Violenza assistita e art. 572 c.p.: criticità e riforme

Violenza assistita e art. 572 c.p.: criticità e riforme

Abstract. La riflessione giuridico-criminologica sul fenomeno della c.d. “violenza assistita” permane al centro del dibattito sulla riforma della relativa previsione normativa consacrata nel secondo comma dell’art. 572 c.p.

Nel presente contributo si è inteso svolgere un’analisi approfondita della fattispecie, inquadrandola entro la cornice del reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi, alla luce dei più recenti orientamenti giurisprudenziali.

Dopo averne delineato gli aspetti di persistente problematicità, il proposito è stato quello di offrire un contributo critico mirato a suggerire spunti utili in una prospettiva di ripensamento della disposizione codicistica.

The legal and criminological discourse on the phenomenon of so-called “witnessing domestic violence” remains central to the ongoing debate concerning the reform of the relevant statutory provision enshrined in the second paragraph of Article 572 of the Italian Criminal Code.

This paper aims to conduct an in-depth analysis of the legal construct, framing it within the broader context of the offence of maltreatment against family members or cohabitants, in light of the most recent jurisprudential developments.

After outlining its persistently problematic aspects, the objective has been to offer a critical contribution intended to provide useful insights with a view to reconsidering the codified provision.

 

Sommario: 1. Analisi e sistematica del reato di maltrattamenti – 1.1. Una premessa linguistica: rilievi critici sulla locuzione “violenza assistita” – 1.2. Cenni di contesto storico-evolutivo dell’istituto della famiglia – 1.3. Analisi degli elementi costitutivi del reato di maltrattamenti in famiglia: un inquadramento normativo dell’aggravante di cui all’art. 572, comma 2, c.p. – 1.3.1. Elemento oggettivo – 1.3.2. Elemento soggettivo – 1.3.3. Fondamenti criminologici: considerazioni conclusive – 2. Prospettive de iure condendo

Gli esseri umani sono consegnati a una lingua più che a un’altra, a un argomento più che a un altro. Sono sempre, dunque, in una condizione particolare. E, tuttavia, possiamo scegliere frasi e parole che siano le più appropriate a far comprendere la maggior quantità possibile di ciò che intendiamo dire. Il mestiere di scrivere sta in questo.

De Mauro, Guida all’uso delle parole.

1. Analisi e sistematica del reato di maltrattamenti

1.1. Una premessa linguistica: rilievi critici sulla locuzione “violenza assistita”

Scolpito secondo parametri linguistici di matrice descrittiva[1], l’enunciato (rectius, enunciazione)[2] definitorio della locuzione “violenza assistita” è da rinvenirsi nel documento approntato dal Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia per rinnovare l’attenzione sul fenomeno della violenza percepita dai minori nei contesti intrafamiliari[3], attraverso la predisposizione di linee guida[4], sulla cui scorta modellare gli interventi da parte degli operatori appartenenti ai settori sanitario, sociale e giuridico[5]:

«Per violenza assistita si intende l’esperire da parte del bambino/a qualsiasi forma di maltrattamento compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative, adulte o minori. Il bambino può farne esperienza direttamente (quando essa avviene nel suo campo percettivo), indirettamente (quando il minore è a conoscenza della violenza), e/o percependone gli effetti. Si include l’assistere a violenze di minori su altri minori e/o su altri membri della famiglia e ad abbandoni e maltrattamenti ai danni di animali domestici».

Orbene, in primo riguardo è da evincersi il valore aletico dell’enunciazione, che si esprime, segnatamente, in proposizioni descrittive[6].

Dalla fonte da cui promana si desume che la definizione in esame non è di natura giuridica, in ossequio alla classica divisione modale adoperata in linguistica che oppone la logica deontica (riferibile al linguaggio normativo) a quella descrittiva[7].

E, peraltro, si constata essere, allo stato dell’arte, la sola definizione fornita al fenomeno della “violenza assistita”, non essendo possibile rinvenirne altre all’interno dell’ordinamento giuridico.

