La Cassazione ribadisce il principio “substance over form” nel Trust estero

La Cassazione ribadisce il principio “substance over form” nel Trust estero

Sommario: – 1.  Massima – 2. Il caso concreto – 3. Sugli obblighi di controllo fiscale estero nel quadro RW – 4. Rilievi critici – 5. Conclusioni

1. Massima

Con la Sentenza del 7 aprile 2025, n. 9096, la Cassazione ha recentemente ribadito il principio per cui, nelle ipotesi di trust residenti all’estero, ai fini dell’imputabilità reddituale in capo ad un soggetto, fa fede il criterio della effettiva titolarità dei redditi e ciò anche nei casi in cui ci si trovi dinanzi ad un’interposizione reale[1]. Pertanto, si ritiene che debba qualificarsi sham ovvero simulato[2], per scopi elusivi, il trust in cui il settlor ricopra contestualmente la posizione di beneficiary.

2. Il caso concreto

In una recente Cassazione (sez. trib., n. 9096/2025)[3], il contribuente Fe.Co aveva impugnato un avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate sollevava contestazione per la omessa dichiarazione dei redditi da capitale, per la somma eccedente i 600.000 euro – derivanti da un trust estero denominato King Trust – relativamente all’anno di accertamento 2009. Va aggiunto, inoltre, che all’interno del trust in questione erano confluite partecipazioni societarie appartenenti al gruppo familiare imprenditoriale. L’Amministrazione, eccependo la fittizietà del trust e qualificando quest’ultimo come mero strumento giuridico di copertura, volto ad integrare la condotta fraudolenta di sottrazione dei redditi alla tassazione italiana, ne riconosceva appunto la finalità elusiva, nonostante l’apparente facies di liceità. E ciò chiaramente emergeva dal fatto che il contribuente avesse comunque mantenuto ampi poteri di gestione rispetto al trust – ivi  comprese le facoltà di modifica dei beneficiari e delle quote – indicando inoltre se stesso quale destinatario delle finalità dell’istituto, sino al termine di scadenza dello stesso. A conferma dell’orientamento decisorio dell’Agenzia, la Commissione Tributaria, attraverso la valutazione di prove indiziarie certe e coerenti tra loro, quali comunicazioni spedite dal luogo di residenza del contribuente, dichiarazioni rese da questi all’estero, clausole presenti nell’atto istitutivo di trust e lo svolgimento di funzioni operative poste dal contribuente nella vita del trust, ha rinvenuto piena coincidenza tra il disponente e il reale titolare dei redditi, pervenendo alla fondata conclusione che il King Trust fosse stato posto in frode alla legge, per le ben intuibili ragioni di evasione fiscale. Il contribuente, nel proporre gravame, poneva a sostegno del proprio assunto motivi che –  aldilà della inammissibilità delle argomentazioni ritenute, sul piano formale, eccessivamente generiche, indi in contrasto con l’art. 366 c.p.c. –  sottolineavano, in punto di merito,  l’assenza d’obbligatorietà di monitoraggio, sia di natura reale che effettiva del trust. La Cassazione, al contrario, ribadendo il principio d’effettiva titolarità dei redditi (anche in casi di interposizione reale), ha ritenuto doversi soffermare sulla titolarità effettiva delle attività estere intestate al trust. Da ciò deriva che il disponente fosse tenuto ad adempiere agli obblighi dichiarativi sanciti dalla consolidata giurisprudenza in materia di interposizione soggettiva, nonché dall’art. 37, comma 3, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che rappresenta uno dei principali strumenti attraverso cui l’Amministrazione finanziaria assume misure volte a contrastare il dilagante fenomeno dell’elusione fiscale, che spesso viene consumata attraverso l’intestazione formale di redditi in capo a soggetti interposti. Segnatamente a tale fenomeno, la norma stabilisce che «in caso di interposizione fittizia di persona, i redditi si considerano prodotti dal soggetto per conto del quale l’interposizione è stata attuata», fissando il focus sul titolare reale e non già su quello apparente, per la determinazione del soggetto passivo delle imposte. Orbene, la giurisprudenza di legittimità, attraverso un’interpretazione estensiva e sostanziale, ha permesso che si consolidasse il  principio per cui l’interposizione soggettiva rilevante, ai fini tributari, non si esaurisce nei casi di simulazione assoluta o di intestazione meramente formale dei beni e dei redditi, ma può comprendere anche casi di interposizione reale che, attraverso l’uso di species valide dal punto di vista giuridico, può favorire tecniche di controllo delle attività da parte del soggetto che, pur non risultando ufficialmente intestatario di quest’ultime, possiede comunque ampi poteri di gestione e di controllo. La Cassazione, infatti, con pronuce risalenti[4], ha più volte affermato che, in ambito fiscale, ad avere rilevanza è la sostanza economica del rapporto, ossia il criterio substance over form, non già la mera forma giuridica cui si fa ricorso. Analogamente, anche l’intestazione di partecipazioni societarie o di attività finanziarie a persona fisica o giuridica può costituire oggetto di contestazione, nel momento in cui è dimostrato, con indizi gravi precisi e convergenti tra loro, che la disponibilità economica effettiva dei redditi sia comunque permanente in capo all’interponente. Nel caso in esame, gli Ermellini, confermando il suddetto principio, automaticamente riconoscono la possibiltà di un fenomeno di interposizione soggettiva non solo formalmente dissimulata, ma altresì sostanzialmente elusiva. Il King Trust inglese, ancorchè valido dal punto di vista formale, era tuttavia strumentale all’espletamento di operazioni di occultamento dei redditi, poiché il controllo sostanziale dei beni segregati spettava al disponente. Da qui la corretta interpetazione e consequenziale applicazione dell’art. 37, comma 3, t.u.i.r. da parte dei giudici di merito. La Corte ha inoltre precisato che, ai fini dell’attribuzione dei redditi al disponente, non è richiesto come presupposto l’accertamento del fenomeno simulatorio in quanto tale, bensì la verifica della disponibilità sostanziale dei beni, attraverso la valutazione che il trust sia inefficace per la determinazione di una vera separzione patrimoniale. In tale ottica, è sufficiente che il trust si riveli non efficace nella sua finalità separativa, restando nella sfera di disponibilità effettiva e decisionale del contribuente, come accertato nei gradi di merito.

