia fare il prefetto e soprattutto fare il questore. Pareva che avessi fatto una proposta oscena. Tuttavia ci furono degli eroi che accettarono di fare il prefetto uscendo dal Partito e due di costoro tra gli altri hanno funzionato egregiamente, parlo del De Vita che sta a Torino e del Guerresi che e inamovibile a Cosenza […] I prefetti presi dal Partito funzionano splendidamente. Aggiungo che quando mi deciderò a fare un movimento di prefetti, e adesso avete notato che i movimenti sono rari, distanziati, perché i prefetti non devono viaggiare continuamente nelle tradotte del trasloco, perché altrimenti finiscono col non capire più nulla della situazione provinciale; quando mi deciderò, dicevo, a fare il movimento dei prefetti, chiederò al partito un’altra aliquota di prefetti fascisti, possibilmente della prima ora»[65] [66].
Da un accertamento realizzato da Alberto Cifelli[67] è emerso che 102 prefetti su 332 nominati nel ventennio sono di estrazione politica, avendo di frequente assolto nel periodo precedente funzioni di primo piano nel PNF, e addirittura in certi casi privo persino della laurea in giurisprudenza indispensabile all’accesso della carriera prefettizia[68].
È interessante anche notare che per quanto concerne i prefetti “fascisti” e i loro percorsi come le sedi di destinazione siano le meno impegnative e le più periferiche e come sporadicamente detti funzionari “politici” raggiungano gli incarichi di maggior prestigio e responsabilità. Pertanto, è possibile evincere che il meccanismo regolatore delle carriere è rimasto fermamente sotto il controllo del Viminale e di quella cerchia di funzionari più anziani i quali, entrati in carriera sotto Giolitti, tramandavano, malgrado gli omaggi formali al regime, la tradizione amministrativa dell’Interno. In generale le carriere prefettizie si svolsero secondo ritmi non dissimili da quelli delle decadi passate e un consistente reclutamento della carriera continuò a prevalere sul più esile canale del reclutamento per meriti politici[69] [70].
L’ascesa del regime fascista ha registrato delle sostanziali modifiche dello Statuto Albertino, anche per quanto concerne la figura del Capo dello Stato. Con le leggi, meglio note come “fascistissime” del 24 dicembre 1925, n. 2263, e 31 gennaio 1926, n.100, si determinò la transizione da monarchia parlamentare in Stato totalitario, facendo emergere una netta supremazia del potere esecutivo nei confronti del Re. La prima di tali disposizioni introduceva nell’ordinamento giuridico del Regno d’Italia la figura del «Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato», non prevista dallo Statuto albertino. Il Capo del Governo, essendo nominato e revocato dal Re, diveniva «responsabile verso il Re dell’indirizzo generale politico del Governo», in quanto «Il potere esecutivo è esercitato dal Re, per mezzo del Suo Governo. Il Governo del Re è costituito dal Primo Ministro Segretario di Stato e dai Ministri Segretari di Stato. Il Primo Ministro è Capo del Governo»[71], sottraendo in questo modo al Parlamento il controllo del Governo e del Capo di questi, determinando la fine della forma di governo parlamentare. In aggiunta, la legge n. 2263 del 1925 toglieva la presidenza del Consiglio dei ministri al Capo dello Stato[72] e, benché integrasse la previsione statutaria per cui il potere esecutivo spettasse solamente al Re[73], specificava che questa attribuzione fosse solamente formale, poiché il Re poteva esercitare il potere esecutivo «per mezzo del suo governo»[74] [75].
Ulteriore elemento di indebolimento del Parlamento nei confronti del governo, era rappresentato dal fatto che l’ordine del giorno era dettato dal Capo del Governo, il quale aveva altresì la facoltà di chiedere il riesame di una legge respinta dalle camere. Il parlamento fu anche privato dalla possibilità di votare la fiducia al Capo del Governo, che essendo responsabile solo nei riguardi della Corona, poteva essere nominato e revocato solo dal Re[76].
In aggiunta, considerato che venne proprio che Mussolini fosse l’indiscusso Capo di tutti i ministri, analogamente i Prefetti dovevano avere una ben definita supremazia sui rappresentanti dei diversi ministeri nella provincia. Il Prefetto diventava in tal modo, in provincia, la proiezione di quello che Mussolini era a Roma. A tale riguardo, il 27 novembre 1925, venne presentata una legge al Parlamento ormai controllato dai fascisti, in merito all’«estensione dei poteri dei Prefetti»[77].
La posizione di prestigio dei Prefetti, sotto il fascismo, era stata rafforzata sotto differenti punti di vista. Anzitutto vennero realizzati nuovi splendidi edifici per allocarvi la prefettura, e, su tutte le prefetture, tranne per quella di Roma, venne scritto: «Palazzo del Governo». Lo status dei Prefetti venne elevato nell’ordine ufficiale delle precedenze a corte e nelle pubbliche cerimonie (nelle loro province) ad una delle categorie più alte, assumendo il titolo di “Eccellenza” con precedenza sui presidenti di Corte di appello e sui comandanti generali dei corpi d’armata. Il gran rapporto periodico dei Prefetti al Capo del Governo diventò uno degli avvenimenti di maggiore rilevanza del regime. Essi venivano sovente convocati, sia a livello individuale che collettivo, per ricevere istruzioni personali dal Dittatore, il quale seguiva attentamente le loro attività. Essi iniziarono a fare visite nelle loro province organizzate con un’aura di solennità al punto da competere col cerimoniale attuato per le visite pastorali dei Vescovi[78].
