CEDU: l’Italia condannata per la “terra dei fuochi”
di Michele Di Salvo
La CEDU si è pronunciata di recente su un caso “italiano” in cui si discuteva dell’inerzia manifestata dallo Stato nel contrastare il fenomeno riguardante l’interramento di rifiuti tossici e rifiuti speciali, la presenza di numerose discariche abusive sparse sul territorio, e l’innesco di numerosi roghi di rifiuti, che diffondevano diossina e altri gas inquinanti nell’atmosfera.
L’area in questione è quella comunemente denominata “Terra dei Fuochi”, localizzata in una vasta area che si estende in Campania, a cavallo tra la provincia di Caserta e l’allora provincia di Napoli.
La Corte EDU ha ritenuto, all’unanimità, solo per alcuni dei ricorsi, che vi fosse stata la violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU, Sez. I, sentenza 30 gennaio 2025, n. 51567/14).
Il testo, lunghissimo, della sentenza è disponibile qui: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.page?contentId=SDU1455751
nel commentarlo vi ho fatto ampiamente ricorso, anche per ragioni di fedeltà su un tema così delicato.
Sommario: 1. Il caso – 2. Il ricorso e le norme violate – 3. La decisione della Corte di Strasburgo – 4. I precedenti ed i possibili impatti – 5. Gli effetti sulla salute – 6. Effetti sull’inquinamento alimentare – 7. I rimedi posti in essere dallo Stato italiano – 8. Alcune annotazioni sulla sentenza CEDU – 9. Un commento finale
Il caso
Il caso, deciso il 31 gennaio 2025, traeva origine da plurimi ricorsi (n. 51567/14 e altri tre, poi riuniti) contro l’Italia, presentati alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione e.d.u., da 41 cittadini italiani, residenti nelle province di Caserta e Napoli in Campania, e cinque associazioni ambientaliste con sede in Campania.
La Terra dei Fuochi si riferisce a un’area di 90 comuni in Campania con una popolazione di circa 2,9 milioni di abitanti. Descrive gli effetti dello scarico illegale, dell’interramento e/o dell’abbandono incontrollato di rifiuti pericolosi, speciali e urbani su terreni privati, spesso combinati con la loro combustione, che avevano avuto luogo in tali aree. I ricorrenti avevano tutti affermato di aver subito direttamente o indirettamente gli effetti dello smaltimento illegale di rifiuti e che tale problema era noto alle autorità da un periodo significativo di tempo.
Va qui incidentalmente ricordato che il fenomeno non ha alcuna attinenza diretta con l’emergenza rifiuti di alcuni decenni fa, che invece riguardava la capacità di smaltimento regionale dei rifiuti “raccolti legalmente”, e va anche ricordato che numerose inchieste hanno evidenziato come gran parte dei rifiuti – spesso chimici, industriali e speciali – oggetto di roghi provenivano da altre aree del paese, trattati da aziende spesso legate alla criminalità organizzata e che gestivano le proprie attività spesso nella totale illegalità.
Sul fenomeno sono state istituite in totale sette commissioni parlamentari d’inchiesta sull’illegalità nella gestione dei rifiuti. Le loro conclusioni (per chiarire quanto anticipato) includevano quanto segue:
a) c’erano molteplici discariche abusive nelle province di Caserta e Napoli, in particolare nel-le campagne attorno ad Aversa e sul litorale domizio-flegreo. Lo smaltimento illegale dei rifiuti era controllato da gruppi criminali organizzati. Quantità considerevoli di rifiuti erano state tra-sportate da tutta Italia. Il problema era noto alle autorità fin dal 1988;
b) un metodo di smaltimento era lo scarico e l’interramento dei rifiuti in discariche abusive, che erano spesso cave, corsi d’acqua o grandi fosse che a volte venivano scavate su terreni agricoli e poi ricoperte con il terreno che continuava a essere poi utilizzato per l’agricoltura. È stato notato che quando i rifiuti non venivano scaricati, a volte venivano mescolati ad altre sostanze per essere utilizzati, ad esempio, come materiale da costruzione o come compost, con impatti negativi sulle falde acquifere. Per quanto riguarda lo smaltimento delle auto, un rapporto aveva osservato a Marcianise e Castelvolturno “vere e proprie montagne di pneumatici per auto [che vanno] in fumo”;
c) la campagna del nord di Napoli era diventata “un ricettacolo di rifiuti di ogni genere”. Un rapporto si riferiva alla Campania come “la pattumiera d’Italia” e un altro affermava che si trattava di un “disastro ambientale … paragonabile solo alla diffusione della peste nel diciassettesimo secolo”;
d) la contaminazione da diossina aveva causato l’inquinamento di un’area considerevole. In alcune aree, come nei pressi di Villa Literno, era stata osservata una concentrazione eccezionale di metalli pesanti. Si era verificato un “avvelenamento persistente” del terreno;
d) tra le altre scoperte riguardanti la salute, è stato notato che i tassi di cancro erano notevolmente aumentati in quella zona, come attestato nei rapporti italiani e internazionali, come quelli di The Lancet Oncology, Epidemiologia & Prevenzione, del Senato italiano e dell’Organizzazione mondiale della sanità, che avevano confermato risultati sanitari al di fuori della norma italiana in quell’area.