In continuità con la digressione linguistica sull’inquadramento categoriale della summenzionata definizione nell’alveo delle enunciazioni descrittive, merita, da ultimo, un accenno di contesto l’indagine delle radici della locuzione de qua: fu il contribuito della letteratura scientifica internazionale, nel riconoscimento e nella determinazione delle modalità d’espressione concreta del fenomeno della violenza cui assistono i minori in ambito domestico, a propiziare il terreno per una comprensione della sua gravità in termini di conseguenze pregiudizievoli tanto sul piano individuale quanto a livello sociale.

Denotativa di un’accentuata sensibilità a riguardo, copiosa si rivela la letteratura anglosassone degli ultimi decenni del secolo scorso sugli studi e sulle ricerche empiriche in materia di witnessing violence[8], alla crescente attenzione della quale fece seguito in Italia, a far data dai primi anni Duemila, l’acquisizione del termine, nella sua – infelice – traduzione di “violenza assistita”.

Per quanto non impiegata all’interno di fonti normative primarie, giacché il Codice penale si serve abilmente di una perifrasi per designare l’aggravio sanzionatorio «se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore»[9], l’utilizzo della locuzione di cui si discute appare invalso tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, sovente senza che la stessa sia in alcun modo marcata (ad esempio per il tramite di virgolette o precedendola con “c.d.”), di tal guisa lasciando erroneamente intendere trattarsi di un tecnicismo normale[10].

Perplessità di ordine semantico riteniamo debbano essere sollevate con riguardo alla costruzione del sintagma: trattasi, difatti, di una parola polirematica composta in maniera scorretta[11], guardando al participio passato “assistita”, usato in funzione aggettivale, del verbo intransitivo “assistere”[12].

Si osserva come “assistita”, nel significato di “assistere a qualcosa”, non definisca una proprietà della violenza: anzi, a rigor di lingua, il significato espresso dal sintagma risulta del tutto incoerente, sottendendo una violenza compiuta da qualcuno con l’assistenza di qualcun altro[13].

Volendo, dunque, compiere uno sforzo creativo utile ad arginare la contingenza di una lessicalizzazione di “violenza assistita”, ovvero di un suo tramutarsi da fenomeno occasionale a sintagma istituzionalizzato, utile sarebbe prospettare delle varianti terminologiche.

La soluzione più economica potrebbe rinvenirsi nella mera inversione dell’ordine delle parole: “assistita violenza” suggerirebbe, infatti, che il suo significato sia differente da quello delle altre polirematiche giuridiche nelle quali il participio passato segue il nome.

Invero, le potenzialità di una simile proposta si rivelano solo apparenti: in prima analisi non appare convincente sul piano del “sistema lingua”, in quanto si risolverebbe, nuovamente, in un unicum (infatti, l’aggettivo “assistito” non precederebbe così alcun nome); secondariamente, è da constatarsi l’evidente permanere di un’opacità di significato, stante la regola in base alla quale nei sintagmi nominali la testa è sempre un nome, mentre il modificatore cui è subordinata è l’aggettivo responsabile a conferire senso al sintagma, delimitando e specificando il significato della testa.

Temendo censure di lesa grammatica, si potrebbe, allora, essere tentati di rifuggire l’estro creativo, trovando conforto nelle soluzioni già adottate dalla giurisprudenza: in una sentenza della Corte di Cassazione depositata nel gennaio del 2021[14] compare la dicitura “violenza indiretta”, a sottolineare il coinvolgimento indiretto dei minori nei comportamenti vessatori che integrano la fattispecie di cui all’art. 572 c.p., in qualità di «involontari spettatori delle liti tra i genitori che si svolgono all’interno delle mura domestiche».

Nondimeno, anche una simile variante non appare avulsa da criticità: l’aggettivo è connotato da un’eccessiva genericità, tanto che lo stesso sintagma potrebbe essere utilizzato anche in altri contesti per denotare differenti fenomeni (così è il caso della “violenza psicologica” cui, sovente, si suole riferirsi come forma di “violenza indiretta”), così perdendo immediatamente lo status di tecnicismo.

Tentando d’intraprendere la cauta via di una rigorosa adesione alla lettera dell’espressione anglofona witnessing domestic violence, che esprime decisamente con maggiore univocità il genere di violenza presa in considerazione, c’è chi parla in termini di “violenza domestica testimoniata”[15].

