Tatuaggi, divise e discriminazione indiretta nei concorsi pubblici: il caso della candidata esclusa e il rinvio pregiudiziale alla CGUE

Tatuaggi, divise e discriminazione indiretta nei concorsi pubblici: il caso della candidata esclusa e il rinvio pregiudiziale alla CGUE

Sommario: 1. Il caso che interroga il sistema – 2. La regola del decoro e la sua applicazione differenziale – 3. Il diritto dell’Unione e il divieto di discriminazione indiretta – 4. Il rinvio pregiudiziale come strumento di giustizia dialogica – 5. La doppia pregiudizialità e i profili costituzionali – 6. Mutamenti culturali e adeguamento del diritto amministrativo – 7. La tutela cautelare e il principio di effettività – 8. Conclusioni: una storia di diritti e di sistema

Abstract. Il presente contributo analizza il caso di una candidata esclusa dal concorso per Allievi Agenti della Polizia di Stato a causa di un tatuaggio visibile con l’uniforme femminile, ma non con quella maschile. La vicenda ha condotto il TAR Lazio a sollevare rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, interrogando il principio di non discriminazione e la parità di accesso al pubblico impiego. Attraverso un’analisi sistemica, il lavoro esamina la normativa nazionale, il quadro europeo, la giurisprudenza rilevante e le implicazioni costituzionali, evidenziando come il diritto debba confrontarsi con i mutamenti culturali e sociali per garantire una tutela effettiva e non discriminatoria.

1. Il caso che interroga il sistema

La storia giuridica qui analizzata nasce da un episodio apparentemente marginale, ma destinato a diventare simbolico. Una giovane donna, candidata al concorso per Allievi Agenti della Polizia di Stato, viene esclusa per la presenza di un piccolo tatuaggio sulla gamba destra. Non si tratta di un disegno dal contenuto offensivo o di natura politica, ma di un semplice simbolo, visibile unicamente quando la candidata indossa la gonna prevista dall’uniforme femminile. Se avesse indossato la divisa maschile, composta da pantaloni lunghi, quel tatuaggio non sarebbe stato visibile e, di conseguenza, non avrebbe determinato alcuna esclusione.

La norma regolamentare che vieta tatuaggi visibili con l’uniforme nasce dall’intento di tutelare l’immagine e il decoro delle forze dell’ordine, assicurando un’apparenza neutrale e decorosa degli agenti. Tuttavia, la stessa regola, quando applicata in un contesto in cui le divise differiscono in base al genere, finisce per produrre un effetto differenziale che non dipende dal contenuto della norma, ma dal corpo su cui essa si proietta. Il diritto, in questo modo, smette di essere neutro e diventa, inconsapevolmente, discriminante.

Il TAR Lazio, investito del ricorso, coglie immediatamente la delicatezza del caso. Comprende che non si tratta soltanto di verificare la legittimità di un provvedimento amministrativo, ma di misurarsi con una questione più profonda: se la diversità delle divise possa legittimare trattamenti differenziati tra uomini e donne nell’accesso al pubblico impiego. Con un’ordinanza di grande rilievo, il tribunale dispone l’ammissione con riserva della candidata alle prove successive del concorso e sospende il giudizio, sollevando un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’articolo 267 TFUE. È una scelta che trasforma un caso personale in una questione di sistema, affidando alla Corte di Lussemburgo il compito di chiarire se il principio europeo di parità e non discriminazione si opponga a norme nazionali che producono effetti differenziati in ragione del sesso.

2. La regola del decoro e la sua applicazione differenziale

La disciplina italiana in materia di reclutamento nelle Forze dell’Ordine prevede che i candidati non possano presentare tatuaggi visibili con l’uniforme. Tale previsione risponde a esigenze di decoro istituzionale, neutralità e rispetto della figura del pubblico ufficiale. Tuttavia, il decoro, concetto per sua natura mutevole e legato al contesto storico-sociale, non può essere interpretato in modo statico o fondato su schemi estetici di genere.