Le autorità tecniche, tenuto conto dello status giuridico nonché del peso del Prefetto, raramente ponevano in discussioni le loro decisioni in merito alle modalità di utilizzare i contributi statali e riguardo le modalità di applicazione dei i regolamenti. Sia i Prefetti che i direttori tecnici locali tentavano di unire le loro forze per rivaleggiare con i funzionari delle altre province in merito alla carente attenzione ed ai limitati interventi finanziari delle autorità centrali. Il supporto del Prefetto si mostrava sovente essenziale al funzionario tecnico al fine di ottenere o sollecitare l’approvazione delle sue proposte, da parte degli organi centrali[79].
La l. 3 aprile 1926, n. 660, «Estensione delle attribuzioni dei Prefetti», afferma che «I Prefetti provvedono ad assicurare, in conformità con le generali direttive del Governo, unità d’indirizzo politico nello svolgimento dei diversi servizi di spettanza dello Stato e degli Enti locali, entro l’ambito delle rispettive Province, coordinando l’azione di tutti gli uffici pubblici ed invigilandone i servizi, salvo i rapporti con l’Amministrazione della giustizia, della guerra, della marina, dell’aeronautica e delle ferrovie e con i Provveditorati alle opere pubbliche per il Mezzogiorno e per le Isole». Con la circolare del 5 gennaio 1927 di Mussolini ai prefetti si insisterà sul ruolo di vertice a loro affidato per ciascun aspetto della vita provinciale. Viene quindi promossa la “fascistizzazione” del Prefetto che verrà sovente qualificato con l’appellativo di “Prefetto fascista”, mutando la forma e lo stile propri della figura e abbandonando la neutralità amministrativa[80].
È necessario comunque porre in enfasi in fatto che la prefettura non diventò il centro dell’amministrazione provinciale. La sistemazione degli uffici continuò essere al di fuori di essa ed erano da essa indipendenti per quanto riguardava l’assistenza e la direzione. I diversi ministeri continuarono a creare nuovi uffici regionali e provinciali, amministrativamente indipendenti dalla prefettura, e talvolta assumere persino delle funzioni che fino a quel momento erano realizzate dagli uffici prefettizi.
Pertanto, in fatto di coordinamento politico, il fascismo non incrementò i poteri del Prefetto, collocando sotto il suo controllo amministrativo i sempre più numerosi enti: al contrario, a questi è stata concessa un’effettiva indipendenza sia dalla prefettura che da altri[81].
Per comprendere la repressione del fascismo, è utile ripotare un episodio in merito agli ordini di Mussolini ai prefetti. Correva l’anno 1926, mese di dicembre, uno scenario nel quale la lira italiana era svalutata, era stata avviata, la stampa d’opposizione silenziata, erano entrate da poco in vigore le leggi fascistissime ed i tribunali speciali e commissioni provinciali per il confino erano pronti per colpire ogni forma del dissenso. Mussolini così si rivolse ad un gruppo di neoprefetti: «L’ordine pubblico deve essere mantenuto a qualunque costo, anche a costo di far fuoco sopra chi lo turbasse». Trattamento duro era altresì riservato alle gesta dello squadrismo in ritardo. Successivamente aggiunse: «Chi si rendesse colpevole deve essere arrestato e dovete pregare le autorità giudiziarie di procedere per direttissima e di condannare al massimo della pena». Pertanto, fuoco sugli oppositori e condanne esemplari per gli squadristi in ritardo. In un documento mnemostenografato[82] rivolto ai prefetti delle nuove Province istituite il 6 dicembre 1926 viene rilevata una direttiva di Mussolini compromettente: «il Prefetto, come suprema autorità dello Stato nella Provincia, deve essere la spada che cala inesorabile». Il Duce fece intendere ai prefetti che non dovevano essere tollerate proteste e manifestazioni e violenze di nessun tipo, né da contestatori del fascismo né ad opera del medesimo fascismo, per cui diede l’esplicito ordine di sparare contro i responsabili. La novità assoluta, nonostante il regime fosse già consolidato, era rappresentato dalla direttiva ai prefetti di reprimere ogni protesta facendo anche ricorso all’impiego delle armi[83].
Sotto il fascismo, emergono una serie di elementi che caratterizzano la carriera del prefetto: l’alto grado di mobilità, la precarietà della funzione, la capacità mirata del P.N.F. di scegliere gli uomini da nominare come tali ed ai quali affidare incarichi delicati, e le relazioni tra istituto prefettizio ed organismi del P.N.F. Il frequente cambiamento di sede è un fattore specifico dell’istituto prefettizio e pone in risalto, talvolta, le correlazioni fra la sede ricoperta prima della nomina a Prefetto e quella di seguente assegnazione, altresì in virtù della regione geografica di provenienza del funzionario o di eventuali legami con uomini politici locali.
La permanenza media dell’attribuzione della sede era di due anni e cambiava radicalmente in relazione all’importanza della medesima sede. Nel corso del fascismo per ogni sede si sono alternati mediamente 12 Prefetti, con variazioni che vanno da un minimo di 6 a Cremona ad un massimo di 20 a Caltanissetta. Ulteriore peculiarità consiste nella frequenza con la quale il Governo fascista abbia fatto ricorso all’istituto dell’esonero temporaneo dalla funzione ed a quello del collocamento a riposo per ragioni di servizio. Di rado venne fatto uso degli istituti della disponibilità e dell’aspettativa e il collocamento a disposizione venne impiegato quale mezzo ordinario di allontanamento temporaneo dall’ufficio[84].