Di nuovo, l’anzidetta ipotesi si presta a divenire destinataria di un duplice ordine di censure: primariamente, dal punto di vista semantico, il verbo “testimoniare” non ha il significato di “assistere a qualcosa”, bensì di “fare testimonianza, attestare o affermare come testimone, per propria diretta conoscenza”[16]; orbene, il participio passato “testimoniato” si riferisce a qualcosa “della cui esistenza o del cui accadere si ha testimonianza scritta o altro documento”[17], sicché è da escludersi possa essere agevolmente applicabile al caso de quo senza che s’incorra in ambiguità; inoltre, sotto il profilo sintattico, mentre in inglese la forma progressiva esprime un rapporto di contemporaneità tra l’azione e il tempo del verbo principale (in ispecie, tra il tempo in cui chi assiste alla violenza e il tempo in cui quest’ultima è perpetrata sussiste una corrispondenza), il participio passato passivo “testimoniata”, al contrario, è rappresentativo di un’azione passata, e, più precisamente, nel contesto di specie, successiva all’episodio violento.

Il pregio del ricorso a perifrasi dinnanzi a forestierismi è da ricondursi a una caratterizzazione puntuale del fenomeno che si descrive, tale da evitare d’imbattersi pericolosamente nel terreno accidentato della traduzione letterale.

Del resto, la crucialità di una terminologia chiara e univoca è rimarcata anche a livello comunitario: trasposti all’interno di una Guida dettagliata, compilata dal Parlamento, dalla Commissione e dal Consiglio europei, gli orientamenti già prospettati nell’anno 1998 con l’accordo interistituzionale concernente la qualità redazionale dei testi legislativi si sono indirizzati lungo la condivisa direttrice della coerenza semantica[18].

Per quanto nel codice e nella giurisprudenza non si ravvisi un ricorso diretto a espressioni straniere, la constatazione della permeabilità del lessico giuridico italiano all’influsso della lingua inglese deve, comunque, condurre ad assumere un atteggiamento vigile nell’introduzione, soprattutto, di calchi lessicali, sintattici o semantici[19], richiedendosi competenze linguistiche, in chi vi si adoperi, e la capacità di «cogliere, oltre al significato, la forma interna straniera del modello, e di individuare nella propria lingua un modo per riprodurla adeguatamente»[20].

Volgendo nuovamente lo sguardo alla terminologia impiegata in altri ordinamenti, interessante appare la soluzione accolta all’interno del decreto francese n. 1516 del 23 novembre 2021[21], riassunta nell’espressione violences conjugales commises en présence d’un mineur. A uno sguardo critico, si possono cogliere i vantaggi intrinseci all’utilizzo della perifrasi scelta dall’ordinamento francese per descrivere il fenomeno de quo. Da riconoscersi all’espressione “violenza coniugale commessa in presenza di minori” è, anzitutto, il pregio di chiarezza, a livello definitorio, e d’immediata intelligibilità; inoltre appare coerente dal punto di vista linguistico: un sintagma che abbia come testa il nome “violenza” rientra nel novero dei sintagmi nominali “a struttura argomentale” tali per cui il nome definisce univocamente i suoi argomenti; il termine “violenza”, in quanto transitivo, può essere declinato nella forma attiva se i suoi argomenti hanno funzione di soggetto e oggetto ovvero nella forma passiva: quest’ultimo è il caso che investe l’espressione di cui si tratta, ove l’argomento che funge da soggetto logico, cioè svolge l’azione (in ispecie, i coniugi), è complemento d’agente. Ciò premesso, tuttavia, non può prescindere da un’analisi degli aspetti di criticità che altrettanto si evincerebbero a un trapianto dell’espressione utilizzata nel decreto francese all’interno del nostro ordinamento: un’obiezione che facilmente potrebbe essere mossa, infatti, consiste nella circostanza che il riferimento al “vincolo coniugale” comporterebbe l’esclusione dalla norma, in forza del principio di stretta legalità, delle violenze commesse in presenza di minori in contesti di convivenza (ovvero perpetrate, ad esempio, all’interno di coppie di fatto o da parte non dei genitori bensì da parenti…). In questo senso l’espressione “violenza intrafamiliare” conserverebbe il vantaggio di rappresentare più esaustivamente la molteplicità e la variabilità di situazioni entro cui, in concreto, potrebbero verificarsi episodi di maltrattamenti agiti in presenza di minori idonei a integrare la fattispecie aggravata di cui al secondo comma dell’art. 572 c.p.