Le commissioni parlamentari avevano evidenziato le questioni legali relative alla gestione dell’inquinamento, tra cui la deterrenza “praticamente inesistente”, la mancanza di “fermezza necessaria” nella risposta dello Stato, la quasi impossibilità di ottenere condanne per reati ambientali, tra le altre cose, anche a causa dei brevi termini di prescrizione. Sono state critiche nei confronti dei piani di bonifica e dei lunghi ritardi nell’intraprendere azioni di contrasto.
Incidentalmente andrebbe ricordato che la commissione parlamentare d’inchiesta è fatta di parlamentari, e almeno sui tempi di prescrizione brevi, da lo stessi evidenziati, avrebbero poturo agire per propria iniziativa.
2. Il ricorso e le norme violate
Rivolgendosi alla Corte di Strasburgo, basandosi sugli articoli 2 (diritto alla vita) e 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), i ricorrenti lamentavano, in particolare, che le autorità italiane erano a conoscenza, ma non avevano adottato misure per proteggerli dallo scarico illegale, dall’interramento e dalla combustione di rifiuti pericolosi nelle loro aree; e che le autorità non avevano fornito loro informazioni a tale riguardo.
Avevano inoltre invocato l’articolo 13 (diritto a un ricorso effettivo).
I ricorsi erano stati depositati presso la Corte europea dei diritti dell’uomo in date diverse tra il 28 aprile 2014 e il 15 aprile 2015.
ClientEarth, MacroCrimes, Forum for Human Rights and Social Justice dell’Università di New-castle, Newcastle Environmental Regulation Research Group dell’Università di Newcastle, Let’s Do It! Italia e Legambiente (in un’unica presentazione), il professor M. C. e il signor V. L. (Centro di Ricerca Euro Americano sulle Politiche Costituzionali – CEDEUAM); il professor F. B. (Istituto di Fisiologia Clinica di Pisa); e il signor G. D’A. (Università di Coimbra) e il professor M. A. (KTH Royal Institute of Technology di Stoccolma) sono stati autorizzati a presentare osservazioni in qualità di terzi.
3. La decisione della Corte di Strasburgo
Accettando che vi fosse un rischio per la vita “sufficientemente grave, genuino e accertabile”, che poteva essere qualificato come “imminente”, la Corte ha ritenuto che questo caso rientrasse nell’ambito dell’articolo 2.
In linea con un “approccio precauzionale” e con il lasso di tempo in cui il problema dell’inquinamento era noto, la Corte ha ritenuto che lo Stato non potesse fare affidamento sul fatto che gli effetti precisi che l’inquinamento avrebbe potuto avere sulla salute di un particolare ricorrente non potessero essere accertati per sottrarsi al suo dovere di protezione nei confronti dei restanti ricorrenti.
A seguito di questa crisi, lo Stato aveva dovuto affrontare diversi obblighi.
La Corte ha ritenuto che non vi fossero prove sufficienti di una risposta sistematica, coordinata e completa da parte delle autorità nel gestire la situazione della Terra dei Fuochi. I progressi erano stati lenti nella valutazione dell’impatto dell’inquinamento quando era stato necessario un intervento. Ha rilevato un problema generalizzato di coordinamento e attribuzione di responsabilità in Campania per quanto riguarda la decontaminazione. Era impossibile avere un’idea generale di dove fosse ancora necessario decontaminare.
Il Governo ha dichiarato che erano state intraprese numerose azioni per indagare sugli impatti sulla salute dell’inquinamento, come il rafforzamento dello screening del cancro. Tuttavia, la maggior parte di queste misure è stata intrapresa solo dopo il 2013.
Alla luce dei ritardi che hanno caratterizzato la risposta delle autorità, queste non avevano agito con la diligenza richiesta nelle loro indagini sull’impatto sulla salute dell’inquinamento causato nella Terra dei Fuochi.
Il Governo aveva fornito solo sette esempi di condanne presumibilmente correlate per reati ambientali. Data la lunga durata della crisi, è stato impossibile per la Corte ottenere una panoramica solo da quelle poche condanne. Non si è dimostrata quindi convinta del fatto che lo Stato avesse adottato le necessarie misure di giustizia penale per combattere lo smaltimento illegale di rifiuti nell’area della Terra dei Fuochi.