Nel caso in esame, il criterio di esclusione risulta dipendere non dal contenuto o dall’impatto visivo del tatuaggio, ma dal tipo di uniforme che il candidato deve indossare. L’elemento discriminante non risiede nel corpo in sé, ma nella regola che differenzia i corpi sulla base del genere. L’effetto è paradossale: una norma concepita per garantire l’uniformità dell’immagine istituzionale produce, invece, una differenza sostanziale tra uomini e donne.

Il tatuaggio, dunque, da elemento estetico e identitario, diventa fattore di esclusione, segno di una tensione irrisolta tra libertà personale e conformismo amministrativo. Il diritto del lavoro e quello amministrativo devono oggi interrogarsi su quanto sia ancora giustificabile l’imposizione di standard estetici rigidi e differenziati, soprattutto in un contesto in cui l’evoluzione sociale ha reso il tatuaggio un fenomeno ampiamente accettato, espressione di identità e libertà individuale.

3. Il diritto dell’Unione e il divieto di discriminazione indiretta

Il diritto dell’Unione Europea offre strumenti fondamentali per affrontare situazioni come quella descritta. La direttiva 2006/54/CE, che disciplina la parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, vieta sia la discriminazione diretta sia quella indiretta fondata sul sesso. Quest’ultima si verifica quando una disposizione apparentemente neutra pone, di fatto, persone di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre.

Gli articoli 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione rafforzano tale tutela, vietando ogni forma di discriminazione fondata sul sesso e imponendo agli Stati membri di assicurare pari opportunità tra uomini e donne. La Corte di Giustizia ha più volte ribadito che la discriminazione indiretta può essere individuata anche in regole neutre nella formulazione, ma discriminatorie negli effetti, come affermato nelle celebri sentenze Seymour-Smith (C-167/97) e Roca Álvarez (C-104/09).

Applicando tali principi, nel caso in esame la discriminazione non deriva dalla presenza del tatuaggio in sé, ma dalla differenza di uniformi. La donna viene svantaggiata per il solo fatto che la divisa femminile non copre integralmente le gambe, mentre quella maschile sì. Una simile differenziazione, se non giustificata da ragioni obiettive e proporzionate, risulta incompatibile con il diritto europeo.

4. Il rinvio pregiudiziale come strumento di giustizia dialogica

Il rinvio pregiudiziale previsto dall’articolo 267 TFUE rappresenta uno degli strumenti più raffinati del sistema giuridico europeo. Esso consente ai giudici nazionali di attivare un dialogo interpretativo con la Corte di Giustizia, affinché quest’ultima chiarisca il significato e la portata delle norme dell’Unione. Tale meccanismo assicura l’uniformità applicativa del diritto europeo e rafforza la tutela effettiva dei diritti fondamentali.

Il TAR Lazio, nell’adottare questa via, ha mostrato un approccio consapevole e aperto al principio di cooperazione giudiziaria. Ha scelto di non pronunciarsi autonomamente su una questione che presenta profili di compatibilità con il diritto dell’Unione, riconoscendo che la Corte di Lussemburgo è la sede naturale per stabilire i confini della parità di trattamento. Al tempo stesso, ha garantito tutela immediata alla candidata, ammettendola con riserva alla prosecuzione del concorso e sospendendo il procedimento in attesa della decisione europea.

La scelta del rinvio pregiudiziale si inserisce in un più ampio contesto di giustizia dialogica, in cui il giudice nazionale diventa interlocutore attivo del sistema sovranazionale, contribuendo alla costruzione condivisa di un diritto dei diritti.

5. La doppia pregiudizialità e i profili costituzionali

La vicenda tocca anche il delicato tema del rapporto tra diritto europeo e Costituzione italiana. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 269 del 2017, ha riconosciuto la possibilità per il giudice nazionale di sollevare congiuntamente una questione di legittimità costituzionale e un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, quando siano coinvolti diritti fondamentali tutelati da entrambe le fonti.