Ma sul concetto stesso di “famiglia” merita di indugiare più approfonditamente.

1.2. Cenni di contesto storico-evolutivo dell’istituto della famiglia

Sinora ci si è addentrati nel vaglio critico delle soluzioni terminologiche che più accuratamente si prestino a descrivere il fenomeno di cui all’art. 572, comma secondo, c.p. e si è giunti a concludere l’iter argomentativo nel senso di una propensione per l’utilizzo di espressioni che, a scapito di una pericolosa sinteticità, evochino concretamente il fenomeno per il tramite di un’impalcatura sintattica coerente con le regole della lingua italiana.

In un logico prosieguo, la discettazione avrebbe da incentrarsi sulle possibili definizioni giuridiche prospettabili per supplire alla circostanza di indeterminatezza di cui è permeata la fattispecie.

A preludio di una simile riflessione critica, risulta tuttavia indispensabile un inquadramento normativo: intelaiato entro la più ampia cornice dei maltrattamenti contro familiari o conviventi, il fenomeno della violenza domestica perpetrata in presenza di persona minore d’età irrompe sulla scena tanto fattuale, a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, quanto giuridica, sullo sfondo della L. n. 69 del 19 luglio 2019[22].

Evidentemente il lettore avrà, a ragione, da soffermarsi criticamente sulla sfasatura temporale appena accennata tra il piano del riconoscimento degli effetti nocivi del fenomeno e quello della rilevanza giuridica che a esso è stata ascritta.

Un primo rilievo riposa sulla considerazione che l’ambito della violenza endofamiliare rimane tutt’ora avvolto dalle insidie del campo oscuro[23] dal quale, com’è noto in criminologia, non può che derivare una distorsione della conoscenza e, conseguentemente, anche delle potenziali strategie di politica criminale che potrebbero impostarsi, non unicamente sulla quantità, ma anche sulla natura e sulla proporzione dei crimini[24].

È bene sin d’ora osservare come la realtà della violenza intrafamiliare, di cui i minori sono vittime – ancor prima che testimoni – invisibili, possa immaginarsi alla stregua dello scorrere torrentizio d’un rivo entro i vincoli dei suoi argini: in altri termini, l’andamento della politica criminale in materia di maltrattamenti perpetrati in presenza di persone minori d’età ha subito l’influsso della tardiva consapevolizzazione sociale della gravità del più ampio fenomeno della violenza domestica.

«Il legislatore tra le onde della vita quotidiana lascia giocare avanti ai suoi piedi le azioni, che dopo raccoglie con mano pigra, per elevarle a fattispecie delittuose a causa della loro intollerabilità. In principio egli ne percepisce soltanto le forme di manifestazione più grossolane. Ciò che è più sofisticato e raro, pur quando esiste, egli non lo percepisce o non lo sa cogliere. Questo spesso ha un contenuto illecito più grave di quanto è già stato sanzionato»[25].

Alle parole del giurista tedesco Karl Binding si può attingere per introdurre una riflessione di sistema: nei processi di criminalizzazione in astratto[26], la finalità rieducativa – che a propria volta contribuisce a realizzare gli obiettivi di prevenzione speciale e generale – può perseguirsi solo se il reato sia posto a presidio di uno specifico bene giuridico riconosciuto meritevole di tutela già su di un livello metagiuridico, in quanto rilevante primariamente sul piano dei valori sociali. Un catalogo, dunque, in costante aumento, stante l’evoluzione progressiva dei costumi e della coscienza sociale[27].

In definitiva, se la vis della legge s’impernia sulla sua capacità di determinare il consenso del pubblico cui si indirizza, questo significa che il fondamento di tale consenso si colloca su un livello metagiuridico: in tal senso si pone il pensiero di Ronald Dworkin, secondo la cui prospettiva necessario si renderebbe ricomprendere all’interno del diritto una serie di elementi extra-normativi, segnatamente morali.