La Corte, anzi, ha aggiunto che le autorità italiane sembravano essere state piuttosto lente nell’affrontare le carenze sistematiche che da sempre hanno afflitto il sistema di gestione dei rifiuti in Campania.
Data l’entità, la complessità e la gravità della situazione, sarebbe stata necessaria una strategia di comunicazione completa e accessibile, al fine di informare il pubblico in modo proattivo sui potenziali o effettivi rischi per la salute e sulle azioni intraprese per gestire tali rischi. Ciò non era stato fatto. In effetti, alcune delle informazioni erano state per periodi considerevoli coperte dal segreto di Stato.
Nel complesso, la Corte ha ritenuto che le autorità italiane non si fossero approcciate al problema della Terra dei Fuochi con la diligenza che era giustificata dalla gravità della situazione.
Lo Stato italiano non aveva fatto tutto ciò che gli era richiesto per proteggere la vita dei ricorrenti.
Ai sensi dell’articolo 46 (forza vincolante ed esecuzione delle sentenze), la Corte, tenendo conto della natura persistente del problema e delle carenze sistemiche che hanno caratterizzato la risposta dello Stato, unite al gran numero di persone colpite e che sono potenzialmente a rischio, e dell’urgente necessità di garantire loro un risarcimento rapido e adeguato, ha ritenuto opportuno applicare la procedura della “sentenza pilota” nel caso di specie.
La Corte ha quindi stabilito che l’Italia è tenuta a elaborare una strategia globale che riunisca le misure esistenti o previste per affrontare il problema della Terra dei Fuochi; è tenuta ad istituire un meccanismo di monitoraggio indipendente, comprendente membri liberi da qualsiasi affiliazione istituzionale con le autorità statali; ed è tenuta ad istituire un’unica piattaforma di informazione pubblica che riunisca tutte le informazioni pertinenti relative al problema della Terra dei Fuochi. Le misure di cui sopra devono essere attuate entro il termine di due anni dal passaggio in giudicato della sentenza.
Per quanto concerne la richiesta di equa soddisfazione ex art. 41 CEDU, la Corte ha riservato la pronuncia sul danno non patrimoniale per un periodo non superiore a due anni dopo che la sentenza diverrà definitiva. La Corte ha ritenuto che l’Italia sia tenuta a versare ai ricorrenti gli importi stabiliti nella sentenza per spese e costi (pari a 20.000 euro ciascuno per sei ricorrenti).
4. I precedenti ed i possibili impatti
Si chiude, almeno per il momento (una sorta di sospensione di due anni), davanti ai giudici di Strasburgo l’annosa vicenda della gestione emergenziale dei rifiuti nella c.d. Terra dei Fuochi, che ha visto lo Stato italiano pressoché inerte sul piano non tanto normativo quanto, piuttosto, operativo, da circa 30 anni.
Dal punto di vista investigativo, i primi sospetti sull’attività illegale dello smaltimento dei rifiuti tossici furono evidenziati nella prima metà degli anni Novanta da un’indagine della Polizia di Stato, L’informativa, del 1996, in cui si presentavano i risultati delle indagini e i dettagli sui reati e i presunti autori non ebbe però ulteriori sviluppi fino al 2011. In quell’anno, secondo un rapporto dell’ARPA della Campania, un’area di 3 milioni di metri quadri, compresa tra i Regi Lagni, Lo Uttaro, Masseria del Pozzo-Schiavi (nel Giuglianese) ed il quartiere di Pianura della città di Napoli, era molto compromessa per l’elevata e massiccia presenza di rifiuti tossici.
Nel 2015, nel comune di Calvi Risorta, il Corpo forestale dello Stato aveva scoperto un’area di sversamento clandestino dei rifiuti, ritenuta la più grande discarica sotterranea d’Europa di rifiuti tossici, ritenuta opera della camorra, con uno stesso sistema di sigillamento degli strati della discarica, simile a quello utilizzato dal clan dei casalesi.
Nel 2016 la Regione Campania aveva avviato in collaborazione con l’Istituto zooprofilattico sperimentale del Mezzogiorno di Portici il progetto SPES per analisi ambientali e sulla popolazione in relazione all’esposizione a fattori inquinanti. Il progetto, con la partecipazione anche dell’Università Federico II, della SUN, dell’Università degli Studi di Milano, dell’IRCCS Pascale e del CNR, partito dall’area della cosiddetta Terra dei fuochi si era poi esteso ad altre criticità.