Il collocamento a disposizione è sempre stato concepito quale strumento “punitivo” al quale si ricollegava il conferimento di specifichi incarichi. Sovente veniva impiegato per rendere disponibili sedi da affidare a Prefetti politici e, ancora con maggiore frequenza, per allontanare il Prefetto nell’ipotesi in cui si fosse posto in contrasto col locale Segretario Federale. Malgrado la circolare del Duce del 1927 ed il rispetto rigido del protocollo, che nella forma faceva del Prefetto la prima Autorità locale, i Segretari Federali disponevano sempre di un canale preferenziale per arrivare al Capo del Governo.
Infatti, nell’ipotesi in cui vi fosse stato un contrasto con il Prefetto, era sempre questo ad essere allontanato proprio tramite il ricorso al collocamento a disposizione. Le relazioni con i Segretari Federali risultavano, in genere, molto difficoltose al punto che nel 1940 il Sottosegretario agli Interni Buffarini Guidi decise di far chiamare nel Direttorio del P.N.F., un Prefetto, sebbene fosse proveniente dai ranghi del Partito fascista, il cui inserimento doveva servire quale elemento moderatore nei rapporti tra Prefettura e Federazione fascista. La scelta cadde sul Prefetto Gaetani, personalità apprezzata altresì ai Prefetti di carriera.
Lo strumento del collocamento a disposizione o a riposo venne sovente utilizzato persino nei riguardi di quei Prefetti che non fossero coerenti con la “politica fascista”. Il controllo delle province, fattore per il quale il Capo del Governo mirava per il consolidamento del regime, condusse in modo inevitabile a contrasti con i dirigenti locali del partito. Il Governo si trovò in tale maniera (e ciò costituì una delle ragioni che condussero alla diramazione della circolare del 1927) da una parte a fare pressione sui prefetti per garantire la presenza dello Stato nelle province e, dall’altra, ad evitare le influenze da parte dei Segretari Federali, senza tuttavia contrastarne il loro agire. Nonostante non rappresentasse un mezzo efficace del ricambio del corpo prefettizio dato che il posto reso vacante non poteva essere impiegato, il collocamento a disposizione per la sua durata (di 3 anni), rispondeva in toto alle esigenze del Governo.
Diverso è il caso dello strumento del collocamento a riposo per ragioni di servizio, il quale finì per diventare il mezzo ordinario di rimozione dei Prefetti, essenziale per permettere il ricambio a cui il Governo ambiva da tempo. In tal modo si instaurò la prassi di collocare a riposo per ragioni di servizio tutti i Prefetti (sia pur con alcune eccezioni) al compimento del 35° anno di servizio. L’avvicendamento continuo messo a punto dal P.N.F., tramite la scelta degli uomini, (che iniziò nel novembre 1922, proseguì nel 1923 e nel 1926 per culminare nel vasto movimento del 1929) risulta essere stato ispirato più dalla necessità di creare un corpo prefettizio di fede fascista che dalle esigenze reali delle province.
Il momento apicale di tale operazione giunse nel luglio del 1929 quando 67 Prefetti furono avvicendati con 37 trasferimenti di sede, 17 nomine, 19 collocamenti a riposo e 46 a disposizione. A tale movimento furono interessati 17 Prefetti politici, 8 dei quali di prima nomina.
Il fine primario del Duce era di garantire la continuità rispetto al vecchio Stato liberale, di controllare l’opposizione (avversari politici) e di rafforzare il potere esecutivo. Sostanzialmente il consolidamento dell’ordine fascista e il mezzo maggiormente opportuno a tal fine venne proprio individuato nell’istituto prefettizio.
Il Prefetto si riconfermava, quanto meno dal punto di vista formale, la massima autorità della provincia, tuttavia, le divergenze con il Segretario Federale non solo restarono bensì acuirono. La questione non venne nemmeno risolta con la nomina a Prefetto di esponenti del Partito ma anzi, di conseguenza, si verificò un incremento delle pressioni di quest’ultimo sulle nomine a Prefetto. Questa fu una delle ragioni che condussero all’elaborazione della normativa del 1937 la quale limitò quantitativamente la scelta dei Prefetti politici (2/5 dei posti in organico).
Numerosi studiosi ritengono che la “fascistizzazione” dell’amministrazione non sia derivata principalmente dall’ingresso nei ranghi prefettizi dei dirigenti del Partito o di persone a esso legate, quanto piuttosto dalla progressiva adesione del ceto burocratico al regime. Questo processo, insieme all’emanazione della normativa del 1937, mostrerebbe come Mussolini non attribuisse particolare importanza alle opinioni politiche dei prefetti di carriera. Ciò non toglie che si possa sostenere che la fascistizzazione vi fu e in misura molto ampia. A sostegno di questa tesi si può richiamare, oltre al numero elevato di nuovi prefetti dichiaratamente allineati sul piano politico, anche il rapporto tra prefetti di carriera e prefetti di origine politica e il peso degli incarichi affidati a questi ultimi.
Per evidenziare il rapporto con il P.N.F., nelle schede biografiche sono state riportate tutte le benemerenze fasciste attribuite ai singoli, l’eventuale iscrizione al Partito nazionale fascista prima che essa divenisse obbligatoria, oltre alle informazioni relative ai procedimenti di epurazione. Inoltre, per cercare di individuare le ragioni che portarono alla nomina a prefetto, sono stati presi in considerazione i legami con il Partito e gli incarichi ricoperti prima dell’assunzione della carica. Dei 332 prefetti nominati durante il ventennio, 102 provenivano dall’ambito politico e, tra questi, 67 avevano svolto la funzione di segretario federale. Il momento di massima concentrazione si registrò nel 1940, quando, su un organico di 110 prefetti, 67 non appartenevano ai ranghi della carriera amministrativa.