Reimmergendoci nello studio della fattispecie oggetto di trattazione sotto l’angolo prospettico della sua sistematizzazione giuridica, poc’anzi si è accennato all’impalcatura normativa che la sorregge e la presidia attraverso una tutela sanzionatoria penale: i maltrattamenti contro familiari o conviventi ne rappresentano l’architrave.

In una prospettiva storico-evolutiva, può osservarsi come l’attuale rubrica dell’art. 572 c.p. costituisca il recente portato della ratifica della Convenzione di Lanzarote, con L. 1 ottobre 2012 n. 172[28],  attraverso cui si è, anzitutto, posta in atto un’estensione del novero dei soggetti passivi tutelati dalla norma incriminatrice ai “conviventi”, così modificando la pregressa dicitura «Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli». E la ragion d’essere di tale spinta riformatrice è da cogliersi nella circostanza fattuale della pluralità ed eterogeneità di modelli familiari che sono andati discostandosi dall’unitario archetipo della famiglia istituzionale[29], per assumere i tratti, costituzionalmente orientati, di una comunità familiare[30], quale veicolo privilegiato di singole identità[31].

Invero, proprio l’irrefrenabile evoluzione dei suddetti modelli richiede un costante sforzo ermeneutico delle espressioni utilizzate, non potendosi di certo confinare entro parametri rigidi il requisito della convivenza che integra la fattispecie in esame: del resto, il carattere di problematicità di cui è investita la questione può desumersi dal coesistere di antitetici orientamenti giurisprudenziali, ora imperniati su definizioni restrittive che presuppongono «una radicata e stabile relazione affettiva caratterizzata da una duratura consuetudine di vita comune nello stesso luogo»[32], ora tesi ad ampliare il perimetro della nozione di “convivenza”, annoverandovi le relazioni genericamente caratterizzate dalla sussistenza di un «progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà e assistenza»[33] o addirittura un rapporto di «convivenza di breve durata, instabile e anomalo, purché sia sorta una prospettiva di stabilità e un’attesa di reciproca solidarietà»[34].

Una conseguenza di non indifferente portata che si ricollega alla condivisione di orientamenti interpretativi eccessivamente elastici è il contrasto col principio costituzionale di legalità su cui riposa il divieto di applicazione analogica della legge penale in senso sfavorevole al reo.

Di recente, gli Ermellini hanno inteso valorizzare una concezione stringente di “convivenza”, statuendo che, ai fini dell’applicazione della disciplina di cui all’art. 572 c.p., si richiede la sussistenza di una relazione affettiva caratterizzata da continuità e connotata da parametri obiettivi di stabilità, lungi dal potersi considerare sufficiente la mera coabitazione[35]: di tal guisa, i giudici di legittimità hanno inteso allinearsi ai moniti della Corte costituzionale in tema di divieto di analogia in malam partem; la Corte, dissuadendo da un esercizio del potere giudiziario che possa determinare una violazione del principio di tassatività ex art. 25 Cost., ha riconosciuto nella “convivenza” l’espressione di una relazione interpersonale in regime di condivisione e comunanza materiale e spirituale di vita[36].

Sennonché, le considerazioni sinora svolte abbisognano di essere puntualizzate in considerazione della riforma al diritto di famiglia operata dalla così denominata Legge Cirinnà[37], recante disposizioni volte a regolamentare i profili attinenti alle unioni civili tra persone dello stesso sesso e alle convivenze di fatto: pur stagliandosi sul terreno civilistico, la presente normativa rafforza la pregnanza dell’elemento della “stabilità” dei legami affettivi e di assistenza, per il cui accertamento si richiede la prova della convivenza, rinviandosi a tal fine alla nozione di “famiglia anagrafica”[38] di cui agli artt. 4 e 13 del d.P.R. 30 maggio 1989 n. 223.

Quanto appena accennato espone, prima facie, l’interprete al rischio di perdere le briglie dei criteri normativi arduamente ricostruiti attraverso l’esegesi degli orientamenti giurisprudenziali e delle nuove disposizioni in materia di diritto di famiglia, se ci si confronta con l’asserita configurabilità del reato ex art. 572 c.p. anche a seguito della cessazione della convivenza, così come si può evincere dalle recenti statuizioni della Suprema Corte: invero, la soluzione approntata dai giudici di ultima istanza si rivela, a uno sguardo più approfondito, conforme alle già richiamate pronunce che si ancorano ai parametri di reciproca solidarietà e assistenza.