In particolare, in relazione alla Terra dei Fuochi sono risultati contaminati solo 33 ettari sui 50.000 indagati; su 30.000 campionamenti presso 10.000 aziende nell’area interessata sono state riscontrate 6 positività (pari allo 0,2%) ed appena il 2% dei prelievi a ridosso di aree urbane presentava criticità. La Regione aveva avviato anche un piano di monitoraggio aereo attraverso droni dei possibili roghi di rifiuti e dotato di nuovi mezzi la Protezione Civile dei Comuni interessati.
5. Gli effetti sulla salute
In generale, una correlazione significativa tra esposizioni ambientali e tumori è di difficile (se non impossibile) applicazione, in quanto intervengono molti altri fattori, come la cattiva alimentazione, il fumo, la familiarità, i controlli ospedalieri, i ricoveri e la diagnosi precoce. Tuttavia, numerosi studi hanno rimosso ogni dubbio sull’aumento di casi di tumore nella popolazione locale rispetto alla media nazionale e la presenza di materiali inquinanti e cancerogeni nel corpo di chi è malato di tumore.
Uno studio del 2012 sul Registro tumori infantili della Campania ha evidenziato un aumento statisticamente significativo del numero di casi di neoplasie tiroidee.
Nel 2019 è stata confermata la presenza di metalli pesanti (dall’acclarato nesso causale con lo sviluppo di tumori) nei malati di tumore residenti a Giugliano, Qualiano, Castel Volturno e nel quartiere Pianura di Napoli, in quantità superiori che nei soggetti sani e “del tutto fuori norma”.
Lo studio, chiamato Veritas e condotto dallo Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine della Temple University di Philadelphia e dall’Istituto nazionale tumori (Fondazione Giovanni Pascale), è stato presentato in Parlamento.
Una mappatura del territorio di competenza della Procura di Napoli nord è stata condotta tra il 2016 e il 2020 da un gruppo di lavoro indipendente dell’Istituto Superiore di Sanità, su commissione della stessa Procura. Si è calcolato che un terzo dei residenti vive a meno di 100 metri da un sito inquinante. L’area è stata analizzata in relazione a due fattori: a) la presenza di siti di stoccaggio rifiuti (legali o no), inclusi quelli oggetto di roghi, per un totale di 2767 siti; b) le informazioni di carattere sanitario, a esempio diagnosi ospedaliere e dati dell’AIRTUM, Associazione italiana registri tumori (per i comuni ricadenti nella provincia di Caserta, i dati utilizzati sono soltanto quelli tra il 2010 e il 2012).
Per ognuno di essi, lo studio ha ripartito i comuni dell’area in quattro fasce di rischio. L’incidenza di numerose patologie è molto più alta nei comuni nelle fasce 3 e 4 (maggiore rischio di presenza di rifiuti inquinanti): in particolare, l’incidenza di leucemie, l’incidenza e la mortalità per tumore alla mammella, le malformazioni congenite, patologie asmatiche, il parto pretermine. Lo studio dimostra “una correlazione con il rischio di esposizione a rifiuti” al punto che “alcuni comuni, infatti, presentano eccessi di specifiche patologie”.
6. Effetti sull’inquinamento alimentare
Ricerche compiute dall’Università Federico II e, in modo indipendente, dall’Istituto zooprofilattico sperimentale del Mezzogiorno di Portici, hanno ridimensionato la situazione di rischio, confinando la presenza di aree critiche corrispondenti al solo 3% dell’intera superficie geografica della cosiddetta Terra dei Fuochi. Tali micro-aree locali, inoltre, non sono correlate ad aree rurali, né al fenomeno di mala gestione dei rifiuti, ma coincidono in modo sostanziale con le principali aree urbano-industriali presenti nel territorio.
A dicembre 2017, nel corso di una conferenza stampa tenuta nell’ambito dell’evento “Nuova Campania – Le nuove frontiere della Ricerca su Ambiente, Cibo e Salute”, il direttore dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Mezzogiorno, alla presenza del Presidente della Regione Campania e del presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, ha evidenziato come, nell’ambito delle serrate, sistematiche e capillari attività di campionamento delle matrici ambientali previste dal progetto “Campania Trasparente”, solo 33 dei 50000 ettari di terreno analizzati sono risultati contaminati. L’ISS (Istituto superiore di sanità) ha reso pubblico come l’inquinamento delle falde, seppur assolutamente non a livello diffuso, sia un problema concreto e misurabile, così come lo stato di salute della popolazione locale rispetto a quella italiana. Infine, l’abbandono e l’incenerimento illegale di rifiuti risulta sia dall’opera di privati cittadini che dalle organizzazioni mafiose radicate e non sul territorio, come la Camorra.