Quando venne costituita la Repubblica Sociale Italiana nel settembre 1943, la situazione dei Prefetti divenne ancora più complicata dal momento in cui Mussolini impartì a tutti loro che il Governo Badoglio aveva esonerato dall’Ufficio la direttiva di riprendere immediatamente le loro funzioni nelle province ancora occupate dalle truppe tedesche. Nella stesura delle schede biografiche dei Prefetti in servizio nel decennio 1946/56, molti Prefetti risultavano già tali durante il periodo fascista o avevano raggiunto gradi elevati nella carriera o incaricati di ricoprire incarichi nei settori più delicati della Pubblica Amministrazione e del medesimo partito fascista[85].
7. Il destino del prefetto: tra caduta del Regime e Costituzione
Nel dopoguerra i funzionari prefettizi si trovano ad esercitare le loro funzione in un contesto nel quale si è assistito alla dissoluzione dello Stato unitario, l’occupazione delle truppe tedesche al Nord, la nascita della R.S.I. sotto protettorato germanico, il Sud dove si sono rifugiati il Re e un Governo che deve rispondere agli Alleati, risalenti la Penisola, la resistenza antifascista e la rinascita dei partiti riuniti nei CLN, la scomparsa della RSI, l’avvento dei governi provvisori del CLN, e successivamente, il graduale ritorno, con innumerevoli difficoltà, all’amministrazione italiana e la ricostituzione dello Stato nazionale[86].
Al momento della liberazione, per una breve periodo, è il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) a nominare dei prefetti provenienti dalla società civile scegliendoli per la loro elevata caratura culturale e morale[87].
Effettuando un’analisi in ottica comparativa delle personalità prefettizie, il primo dato che emerge è che in Italia non vi sono, fra i funzionari, degli eroi come Jean Moulin, il prefetto francese del Dipartimento d’Eure et Loir che, da prefetto di carriera di stampo conservatore, divenne il capo della Resistenza francese fino a pagare la sua scelta con la vita. I funzionari italiani sono dilettati dai loro problemi personali, riunioni con la famiglia, esigenze economiche, ambizioni di carriera, esibizione di presunte benemerenze nella lotta contro il fascismo, quando ancora nei mesi precedenti ne ostentavano la loro fede.
I funzionari nutrono avversione nei confronti dell’istituto prefettizio: il CLN vuole sopprimerlo; gli Alleati non comprendono l’istituto, sconosciuto dall’esperienza britannica e statunitense[88].
La caduta del Regime ha innescato un grande dibattito circa l’opportunità o meno del mantenimento dell’istituzione prefettizia. Fra i principali oppositori dell’accentramento, e dei prefetti che lo rappresentavano, vi era Luigi Einaudi. Nel suo celebre articolo del 1944, «Via il Prefetto!», fu netto nel prendere posizione: «Democrazia e prefetto repugnano profondamente l’uno all’altro. Né in Italia, né in Francia, né in Spagna, né in Prussia si ebbe mai e non si avrà mai democrazia, finché esisterà il tipo di governo accentrato, del quale è simbolo il prefetto. Coloro i quali parlano di democrazia e di costituente e di volontà popolare e di auto-decisione e non si accorgono del prefetto, non sanno quel che si dicono»[89].
Malgrado non fosse il solo a pensare ciò[90], tanto che l’Assemblea costituente cercò di moderare l’impostazione centralista in particolar modo con la creazione delle regioni, la struttura che lo Stato repubblicano ereditava dal passato era transitata essenzialmente indenne e lo scenario di radicalismo politico che contraddistinse quantomeno le prime tre decadi della Repubblica, non permise in modo agevole di accantonare quell’organizzazione unitaria dell’apparato amministrativo che, nonostante i suoi molteplici punti di debolezza, aveva altresì avuto il pregio di garantire rapidità, efficacia e una certo grado di uniformità di comportamento in tutti i territori dello Stato, evitandone con tutta probabilità persino la frantumazione politica[91].
Infatti, durante il periodo bellico, sia il CLN, gli Alleati, il Governo del Sud hanno fatto ricorso alla figura del prefetto, tentando di insediarsi nel Palazzo del Governo, il quale ha continuato a rappresentare la sede dell’autorità pubblica. Il conflitto ha determinato la caduta del fascismo e le istituzioni dello Stato, ma il prefetto ha continuato impersonare l’amministrazione, espressione della continuità della vita civile[92].
Durante i lavori dell’Assemblea costituente e nello specifico all’interno della Sottocommissione dei 75, la questione della rimozione delle prefetture viene a galla in maniera preponderante in relazione con la questione della riforma dello Stato[93]. La discussione si incentra specialmente su determinati aspetti problematici dell’istituto prefettizio. Si tratta in primo luogo di evitare il rischio che si ripropongano gli eccessi riscontrati in passato e che in numerosi vedono collegati al potere prefettizio di adottare in situazioni di urgenza i provvedimenti imposti dalle circostanze in forza dell’art. 19 della legge comunale e provinciale, un potere assai rafforzato dalle leggi fasciste del 1926. Questo potere era la causi di evidenti abusi e la sua elasticità sembrava porre nuovamente in pericolo la tutela dei diritti e delle libertà dinanzi ad una fraintesa applicazione del principio di legalità.
La Seconda Sottocommissione «Organizzazione dello Stato» arriva ad auspicare che, a prescindere la determinazione finale in merito alla rimozione o meno dell’istituto prefettizio, si giunga in ogni circostanza allo smantellamento della sovrastruttura che nella medesima aveva assunto una netta “ispirazione autoritaria”.