Chiamata a dirimere un contrasto giurisprudenziale, la sesta sezione della Corte di Cassazione ha enunciato il principio di diritto in virtù del quale le condotte vessatorie perpetrate in danno dell’altro coniuge non più convivente, a seguito di separazione legale o di fatto, possono dirsi riconducibili alla più grave fattispecie di maltrattamenti contro familiari o conviventi e non già sussumibili entro l’ambito di operatività dell’art. 612-ter, comma 2, c.p., in materia di atti persecutori aggravati, giacché permangono inalterati i vincoli sorti dal coniugio o dalla filiazione[39]. Di contro, non può configurarsi il reato di cui all’art. 572 c.p. a seguito di sentenza di divorzio, la quale recide il vincolo familiare pur in presenza di figli minori[40]: tale interpretazione formalistica è, tuttavia, temperata dalla necessità di operare valutazioni sostanziali in relazione alla circostanza del ripristino di una convivenza e ciò in ossequio alla ratio sottesa alla norma stessa, che muove dal presupposto di configurare una tutela rafforzata in presenza di una relazione di prossimità tra la persona offesa e l’autore del fatto criminoso.

1.3. Analisi degli elementi costitutivi del reato di maltrattamenti in famiglia: un inquadramento normativo dell’aggravante di cui all’art. 572, comma 2, c.p.

In apice a ogni considerazione sulla struttura e sugli elementi costituitivi del delitto di maltrattamenti in famiglia exart. 572 c.p. e, segnatamente, sui requisiti di configurabilità della circostanza aggravante dell’aver commesso il fatto alla presenza di minori, di cui al secondo comma del medesimo articolo, ragioni di metodo impongono una puntualizzazione critica.

Attualmente ricompresa all’interno dell’alveo dei delitti contro l’assistenza familiare, dettagliati dal Capo IV del Titolo XI, Libro II, del Codice penale, la fattispecie incriminatrice de qua, invero, non è storicamente rimasta immune dagli antagonismi di vedute in seno alla legislazione precostituzionale: una collocazione sistematica della norma entro il perimetro dei delitti contro la persona era stata preferita dal codice Zanardelli per dare riscontro alle dispute in materia sorte sotto la vigenza del codice penale sabaudo, così valorizzando l’aspetto della lesione dell’integrità individuale della vittima[41].

Sennonché, l’intento di dipingere la fattispecie nelle sue fattezze di norma a presidio dell’incolumità fisica e morale della persona andò vanificato dalla sua ricollocazione nell’ambito dei reati contro la famiglia a opera del codice Rocco[42]: una simile previsione alimentò aspre critiche nel panorama dottrinale, peraltro non degradabili a mere discettazioni accademiche, posto che dall’ubicazione della norma discendono i profili attinenti all’individuazione dell’oggetto del reato e del bene giuridico tutelato.

Proprio lungo tale direttrice si colloca il primo rilievo critico: ovvero la dissonanza del locus codicistico rispetto all’interesse presidiato.

Sul sostrato costituzionale[43], l’asse della tutela è andato, infatti, assestandosi lungo il versante dell’integrità, fisica e psichica, dei singoli appartenenti alla comunità familiare, anche in considerazione dell’evoluzione semantica e fattuale del concetto di “famiglia”, e non già rimanendo unicamente sbilanciato sul piano della difesa dell’interesse superindividuale dello Stato alla salvaguardia dell’istituzione familiare[44]. E una conferma ulteriore può evincersi dalla stessa lettera della norma là dove annovera tra i destinatari della tutela, accanto alle persone della famiglia, altresì i soggetti comunque conviventi, così destituendo dalla sua posizione di prevalenza il vincolo di coniugio.

In definitiva, deve quindi ritenersi anacronistica una ricostruzione della fattispecie incriminatrice in termini di plurioffensività[45], non parendo più compatibile con una concezione de-formalizzata dell’istituto della famiglia anche solo affiancare il bene giuridico del rapporto familiare, pur se non preminente, a quello della personalità individuale della vittima.