Proprio il tema dello smaltimento illegale dei rifiuti è l’aspetto più preoccupante ed endemico.
La zona è risultata interessata anche da un consistente traffico di rifiuti, tra le cui attività rientrerebbe lo sversamento e l’eliminazione di materiali come copertoni o scarti di abbigliamento, provenienti soprattutto dal Nord Italia, o il recupero del rame dai cavi elettrici rubati, mediante combustione delle guaine che lo ricoprono. I roghi divennero più frequenti quando potevano essere confusi tra i numerosi roghi appiccati ai cumuli di immondizia durante la crisi dei rifiuti in Campania, tra il 2007 e il 2008.
Le indagini e le dichiarazioni di pentiti di camorra hanno evidenziato come la Campania fosse destinata a diventare una discarica a cielo aperto, soprattutto di materiali tossici, tra cui piombo, scorie nucleari e materiale acido, che hanno inquinato le falde acquifere campane e le coste di mare dal basso Lazio fino ad arrivare a Castelvolturno.
Nel 2021, il Tribunale di Napoli ha riconosciuto il nesso causale tra camorra e discariche abusive, con la confisca di 10 milioni di euro per lo smaltimento abusivo di rifiuti (ivi compresi rifiuti tossici) di ingente quantità, anche con impatto sui terreni agricoli che sono nelle vicinanze delle discariche abusive.
7. I rimedi posti in essere dallo Stato italiano
Assolutamente insufficienti, poi, sono risultati gli interventi normativi di rango primario e secondario susseguitisi, tra cui:
a) il D.L. 10 dicembre 2013, n. 136, convertito nella L. n. 6/2014, che aveva introdotto misure urgenti per fronteggiare le emergenze ambientali;
b) la direttiva interministeriale del 23 dicembre 2013, con cui era stato istituito un gruppo di lavoro per l’individuazione dei terreni contaminati da pratiche illecite di smaltimento dei rifiuti nella Regione Campania, per l’elaborazione di un modello scientifico di classificazione delle aree ispezionate in base ai livelli di inquinamento e, infine, per la predisposizione di relazioni contenenti i risultati delle indagini e le proposte di misure da adottare.
Insufficienti a contrastare il fenomeno anche gli strumenti penalistici (D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, c.d. decreto Ronchi; D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, c.d. Testo Unico Ambientale, anche per la parte disciplinante le operazioni di bonifica dei siti inquinanti; gli artt. 439 e 440, c.p., che prevedono il reato di avvelenamento di acque o di sostanze alimentari ed il reato di adulterazione o contraffazione di sostanze alimentari; da ultimo, l’art. 452-quaterdecies, c.p., che ha inserito nel Codice penale il reato di attività organizzate per il traffico di rifiuti, per la prima volta introdotto con la L. 23 marzo 2001, n. 90, come nuovo articolo 53-bis, nel D.Lgs. n. 22/1997, poi traslato nell’articolo 260 del D.Lgs. n. 152/2006, che dal 1 marzo 2018 è disciplinato dal già citato art. 452-quaterdecies, c.p.; ancora, l’articolo 256-bis D.Lgs. n. 152/2006, che ha previsto il grave reato di combustione illecita di rifiuti; da ultimo, la L. n. 68/2015, che ha inserito nel codice penale specifici reati gravi (delitti) per contrastare il traffico e lo scarico illegale di rifiuti, quali inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico o scarico di sostanze ad alto livello radioattivo, ostacolo alle attività di vigilanza e mancata bonifica.
Rilevanti, ma sostanzialmente inefficaci anche i rimedi civilistici ed amministrativi (art. 2043 c.c.; artt. 309 e 310, D.Lgs. n. 152/2006 che prevedono la possibilità di presentare ricorsi al Ministro dell’ambiente in merito a presunti danni ambientali o minacce di danni stessi; il D.Lgs. 20 dicembre 2009, n. 198 (recante “Attuazione dell’articolo 4 della L. 4 marzo 2009, n. 15, recante rimedi giurisdizionali volti a promuovere l’efficienza delle pubbliche amministrazioni e dei gestori di pubblici servizi”) che ha introdotto la possibilità di proporre un’azione collettiva contro le pubbliche amministrazioni dinnanzi al TAR.