Risulta interessante rammentare, in questa sede, la proposta del giurista cattolico-liberale Arturo Carlo Jemolo, rimasta tuttavia isolata all’interno della Seconda Sottocommissione. L’idea di Jemolo consisteva nella sostituzione, nelle province, del Prefetto con un altro funzionario nominato dal governo, rivestito di competenze maggiormente limitate e meglio precisate ed esclusivamente riconducibili ai settori di pertinenza del Ministero dell’Interno. In tale scenario, i compiti di matrice essenzialmente politica inerenti alle funzioni di ordine pubblico e di pubblica sicurezza sarebbero stati attribuiti invece ad un organo elettivo e rappresentativo della comunità regionale oppure di gruppi di province.
Ulteriormente dibattuta nell’Assemblea è anche l’idea di trasformare l’istituto prefettizio in carica elettiva, tuttavia si riterrà in seguito che detta eventualità si sarebbe troppo facilmente potuta prestare ad una perdita dell’elemento di terzietà dell’amministrazione in relazione all’azione amministrativa concepita quale complesso di attività tendenzialmente esecutive di un comando legislativo oppure politico generale e caratterizzate da un contenuto quasi del tutto vincolato, a totale vantaggio della parzialità degli interessi di partito di cui il prefetto ne sarebbe stato espressione.
Il fronte “abolizionista” è comunque ampio, con «un consenso pressoché unanime sulla esigenza di sopprimere l’istituto prefettizio, in omaggio a quella nuova impalcatura democratica dello Stato che richiedeva, quasi a fini “propiziatori”, il sacrificio non solo simbolico di un istituto istintivamente ricondotto allo Stato accentratore del periodo monarchico-liberale e allo Stato autoritario del regime fascista»[94].
Ciò malgrado, la Seconda Sottocommissione non si mostrerà in grado di scindere la questione prefettizia dalla questione più generale della riorganizzazione delle autonomie locali e dando così prova di una grave mancanza di immaginazione nel prospettare soluzioni alternative attendibili all’istituto in vigore.
Pertanto, la sopravvivenza delle prefetture, è dato in particolare dato dall’assenza, in quel momento, di una specifica soluzione di ricambio.
La questione della conservazione o meno del prefetto sarà quindi in mano al legislatore ordinario. Invero, come asserito da Guido Melis, è soprattutto per carenza di immaginazione che i Costituenti non riescono a definire «un modello amministrativo, diverso da quello fondato sul modello gerarchico ministeriale, sul centralismo come garanzia dell’unità nazionale, sulla continuità degli uomini e della cultura amministrativa»[95].
Fra i socialisti vi era l’intenzione di sopprimere l’istituzione, promuovendone una nuova versione eventualmente di natura elettiva; dall’altra parte emergono pressioni più conservatrici tendenti a garantire il mantenimento senza che vi fossero eccessivi stravolgimenti.
La posizione dell’ex Presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti, il più intenzionato a rimandare alle future camere una valutazione più equilibrata della questione, sostiene che il prefetto rappresenta la necessaria stabilità, al punto da affermare che «Il governo non potrebbe fare nulla se i prefetti venissero a scomparire»[96] e che, nell’ipotesi in cui venga soppresso, non vi sarebbe argine al disordine.
Alcide De Gasperi mantiene invece una posizione attendista giungendo ad affermare che «un prefetto repubblicano deve essere più forte, più dignitoso, più rispettato che mai, perché egli incarna la democrazia»[97].
Così, l’intera discussione in Assemblea si sviluppa principalmente attorno ai temi dell’armonizzazione, del coordinamento e della mediazione e, grazie alla costante opera di conciliazione svolta dal presidente della Commissione dei Settantacinque, Meuccio Ruini, si giunge infine alla soppressione di qualsiasi riferimento alla funzione prefettizia nel testo conclusivo del progetto di Costituzione[98].
[1] Goria Federico Alessandro, Il ruolo del Prefetto nella storia, in “Amministrazione pubblica”, Anno XXVI n. 112/2023, pp. 11-17.
[2] Strati Bruno, Il Prefetto nell’esperienza giuridica romana, in “Instrumenta”, X, 2000, pp. 175-207.
[3] Dizionario Treccani, alla voce “Prefètto”.
[4] Strati Bruno, Il Prefetto nell’esperienza giuridica romana, in “Instrumenta”, X, 2000, pp. 175-207.
[5] L’istituzione dei Dipartimenti, stabilita dal decreto dell’assemblea costituente del 22 dicembre 1789 e dalla legge del 26 febbraio 1790, suddivisi a loro volta in distretti, cantoni e comuni, aveva l’obiettivo di uniformare l’organizzazione territoriale dello Stato, eliminare le peculiarità delle singole province dovute ai privilegi delle aristocrazie locali, pur mantenendo una presenza delle amministrazioni locali. Già nel 1795 intervenne una prima riforma, con la soppressione dei distretti e l’istituzione dei capoluoghi cantonali come centri del potere amministrativo locale, riducendo l’autonomia degli altri comuni.
Cfr. Masson Jean-Louis, Province, dipartimenti, regioni: l’organizzazione amministrativa della Francia da ieri a domani, Lanore, Parigi, 1984, pp. 46 e ss.
[6] Natali Antonio, I prefetti in Italia: un’introduzione storica, in “Quaderni del Sinpref”, n. 1/2023, pp. 9-14.
[7] Strati Bruno, Le origini dell’istituto prefettizio, in “Instrumenta”, XXXII, 2007, pp. 597-680.
[8] Strati Bruno, Le origini dell’istituto prefettizio, in “Instrumenta”, XXXII, 2007, pp. 597-680.