3. Sugli obblighi di controllo fiscale estero nel quadro RW

Il rimedio normativo esperito per far fronte a occulte modalità di evasione fiscale è indicato nell’art. 4, comma 1, del D.L. 28 giugno 1990, n. 167 (conv. con modif. in L. 227/1990) che, a scopo preventivo, impone ai soggetti che abbiano residenza fiscale in Italia l’obbligo, all’interno della dichiarazione reddituale, di indicare le attività di natura finanziaria e patrimoniale svolte in territorio estero e idonee a produrre redditi imponibili in Italia. Il contribuente, dunque, è tenuto a compilare il cd. quadro RW (Rendite e Valori) che consiste in una specifica sezione nella quale possono indicarsi gli investimenti all’estero (beni immobili, conti correnti, partecipazioni, cripto attività et alia), le attività estere come poc’anzi indicato di natura finanziaria, le attività detenute tramite trust od intestazioni fiduciarie, al fine di operare un monitoraggio costante volto a garantire la lotta alla evasione internazionale. A tal proposito, va tenuta in considerazione l’evoluzione normativa che, con la L. 6 agosto 2013, n. 97 di modifica dell’art. 4, ha compiuto una estensione dell’ambito soggettivo di applicazione, per cui l’obbligo dichiarativo ha subito un ampliamento tale da ricomprendere anche i titolari delle attività finanziarie estere, secondo la nozione dell’art. 1, comma 2, lett. u), del D.Lgs 21 novembre 2007, n. 231, a fronte della normativa sull’antiriciclaggio. Per definizione, quindi, è da considerarsi titolare effettivo la persona fisica per conto della quale è stata compiuta una determinata operazione. Nel caso di entità giuridiche è effettivo titolare, invece, chi rispetto a quest’ultime detiene il controllo e la titolarità, ovvero chi ne è beneficiario, alla luce dei parametri di trasparenza internazionalmente riconosciuti. Per quanto concerne la fattispecie concreta in esame, il contribuente aveva dedotto la inapplicabilità del proprio obbligo dichiarativo, sostendendo che non fosse personalmente il titolare delle attività estere, atteso che quest’ultime risultassero intestate a terzi, ossia alla società elvetica Tetide e al trust estero. In rigetto, la Cassazione ha affermato che l’obbligo dichiarativo, in realtà, fosse sussistente già in tempo precedente alla riforma del 2013, quando il contribuente, di fatto, risultava diretto detentore dei beni esteri, risultando l’intestazione degli stessi era meramente interposta o strumentale. In altri termini, la riforma del 2013 non apporta alcun quid novi rispetto agli obblighi fiscali preesistenti, essendosi essa limitata ad un’esplicitazione ed ampliamento di quest’ultimi, relativamente alla responsabilità dichiarativa che incombe su chi effettivamente esercita un potere di controllo su beni e sui redditi esteri. Tale orientamento agevola l’Ammistrazione a svolgere in modo più capillare le proprie funzioni di controllo rispetto alla imputazione delle attività finanziarie e dei redditi al contribuente, atraverso strutture formalmente valide, ma delle quali il beneficiario resta fiscalmente in Italia; e ciò in ragione dei ben noti principi di best governance fiscale per la lotta all’evasione transfrontaliera. Nello specifico, in continuità con il precedente orientamento, si è ritenuto che, sebbene giuridicamente valida, l’interposizione possa essere disconosciuta, seguendo il criterio del possesso del reddito, ragion per cui la responsabilità fiscale ricadrebbe in capo al contribuente che effettivamente ne abbia avuto la disponibilità, traendone peraltro benefici diretti. Alla luce di ciò, dunque, per correttamente individuare la residenza fiscale di un Trust, facendo riferimento ad un principio di territorialità, è opportuno guardare alla sede dell’Amministrazione, ossia al luogo in cui vengono assunte le decisioni fondamentali attinenti alla vita patrimoniale del trust, ancorché il trustee risieda all’estero[5]. Da ció deriva che l’efficacia fiscale dei trust esteri privi di autonomia effettiva venga disconosciuta nel caso in cui le scelte di gestione siano riconducibili ad un disponente italiano, in ossequio al principio della substance over form[6] che, agevolando la trasparenza fiscale, imputa i redditi direttamente al disponente o al beneficiario che abbia residenza in Italia. Orbene, il nucleo giuridico della questione risiede nella coesistenza dei criteri d’effettività del possesso e di fiscalità. Inoltre, pur non affrontandone il merito, la Cassazione condivide la ratio della CTR, la quale afferma che: a) la fittizietá del trust giustifica l’imputazione reddituale a Fe.Co; b) la residenza fiscale del trust va fissata su territorio italiano; c) l’art. 37, comma 3, DPR 600/1973 si applica anche in caso di interposizione reale, non solo fittizia. Nel caso di specie, si affronta l’istituzione di un trust di diritto inglese (King Trust), in cui le partecipazioni di società facenti capo al contribuente Fe.Co. sono state conferite attraverso una società elvetica, con finalità dichiarate di protezione patrimoniale e successione aziendale. Tuttavia, l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto tale struttura giuridica come meramente apparente, tanto da dissimulare una sostanziale continuità nella disponibilità e nella gestione dei beni da parte del disponente stesso, e quindi riconducibile a una interposizione.