Men che meno afflittive o deterrenti le decisioni assunte sul piano amministrativo o penale (sentenza n. 676 dell’8/2/2012 del TAR Campania, pronunciata a seguito di un ricorso proposto dall’associazione ambientalista Legambiente e da una persona fisica, AS, ai sensi dell’articolo 309 del D.Lgs. n. 152/2006, in cui lamentavano la contaminazione delle falde acquifere e il deterioramento della qualità dell’aria dovuti, secondo i ricorrenti, a pratiche illecite di gestione dei rifiuti poste in essere in una discarica di rifiuti solidi urbani situata nel comune di Terzigno nella regione Campania; la sentenza della Corte d’appello di Napoli, Sez. IV penale, n. 5052 del 14/11/2012 e procedimenti connessi; la sen-tenza della Corte d’Appello di Napoli, Sez. IV penale, n. 680 del 23/4/2015 e la sentenza della Corte di Cassazione penale, Sez. I, n. 58023 del 7/5/2017, relative ad un procedimento che traeva origine da un’indagine avviata nel 2006 riguardante la gestione e lo smaltimento illeciti di circa un milione di tonnellate di rifiuti sia pericolosi che non pericolosi; la sentenza del Tribunale di Napoli Nord, Sez. II, n. 685 del 21/3/2018 che fa seguito ad un’indagine nei confronti di quattro individui, tutti sospettati di aver commesso il reato di adulterazione e contraffazione di prodotti alimentari ai sensi dell’art. 440 c.p.; la sentenza della Corte d’Assise di Napoli del 15/7/2016 e la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Napoli, Sez. IV, n. 8 del 16/7/2019, che ha avuto origine da un’indagine che ha portato alla luce un’attività di traffico di rifiuti su larga scala che, a partire dalla fine degli anni ’80, tramite società di comodo e attraverso la falsificazione di documenti, aveva facilitato lo smaltimento illegale di grandi quantità di rifiuti, compresi rifiuti pericolosi, provenienti da fonti industriali e da altri soggetti privati in altre parti d’Italia, in discariche nel comune di Giugliano (denominate complesso “Resit”) e in altre aree limitrofe nelle province di Napoli e Caserta; la sentenza della Corte d’appello di Napoli, Sez. VI penale, n. 1843 del 9/3/2015 e la sentenza della Corte di cassazione penale, Sez. VI, n. 19001 del 5/4/2016, che chiude il procedimento che traeva origine da un’indagine avviata nel 2002 riguardante l’infiltrazione di un gruppo criminale organizzato (camorra) nella gestione e nello smaltimento dei rifiuti nel comune di Marcianise).
Di assoluto rilievo, peraltro, la ricognizione della normativa europea e delle sentenze della CGUE che si sono pronunciate sulla questione:
a) i considerando 2, 6 e da 8 a 10 del preambolo della direttiva 2006/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2006, relativa ai rifiuti, in vigore fino all’11 dicembre 2010;
b) la sentenza del 26/4/2007 Commissione/Italia (C-135/05, EU:C:2007:250), in cui la Corte di giustizia ha rilevato la generale non conformità delle discariche alle disposizioni applicabili, osservando, tra l’altro, che il governo italiano non contestava l’esistenza in Italia di almeno 700 discariche abusive contenenti rifiuti pericolosi, che non erano pertanto sottoposte ad alcuna misura di controllo;
c) la sentenza del 4/3/2010, Commissione/Italia (C-297/08, EU:C:2010:115), in cui la Corte di giustizia, pur prendendo atto delle misure adottate dall’Italia nel 2008 per fronteggiare la “crisi dei rifiuti”, ha fatto riferimento all’esistenza di un “deficit strutturale in termini di impianti necessari al-lo smaltimento dei rifiuti urbani prodotti in Campania, come testimoniato dalle notevoli quantità di rifiuti che [si erano] accumulate lungo le strade pubbliche della regione”;
d) la sentenza del 16/7/2015, Commissione/Italia (C-653/13, EU:C:2015:478), in cui la Corte di giustizia ha rilevato che l’obbligo di smaltire i rifiuti senza mettere in pericolo la salute umana e senza arrecare danno all’ambiente rientrava nell’obiettivo stesso della politica ambientale dell’Unione, in virtù dell’articolo 191 TFUE.
Non meno preoccupanti, infine, i risultati riportati nel rapporto finale, pubblicato il 13 luglio 2022 (A/HRC/51/35/Add.2), contenente una sezione intitolata Terra dei Fuochi, redatto dal Relatore speciale delle Nazioni Unite sulle implicazioni per i diritti umani della gestione e dello smaltimento ecologicamente corretti di sostanze e rifiuti pericolosi (noto anche come Relatore speciale delle Nazioni Unite su sostanze tossiche e diritti umani), all’esito della sua visita in Italia dal 30 novembre al 13 dicembre 2021.
8. Alcune annotazioni sulla sentenza CEDU
La Corte ha ribadito che l’obbligo positivo di adottare tutte le misure appropriate per salvaguardare la vita ai sensi dell’articolo 2 comporta, in primo luogo, un dovere primario dello Stato di predisporre un quadro legislativo e amministrativo concepito per fornire un’efficace deterrenza contro le minacce del diritto alla vita.