[9] Martucci Roberto, Dal Prefetto napoleonico al Prefetto italiano, in Martucci Roberto, Marcellino Pier Giulio (a cura di), Il prefetto nella storia e nelle istituzioni. Bicentenario dell’istituzione prefettizia. Atti del convegno su Il prefetto ieri, oggi, domani, organizzato a Macerata il 6 e 7 dicembre 2002, Quodlibet, Macerata, 2003, pp. 1-18.
[10] Goria Federico Alessandro, Il ruolo del Prefetto nella storia, in “Amministrazione pubblica”, Anno XXVI, n. 112/2023, pp. 11-17.
[11] Antonielli Livio, Le prefetture in età francese, in “Amministrazione pubblica: Rivista di cultura istituzionale dei funzionari dell’amministrazione civile dell’Interno”, 2013.
[12] Strati Bruno, Le origini dell’istituto prefettizio, in “Instrumenta”, XXXII, 2007, pp. 597-680.
[13] Antonielli Livio, Le prefetture in età francese, in “Amministrazione pubblica: Rivista di cultura istituzionale dei funzionari dell’amministrazione civile dell’Interno”, 2013.
[14] Vovelle Michel, Il ruolo storico del Prefetto, Conferenza tenuta dal Prof. Vovelle in occasione della cerimonia conclusiva del XVI Corso di formazione dirigenziale, presso la Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno il 15 dicembre 2000 (Traduzione a cura del Dr. Rasori Marco e della Dr.ssa Di Franco Flavia), pp. 921-939.
[15] Meriggi Marco, Tedoldi Leonida, Storia delle istituzioni politiche. Dall’antico regime all’era globale, Carocci editore, Roma, 2014, pp. 90-91.
[16] Vovel Michel, Il ruolo storico del Prefetto, Conferenza tenuta dal Prof. Vovelle in occasione della cerimonia conclusiva del XVI Corso di formazione dirigenziale, presso la Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno il 15 dicembre 2000 (Traduzione a cura del Dr. Marco Rasori e della Dr.ssa Flavia Di Franco), pp. 921-939.
[17] Meriggi Marco, Tedoldi Leonida, Storia delle istituzioni politiche. Dall’antico regime all’era globale, Carocci editore, Roma, 2014, pp. 90-91.
[18] Goria Federico Alessandro, Il ruolo del Prefetto nella storia, in “Amministrazione pubblica”, Anno XXVI, n. 112/2023, pp. 11-17.
[19] Louvin Roberto, Studio sulla funzione prefettizia del Presidente della regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, Giappichelli Editore, Torino, 2022, p. 1.
[20] Goria Federico Alessandro, Il ruolo del Prefetto nella storia, in “Amministrazione pubblica”, Anno XXVI, n. 112/2023, pp. 11-17.
[21] Del Bianco Nino, Francesco Melzi d’Eril. La grande occasione perduta. Gli albori dell’indipendenza dell’Italia napoleonica, Corbaccio, Milano, 2002.
[22] Louvin Roberto, Studio sulla funzione prefettizia del Presidente della regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, Giappichelli Editore, Torino, 2022, p. 1.
[23] Antonielli Livio, I prefetti dell’Italia napoleonica. Repubblica e Regno d’Italia, Bologna, 1983.
[24] Antonielli Livio, Notabili e funzionari nell’Italia napoleonica (gennaio-aprile 1978), vol. 13, n. 37 (1), in “Quaderni storici”, pp. 196-227.
[25] Natali Antonio, I prefetti in Italia: un’introduzione storica, in “Quaderni del Sinpref”, n. 1/2023, pp. 9-14.
[26] Goria Federico Alessandro, Il ruolo del Prefetto nella storia, in “Amministrazione pubblica”, Anno XXVI, n. 112/2023, pp. 11-17.
[27] Pacifici Vincenzo G., Prefetti, in “Dizionario del liberalismo italiano”, tomo I – Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011, pp. 837-841.
[28] Saredo Giuseppe, Il prefetto nel diritto pubblico italiano, in ID, La nuova legge comunale e provinciale commentata con la dottrina, la legislazione comparata e la giurisprudenza, vol. II, Utet, Torino, 1892, pp. 36 e ss.
[29] Saredo Giuseppe, La legge sull’amministrazione comunale e provinciale, Utet, Torino, 1901, p. 27.
[30] Louvin Roberto, Studio sulla funzione prefettizia del Presidente della regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, Giappichelli Editore, Torino, 2022, pp. 2-3.
[31] Pacifici Vincenzo G., Prefetti, in “Dizionario del liberalismo italiano”, tomo I – Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011, pp. 837-841.
[32] Costanza Ivan, L’esordio della prefettura genovese (1859-1866), in “Amministrare”, Fascicolo 1, supplemento 2010, pp. 153-178.
[33] Archivio di Stato di Genova, Intendenza Generale di Genova, fald. 193. Ministero dell’interno – Direzione generale di pubblica sicurezza – n. 600, Torino addì 7 febbraio 1862 – Riservata – Partiti politici.
[34] Archivio di Stato di Genova, Intendenza Generale di Genova, fald. 128. Ministero dell’Interno – Direzione superiore di Pubblica Sicurezza – Gabinetto n. 1610 – Firenze addì 26 febbraio 1867 Confidenziale – ai sig. Prefetti del Regno.
[35] Costanza Ivan, L’esordio della prefettura genovese (1859-1866), in “Amministrare”, Fascicolo 1, supplemento 2010, pp. 153-178.
[36] Atti Parlamentari, Camera, leg. VIII, sess. 1861, Vol. I, p. 207.
[37] Atti Parlamentari, Camera, leg. VIII, sess. 1861, Vol. I, p. 32.