Del resto, la circostanza che l’idoneità offensiva dell’agire criminoso sia da parametrarsi rispetto a un bene giuridico specifico e circoscritto consente di stabilire il limen della materialità del reato, la cui ampiezza viene ulteriormente contenuta dalla prescrizione che le condotte vessatorie siano state reiterate nel tempo.

Ma si proceda con ordine.

1.3.1. Elemento oggettivo

L’inquadramento a livello giuridico della circostanza aggravante cosiddetta di “violenza assistita” non può prescindere da un’analisi della fattispecie base di “maltrattamenti contro familiari e conviventi”:

«Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.

La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi.

Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.

Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato».

Sussumibile entro la categoria dei reati di durata, la norma di cui all’art. 572 c.p. contempla una figura di delitto abituale che punisce chi «maltratta», con ciò dovendosi intendere, alla luce dell’interpretazione costante della giurisprudenza, tanto le condotte che già di per sé costituiscono reato (come percosse, lesioni, ingiurie, minacce, etc.) quanto comportamenti anche penalmente irrilevanti uti singuli considerati (ad esempio atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.) la cui reiterazione è, invece, idonea a connotare il loro disvalore in termini di offensività penale[46]. È quest’ultima puntualizzazione che, in dottrina, ha permesso di qualificare la fattispecie di maltrattamenti contro familiari e conviventi come reato abituale “proprio”[47], ovvero nel senso poco sopra richiamato circa la non indispensabilità che i singoli atti posti in essere assumano un’autonoma rilevanza penale. Si spiega, dunque, l’indissolubile correlazione tra il requisito dell’abitualità e il bene giuridico presidiato, dovendosi muovere da una considerazione necessariamente unitaria delle condotte reiterate a nocumento della personalità della vittima ai fini della consumazione del reato.

Ma in ordine a tal ultimo profilo, l’impressione è d’imbattersi in una sottigliezza empirica[48] della normativa penale, giacché non pare difficile constatare l’insufficienza delle scienze giuridiche a individuare, solipsisticamente, il sostrato empirico sulla base del quale giustificare la scelta del minimum essenziale di condotte seriali idoneo a integrare la fattispecie incriminatrice.

Dinnanzi al silenzio serbato dal codice, si finisce per consegnare al vaglio discrezionale dell’organo giudicante la valutazione della rilevanza quantitativa degli atti vessatori: prevedibilmente, l’esito di un apprezzamento soggettivo rispetto alla consistenza del male patito non solo sfugge al parametro di legalità, ma si presta, altresì, a innescare processi di vittimizzazione secondaria, nella misura in cui la vittima possa vedersi negato il riconoscimento del pregiudizio subito – già si richiamava infatti, nell’approfondire la categoria del reato abituale, la circostanza per cui potrebbero profilarsi situazioni in cui anche due sole condotte, magari tra loro distanti nel tempo, ben potrebbero essere dotate di una tale carica offensiva idonea a ledere significativamente il bene giuridico tutelato[49].

Evidentemente la crosta normativa è destinata a irrobustirsi in corrispondenza dei suoi tratti di fragilità solo attraverso il contributo delle discipline sociali che, assistendo il giurista nel compito di pervenire a un’adeguata giustificazione empirica delle costruzioni concettuali astrattamente edificate (come il concetto stesso di “abitualità”), permettono di consolidare l’obiettivo di una politica criminale razionale e legittima.

Molto s’è disputato sull’opportunità di un modello attuale di scienza penale integrata, ma non pare disutile che vi si torni brevemente sopra: si è già osservato come da intendersi auspicabile sia un’univoca propensione alla coordinazione dialettica fra diritto e realtà sociali, in una prospettiva scevra di ogni concezione di ancillarità d’una scienza rispetto a un’altra. L’eco della prolusione di Marburgo stenta, ciò malgrado, a essere recepita, sebbene gli sforzi verso l’integrazione siano andati intensificandosi. E forse, a ragione, la radice di una simile diffidenza è da ricercarsi nell’immobilismo di una scienza giuridica che non si pone domande, «sia perché è convinta di non poter avere risposta, sia perché ritiene di poter rispondere da sola, sia perché non vede neppure le domande che dovrebbero essere poste»[50]. Ma la previsione di fattispecie astratte, infarcite di categorie dommatiche, di per sé non può prescindere dall’indagine eziologica, quale strumento atto a inquadrare le spinte endogene ed esogene che sottendono il passaggio dal pensiero all’atto, affinché possa ritenersi rispettato il formale principio di legalità implicante «un vincolo di realtà, a tutto campo, nella individuazione della materia da regolare»[51].