Quanto alla scelta di particolari misure operative volte a proteggere i cittadini la cui vita potrebbe essere messa in pericolo dai rischi intrinseci posti da attività pericolose, la Corte ha costantemente sostenuto che, quando lo Stato è tenuto ad adottare misure positive, la scelta dei mezzi è in linea di principio una questione che rientra nel margine di apprezzamento dello Stato contraente.
Esistono diverse vie per garantire i diritti della Convenzione e, anche se lo Stato non ha applicato una particolare misura prevista dal diritto interno, può comunque adempiere al suo dovere positivo con altri mezzi. A questo riguardo, non si deve imporre un onere impossibile o sproporzionato alle autorità senza considerare, in particolare, le scelte operative che devono fare in termini di priorità e risorse; ciò deriva dall’ampio margine di apprezzamento di cui godono gli Stati, come la Corte ha precedentemente affermato, in difficili ambiti sociali e tecnici.
La Corte ha anche osservato, in determinati contesti, che affinché le misure siano efficaci, spetta alle autorità pubbliche agire in tempo utile, in modo appropriato e coerente. Ha anche sostenuto che tra le misure preventive occorre porre particolare enfasi sul diritto del pubblico all’informazione.
In relazione all’articolo 8, la Corte ha affermato che esiste un obbligo positivo per gli Stati di fornire l’accesso alle informazioni essenziali che consentono agli individui di valutare i rischi per la loro salute e la loro vita.
La Corte ha accettato che tale obbligo possa, in determinate circostanze, comprendere anche il dovere di fornire tali informazioni. Ha inoltre riconosciuto che nel contesto delle attività pericolose, la portata degli obblighi positivi previsti dagli articoli 2 e 8 della Convenzione si sovrappone ampiamente.
Analizzando il caso della Terra dei Fuochi, la Corte di Strasburgo – dopo aver puntualizzato che lo stesso differisce da quei casi ambientali che hanno riguardato una singola, identificata e circoscritta fonte di inquinamento o un’attività che la causa, e un’area geografica più o meno limitata o l’esposizione a una particolare sostanza rilasciata da una fonte chiaramente identificabile – ha evidenziato come, nel caso in esame, si è trovata di fronte a una forma di inquinamento particolarmente complessa e diffusa che si verifica principalmente, ma non esclusivamente, su terreni privati. Ha ritenuto che non vi potesse essere alcun dubbio che lo scarico illegale e quindi del tutto non regolamentato, spesso accompagnato da incenerimento, e l’interramento di rifiuti pericolosi fossero attività intrinsecamente pericolose che potevano rappresentare un rischio per la vita umana.
Tuttavia, ha precisato che lo Stato italiano era venuto meno all’obbligo, imposto dall’art. 2, di adottare adeguate misure rispetto alle circostanze del caso concreto.
Secondo la giurisprudenza della Corte EDU la portata degli obblighi che incombono alle autorità statali in un dato contesto dipende dall’origine della minaccia, dal tipo di rischi in questione e dalla misura in cui l’uno o l’altro rischio è suscettibile di attenuazione).
Sotto tale profilo, la natura e la gravità della minaccia richiedevano una risposta sistematica, coordinata e completa da parte delle autorità italiane, del tutto carente tanto da un punto di vista degli strumenti normativi (soprattutto per quanto concerne le misure per contrastare lo scarico illegale, l’interramento e l’incenerimento dei rifiuti) che dal punto di vista organizzativo, sia sul piano degli interventi di bonifica che degli interventi a tutela del diritto alla salute.
Particolarmente critica è la Corte EDU, poi, con riferimento allo strumentario penale offerto per il contrasto a tale fenomeno di inquinamento, osservando come, fino al 2015 (data di entrata in vigore della normativa sugli ecodelitti, ossia la L. n. 68/2015), la risposta legislativa è apparsa non solo poco convincente in termini di efficacia, ma anche lenta e frammentaria, con singoli reati gravi creati nel tempo ma senza alcun tentativo di rivisitare, in modo olistico, le carenze del sistema penale individuate dalle stesse commissioni parlamentari d’inchiesta susseguitesi.