4. Rilievi critici

Come già sopra evidenziato, la pronuncia in questione si va a collocare all’interno di un consolidato orientamento giurisprudenziale che pone in rilievo il criterio sostanzialistico delle fattispecie economico-patrimoniali, rispetto ad uno formalistico. La Corte di Cassazione, pertanto, ribadisce il principio secondo cui, per fini fiscali, la validità formale degli istituti come il trust risulta irrilevante, poiché spesso inidonei a dissimulare la reale titolarità dei redditi. È chiaro, dunque, quanto l’interesse del fisco si vada a concentrare sul titolare effettivo, piuttosto che sul trustee, interessando principalmente colui che ha pieni poteri di controllo e decisionali sulla attività di produzione del reddito stesso. Per valutare correttamente ciò, la Corte ha ritenuto di dover valorizzare elementi presuntivi, quali la coincidenza tra disponente e beneficiario; la capacità del disponente di modificare i beneficiari senza criteri specifici di valutazione, bensì discrezionalmente; il controllo di fatto esercitato sulle società coinvolte; l’invio di istruzioni al trustee. Con tale approccio, è stato reso possibile prevenire operazioni di pianificazione fiscale elusive, in contrasto con il dovere di lealtà fiscale e di capacità contributiva.

5. Conclusioni

La sentenza n. 9096 del 2025 contribuisce, senza dubbio, al rafforzamento del principio di effettività di diritto tributario, confermando quanto quest’ultimo si fondi non tanto sulle strutture giuridiche formali, quanto sull’effettivo controllo economico dei dei redditi. La pronuncia, in ultimo, contribuisce a consolidare l’approccio antielusivo, ponendo altresì l’attenzione sulle responsabilità del contribuente nella predisposizione e gestione di strumenti di pianificazione patrimoniale, affinché quest’ultimi si rivelino chiari, specifici e coerenti nei contenuti.

 

 

 

 

 

 

[1] A tal proposito, il principio cd. look-through permette un’ispezione più capillare, non basata su meri criteri formali, talvolta fuorvianti.
[2] Si v., per un approfondimento dell’istituto, Atti istitutivi di trust e contratti di affidamento fiduciario, Maurizio Lupoi (Giuffrè).
[3] Banca dati De Jure, per la consultazione del testo integrale della Sentenza.
[4] Sul punto, si v. Cass. 19 ottobre 2018, n. 26414 e Cass. 27 aprile 2021, n. 11055
[5] Sul punto, si v. Cass., Sent. 30 dicembre 2015, n. 26057
[6] Sul punto, si v. Corte Cost., Sent. n. 158/2020

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Avv. Federica Marciano di Scala (Avvocato della Rota Romana - Avvocato Civilista). Nata Napoli il 23.07.1989, si laurea in Giurisprudenza e, intrapresi gli studi presso una delle Pontificie Universitá di Roma, consegue anche la licenza e il dottorato in Diritto Canonico. Abilitata all’esercizio della professione forense, è iscritta al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli. Superato il relativo esame di abilitazione, è altresì Avvocato del Tribunale Apostolico della Rota Romana. Patrocina in foro civile ed ecclesiastico.

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