[38] Ragionieri Ernesto, Politica e amministrazione nella storia dell’Italia unita, Laterza, Bari 1967, p. 104.
[39] Pacifici Vincenzo G., Prefetti, in “Dizionario del liberalismo italiano”, tomo I – Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011, pp. 837-841.
[40] Asge, Intendenza Generale di Genova, fald. 193. Regia prefettura di Genova – Genova lì 20 settembre 1862 – Al sig. ministro degli interni.
[41] Asge, Intendenza Generale di Genova, fald. 128. Sicurezza Pubblica – Ufficio di questura – Gabinetto n. 1424 – Genova addì 20 maggio 1866 – Al Prefetto di Genova – Persone segnalate e sorvegliate quali appartenenti al partito borbonico e clericale.
[42] Costanza Ivan, L’esordio della prefettura genovese (1859-1866), in “Amministrare”, Fascicolo 1, supplemento 2010, pp. 153-178.
[43] Crispi Francesco, Discorsi parlamentari, Roma, 1915, pp. 857-858.
[44] Crispi Francesco, Discorsi parlamentari, Roma, 1915, pp. 865-867.
[45] Crispi Francesco, Discorsi parlamentari, Roma, 1915, p. 730.
[46] Pacifici Vincenzo G., Prefetti, in “Dizionario del liberalismo italiano”, tomo I – Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011, pp. 837-841.
[47] Pacifici Vincenzo G., Prefetti, in “Dizionario del liberalismo italiano”, tomo I – Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011, pp. 837-841.
[48] Randeraad Nico, Autorità in cerca di autonomia. I prefetti nell’Italia liberale, Ministero per i beni culturali e ambientali ufficio centrale per i beni archivistici, Roma, 1997, pp. 40-41.
[49] Aquarone Alberto, Tre capitoli sull’Italia giolittiana, il Mulino, Bologna, 1987, pp. 60-61
[50] Pacifici Vincenzo G., Angelo Annaratone (1844-1922). La condizione dei Prefetti nell’Italia liberale, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa-Roma, 1990.
[51] Mola Aldo Alessandro, Ricci Aldo G., Giovanni Giolitti al Governo, in Parlamento, nel Carteggio, Bastogi Editrice Italiana, Foggia, 2009, p. 801.
[52] Mola Aldo Alessandro, Ricci Aldo G., Giovanni Giolitti al Governo, in Parlamento, nel Carteggio, Bastogi Editrice Italiana, Foggia, 2009, p. 804.
[53] Mola Aldo Alessandro, Ricci Aldo G., Giovanni Giolitti al Governo, in Parlamento, nel Carteggio, Bastogi Editrice Italiana, Foggia, 2009, pp. 949-950.
[54] Pacifici Vincenzo G., Prefetti, in “Dizionario del liberalismo italiano”, tomo I – Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011, pp. 837-841.
[55] L’evoluzione storica della figura del Prefetto, in “www.interno.gov.it”
https://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala_stampa/notizie/ministero/app_notizia_15773.html
[56] Scarcella Stefano, I prefetti e la Grande guerra 1915-1918, in “Instrumenta”, 1998, n. 6, pp. 1093-1123.
[57] Procacci Giovanna, L’internamento di civili in Italia durante la prima guerra mondiale. Normativa e conflitti di competenza, in “Deportate, Esuli, Profughe”, n.5-6/2006, pp. 33-66.
[58] Pintus Andrea, Anni di guerra e di prigionia 1915-1918, Editrice democratica sarda, Sassari 1994, p. 27.
[59] Prefetto di Benevento, 13 maggio 1918, in Polizia giudiziaria, n. 12100.1.4
Cfr. Procacci Giovanna, L’internamento di civili in Italia durante la prima guerra mondiale. Normativa e conflitti di competenza, in “Deportate, Esuli, Profughe”, n.5-6/2006, pp. 33-66.
[60] Amato Giuliano, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Giuffrè, Milano 1967, p. 230.
[61] Amato Giuliano, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Giuffrè, Milano 1967, p. 248.
[62] Procacci Giovanna, L’internamento di civili in Italia durante la prima guerra mondiale. Normativa e conflitti di competenza, in “Deportate, Esuli, Profughe”, n.5-6/2006, pp. 33-66.
[63] Zanni Rosiello Isabella, Storia dei prefetti, storia della prefettura, in “Le Carte e la Storia”, Fascicolo 1, giugno 1999, pp. 29-33.
[64] L’evoluzione storica della figura del Prefetto, in “www.interno.gov.it”
https://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala_stampa/notizie/ministero/app_notizia_15773.html
[65] Circolare pubblicata in Aquarone Alberto, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, Einaudi, 1995, p. 34.
[66] Tosatti Giovanna, Il prefetto e l’esercizio del potere durante il periodo fascista, in “Studi Storici”, Oct. – Dec., 2001, Anno 42, n. 4, pp. 1021-1039.
[67] Cifelli Alberto, I Prefetti del Regno nel ventennio fascista, SSAI, Roma, 1999.
[68] Louvin Roberto, Studio sulla funzione prefettizia del Presidente della regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, Giappichelli Editore, Torino, 2022, p. 6.
[69] Cifelli Alberto, I prefetti del regno nel ventennio fascista, con presentazione di G. Melis, Scuola superiore dell’amministrazione dell’Interno, Roma 1999, pp. 7-8.
[70] Pacifici Vincenzo G., Prefetti, in “Dizionario del liberalismo italiano”, tomo I – Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011, pp. 837-841.
[71] Artt.1 e 2 della legge n. 2263 del 1925.
[72] Art. 3 della legge n. 2263 del 1925.