Una particolarmente aspra critica viene poi indirizzata dalla Corte EDU al legislatore italiano al § 461 della sentenza in cui si legge testualmente: “la Corte rileva che nel 2018 la XII Commissione del Senato italiano ha affermato che le autorità avevano “iniziato” a valutare la portata critica della situazione nell’area della Campania nota come Terra dei Fuochi, di cui erano ben informate, e ad agire, con notevole ritardo, e avevano iniziato ad adottare misure concrete per affrontare il fenomeno solo nel 2013. Data la natura del problema di inquinamento in questione e il tipo di rischi interessati, la Corte ritiene che tale ritardo nell’adottare misure sia inaccettabile. La Corte è inoltre portata a concludere, sulla base del materiale a sua disposizione, che prima del 2013 le misure per affrontare il fenomeno dell’inquinamento erano, nella migliore delle ipotesi, frammentate e che non è possibile rilevare sforzi significativi per affrontare il problema in modo sistematico, completo e coordinato”.
Conclusioni ulteriormente rafforzate nel successivo § 465 della sentenza in cui si afferma che “la Corte ritiene che il Governo non abbia dimostrato che le autorità italiane abbiano affrontato il problema della Terra dei Fuochi con la diligenza giustificata dalla gravità della situazione e ritiene che non siano riuscite a dimostrare che lo Stato italiano abbia fatto tutto quanto gli si poteva chiedere per proteggere la vita dei ricorrenti”.
9. Un commento finale
Una condanna, quella della sentenza in parola, che non è solo “sul fatto”, ma sulla condotta complessiva, prolungata e reiterata, in quasi tutti gli ambiti di competenza statale, dal dovere di informare alle iniziative legislative, dal contrasto amministrativo, civilistico e penale, a quello di inchiesta e di polizia, dalle misure di monitoraggio, coordinamento, conoscenza e qualificazione del fenomeno, sino all’azione sanitaria diretta alla tutela della vita dei cittadini ed alla tutela ambientale.
Questa condanna che deve farci riflettere su come per decenni si sia gestito in maniera approssimativa il fenomeno dell’inquinamento in quell’area del territorio nazionale, tristemente definita Terra dei Fuochi, e che ha condotto la Corte EDU, proprio per la portata “sistemica” del problema all’adozione di una sentenza “pilota”, necessaria per risolvere un problema “strutturale” facendo riferimento in particolare alle carenze sistemiche che hanno caratterizzato la risposta dello Stato al problema in questione, come esposto nella sentenza, al gran numero di persone interessate e all’urgente necessità di garantire loro un rapido e appropriato risarcimento a livello nazionale.
E data la risalenza del problema, tutte le lacune evidenziate non lasciano esente alcun governo o colore politico, nessun livello amministrativo, da quello della singola amministrazione comunale sino alla Presidenza del Consiglio, passando per tutte le autorità intermedie.
L’Italia ha due anni a disposizione per attuare quanto richiesto dalla Corte EDU: sviluppare, in opportuna consultazione con le parti interessate locali, regionali e/o nazionali (compresi i rappresentanti della società civile e le associazioni), una strategia globale che riunisca tutte le misure esistenti o previste, a ogni livello dell’apparato statale, al fine di affrontare il fenomeno dell’inquinamento in questione; decontaminazione delle aree interessate dall’inquinamento ambientale in questione, così come la messa in sicurezza delle aree contaminate; istituire un meccanismo indipendente a livello nazionale per monitorare l’attuazione e l’impatto delle misure introdotte nell’ambito di qualsiasi strategia globale sul problema della Terra dei Fuochi e per valutare il rispetto delle tempistiche ivi stabilite; istituire un’unica piattaforma di informazione pubblica che riunisca, in modo accessibile e strutturato, tutte le informazioni pertinenti relative al problema della Terra dei Fuochi e le misure adottate o previste per affrontarlo, con informazioni sul loro stato di attuazione, e che prendano disposizioni per il suo aggiornamento regolare.
Nelle more la Corte ha deciso che, in attesa dell’adozione da parte delle autorità nazionali, sotto la supervisione del Comitato dei Ministri, delle misure necessarie a livello nazionale, essa rinvierà l’esame di qualsiasi ricorso di cui il Governo non sia ancora stato informato, per un periodo di due anni a partire dalla data in cui la sentenza sarà divenuta definitiva.
In questo senso pesa ancora ulteriormente il dramma della non responsabilità individuale degli amministratori: in questi due anni ci saranno tutti i cicli elettorali: locali, regionali e nazionali, e vista la gravosità e complessità delle misure richieste dalla sentenza, appare evidente che nessuno dei “soggetti attuali” – proprio perché tra due anni on saranno al loro posto – sarà responsabile del quasi sicuro mancato adeguamento a quanto richiesto dalla sentenza, scaricando il problema della condanna “per fatti a lui non imputabili” a chi si troverà “con il cerino in mano” a quel tempo.
Ed è forse questa la vera vulnerabilità di questa – come altre – sentenza pilota: non inserire una responsabilità personale di chi oggi, alla data della sentenza, ricopre un ruolo a che si attivi senza ricorrere allo scaricabarile.
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