Nel caso dei tatuaggi e delle divise, la questione si intreccia con i principi fondamentali sanciti dagli articoli 3, 51 e 117 della Costituzione. Il primo afferma il principio di uguaglianza formale e sostanziale, il secondo garantisce la parità di accesso agli uffici pubblici, mentre il terzo impone il rispetto degli obblighi internazionali e sovranazionali. L’eventuale incompatibilità della normativa italiana con il diritto dell’Unione, dunque, non avrebbe solo rilievo comunitario, ma inciderebbe anche sulla conformità della stessa ai valori costituzionali italiani.

6. Mutamenti culturali e adeguamento del diritto amministrativo

Il caso esaminato è lo specchio di una tensione più ampia tra diritto e società. Le norme concorsuali, concepite in un tempo in cui la neutralità dell’aspetto fisico coincideva con l’omologazione estetica, oggi appaiono anacronistiche. La crescente accettazione sociale dei tatuaggi e la loro diffusione in ogni ambito professionale rendono necessario un ripensamento delle regole. Il decoro non può più essere definito in termini puramente esteriori o legati a modelli di genere.

Il diritto amministrativo, che per sua natura deve coniugare legalità e ragionevolezza, non può restare ancorato a concezioni statiche. Esso deve saper evolvere insieme alla società che regola, garantendo che i principi di imparzialità e buon andamento si armonizzino con quelli di uguaglianza e libertà. È compito dell’amministrazione adeguare i propri regolamenti a criteri oggettivi, neutrali e proporzionati, capaci di preservare l’immagine istituzionale senza comprimere diritti fondamentali.

7. La tutela cautelare e il principio di effettività

La decisione del TAR Lazio di ammettere la candidata con riserva rappresenta un esempio significativo di tutela cautelare orientata al principio di effettività. Nei concorsi pubblici, in cui il fattore temporale è decisivo, la sospensione di un provvedimento di esclusione consente di preservare il diritto del ricorrente senza pregiudicare l’interesse pubblico. È un’applicazione concreta del principio di proporzionalità, che impone di bilanciare la tutela dei diritti individuali con la funzionalità dell’azione amministrativa.

Questa forma di tutela assume un valore ancora più rilevante in un contesto multilivello, in cui il giudice nazionale deve garantire non solo la conformità formale dell’azione amministrativa, ma anche la piena efficacia dei diritti riconosciuti dall’ordinamento europeo.

8. Conclusioni: una storia di diritti e di sistema

Il caso della candidata esclusa per un tatuaggio visibile non è solo una vicenda individuale, ma un banco di prova per l’intero sistema giuridico. Esso mette in discussione l’equilibrio tra il decoro dell’istituzione e la libertà della persona, tra la forma e la sostanza, tra l’uniformità e la diversità. La pronuncia della Corte di Giustizia avrà un valore che trascende la singola controversia, perché potrà ridisegnare i confini del principio di non discriminazione, estendendone la portata anche alle forme più sottili di disparità, quelle che si nascondono nelle pieghe delle regole apparentemente neutre.

In un ordinamento democratico, il diritto non può essere indifferente al corpo, alla storia e alla libertà delle persone. Il tatuaggio della candidata diventa, in questa prospettiva, un segno simbolico del rapporto tra diritto e realtà, tra norma e identità. È il segno di come l’evoluzione sociale chieda al diritto di guardarsi allo specchio e di rinnovarsi, per restare fedele al suo compito più alto: garantire giustizia e uguaglianza, in ogni forma, anche la più minuta.

In definitiva, questa vicenda dimostra che nessuna norma, per quanto neutra, è immune dal rischio di produrre diseguaglianza. La giustizia, per essere autentica, deve saper leggere la realtà, ascoltare la diversità e tradurla in diritto. Perché dietro ogni regola c’è un principio, e dietro ogni principio, sempre, una persona.


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