[73] Art. 5, primo periodo, dello Statuto albertino.
[74] Art.1, comma 1, della legge n. 2263 del 1925.
[75] Furno Erik, Il Capo dello Stato tra Stato liberale e Stato fascista nella visione di Errico Presutti, in “Nomos”, 1-2022.
[76] Citino Ylenia, Le trasformazioni in via consuetudinaria e convenzionale del Governo dallo Statuto albertino al periodo transitorio, Luiss School of Government, 2019, p. 30.
[77] Atti parlamentari, Legislatura XXVII, Sessione 1924-25, Camera, Documenti, n. 663.
[78] Jemolo Arturo Carlo, I Prefetti, FINER, pp. 274-76; Zanobini Guido, L’Amministrazione locale in Italia, 2° ed., Padova, 1930, pp. 24-44.
[79] Fried Robert C., Il prefetto in Italia, Giuffré, 1967, pp. 164-184.
[80] Louvin Roberto, Studio sulla funzione prefettizia del Presidente della regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, Giappichelli Editore, Torino, 2022, pp. 5-6.
[81] Fried Robert C., Il prefetto in Italia, Giuffré, 1967, pp. 164-184.
[82] Archivio di Stato di Matera (ASMt), Prefettura Gabinetto, II vers., b. 15, f. 56, Discorso pronunciato dal Duce ai prefetti delle nuove province il 7 dicembre 1926 – Mnemostenografato dal prof. Ottavio Dinale – offerto in omaggio e in ricordo ai colleghi.
[83] Pantaleone Sergi, Quando Mussolini diede ai prefetti la “licenza di uccidere”, in “Giornale di storia contemporanea”, n.1, 2011, pp. 75-90.
[84] Per ulteriori dettagli circa gli spostamenti ed i collocamenti a riposo dei prefetti durante il fascismo, cfr. Tosatti Giovanna, Il prefetto e l’esercizio del potere durante il periodo fascista, in “Studi Storici”, Anno 42, n. 4, Oct. – Dec., 2001, pp. 1021-1039.
[85] L’evoluzione storica della figura del Prefetto, in “www.interno.gov.it”
https://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala_stampa/notizie/ministero/app_notizia_15773.html
[86] Gustapane Enrico, Una ricerca sui prefetti tra fascismo e democrazia, in “Le Carte e la Storia”, Fascicolo 1, giugno 2009, pp. 47-50.
[87] Louvin Roberto, Studio sulla funzione prefettizia del Presidente della regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, Giappichelli Editore, Torino, 2022, p. 7.
[88] Gustapane Enrico, Una ricerca sui prefetti tra fascismo e democrazia, in “Le Carte e la Storia”, Fascicolo 1, giugno 2009, pp. 47-50.
[89] Einaudi Luigi, Via il Prefetto!, in “L’Italia e il secondo Risorgimento”, 17 luglio 1944.
https://www.luigieinaudi.it/doc/via-il-prefetto/
[90] Persino Guido Carli, che diventerà in seguito governatore della Banca d’Italia e Ministro del Tesoro, giudicherà più tardi i prefetti del periodo successivo alla fine del regime fascista come un significativo freno allo sviluppo del liberismo economico, a causa del loro sostegno alle rivendicazioni sindacali e ad alcune forme di opposizione a tali politiche provenienti dal mondo cattolico.
Carli Guido, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, Roma-Bari, 1996.
[91] Goria Federico Alessandro, Il ruolo del Prefetto nella storia, in “Amministrazione pubblica”, Anno XXVI n. 112/2023, pp. 11-17.
[92] Gustapane Enrico, Una ricerca sui prefetti tra fascismo e democrazia, in “Le Carte e la Storia”, Fascicolo 1, giugno 2009, pp. 47-50.
[93] Cfr. Ministero per la Costituente, Commissione per gli studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato, Relazione della Seconda Sottocommissione: «organizzazione dello Stato», Failli, Roma, 1946.
[94] Albanese Antonia, Ruolo e vicende di una figura “interstiziale” fra politica e amministrazione nel periodo transitorio, parte terza, in “Riv. amm. pubbl.”, 105, 2002, p. 35.
[95] Melis Giudo, La pubblica amministrazione, in De Nicolò Marco (a cura di), “Costituente, Costituzione, riforme costituzionali”, Il Mulino, Bologna, 1988, p. 58.
[96] Intervento di Francesco Saverio Nitti all’Assemblea costituente nella seduta del 6 giugno 1947.
[97] Seduta dell’Assemblea costituente, 25 luglio 1946, 348.
[98] Louvin Roberto, Studio sulla funzione prefettizia del Presidente della regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, Giappichelli Editore, Torino, 2022, pp. 7-11.
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Lorenzo Marchetti
Professore abilitato all'insegnamento in Scienze giuridico-economiche (Cdc A-46), membro del Comitato Diritti Umani e Civili (XII Legislatura, Regione Piemonte) e consigliere comunale dal 2019 presso il comune di Basaluzzo.
Laureato cum Laude in Scienze Politiche nel 2015 presso l'Università del Piemonte Orientale, con Magistrale a pieni voti in Relazioni Internazionali conseguita nel 2017 presso l'Università di Genova.
Fra gli altri titoli culturali conseguiti si annoverano il Master di 1° livello in Didattica di Lingua italiana a stranieri (A.A. 2021/2022), il Master di 1° livello in discipline livello in "Discipline geografiche" (A.A. 2020/2021) e il Master di 1° livello in "Metodologie didattiche per l'integrazione di alunni DSA" (A.A. 2019/2020), tutti conseguiti col punteggio di 110/110.
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