Si rifletteva, poc’anzi, sulla problematicità concettuale della nozione di “abitualità”. Non meno dibattuto è il tema, strettamente connesso, inerente al momento consumativo del reato, le cui difficoltà interpretative sono destinate a riverberare, a cascata, i propri effetti sull’individuazione del tempus commissi delicti e sui termini prescrittivi.

A schiudere un varco tra le ombrosità interpretative furono le parole del Supremo consesso, nella misura in cui descrivono concretizzata la consumazione «nel momento e nel luogo in cui la condotta posta in essere diventa riconoscibile come maltrattamento»[52]: un varco che, invero, si delinea angusto e scosceso se ci si confronta con la tutt’altro che eccezionale disomogeneità dello schema delittuoso, non risultando infrequente il frapporsi di uno iato temporale, anche considerevole, tra le singole condotte vessatorie.

Di nuovo non resta che affidarsi alla salvifica attività ermeneutica dei giudici di legittimità, i quali ritengono, di regola, irrilevante a escludere l’abitualità l’intercorrere di periodi non segnati da episodi di maltrattamenti[53]; al più «l’interruzione temporale può valere a qualificare le distinte serie di condotte illecite quali reati autonomi, uniti dal vincolo della continuazione, in presenza di un medesimo disegno criminoso»[54].

L’orientamento nomofilattico intorno alla valenza da attribuire al requisito dell’abitualità postula l’esigenza che venga reiterato nel tempo «un numero minimo di condotte, collegate tra di loro per mezzo di un nesso di abitualità. È necessario, dunque, che le condotte non siano meramente sporadiche, piuttosto che siano la manifestazione di una persistente attività vessatoria, tale da generare un regime di vita persecutorio ed umiliante»[55].

Ma si compia un passo ulteriore.

L’accenno alle “condotte maltrattanti”, richieste ai fini dell’integrazione del fatto tipico, abbisogna di essere meglio specificato attesa peraltro la stessa natura di reato di condotta, e non già di evento, del delitto in esame[56]: anzitutto, la fattispecie limita il proprio riferimento al verbo “maltrattare”, indicativo di una condotta, non menzionando conseguenze ulteriori (ovvero effetti della condotta o modificazioni della realtà naturalistica); ne discende che «la sofferenza del soggetto passivo, come risultato tipico del comportamento criminoso, appare un quid trascendente, sì, le singole azioni illecite, ma non integrante al tempo stesso un evento naturalistico autonomo accertabile sul piano empirico»[57]. In seconda analisi, si potrebbe addurre a sostegno della configurazione del delitto de quo come reato di condotta la tendenziale incompatibilità tra i reati abituali e i reati di evento: in sintesi, allorché si richieda la produzione di un evento, viene a mancare il concetto stesso di abitualità.

Adagiandosi sulla mera etimologia del verbo “maltrattare”, sembrerebbe doversi riconoscere alla fattispecie un contenuto in termini strettamente commissivi, posto che la sua derivazione latina da trahĕre induce a concepire il predicato come implicante un’azione, una condotta positiva. Condotta che «si può realizzare attraverso comportamenti diversi»[58], a fronte della cui eterogeneità una più puntuale individuazione viene operata dalla giurisprudenza. Così, ad esempio, «integra gli estremi del reato la condotta di chi infligge abitualmente vessazioni e sofferenze, fisiche o morali, a un’altra persona, che ne rimane succube, imponendole un regime di vita persecutorio e umiliante»[59]; «tra le varie: percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità»[60]; «la condotta di maltrattamenti contro familiari o conviventi» può essere configurata dalla «privazione pressoché totale del sostegno economico ai danni della persona offesa, a maggior ragione se unita ad ulteriori condotte vessatorie di altro genere»; per contro, «non può invece rientrare nella fattispecie di cui all’art. 572 c.p. la costrizione del coniuge al rapporto sessuale: il rapporto di coniugio non comporta alcun diritto a pretenderne la consumazione contro la volontà del consorte, ragion per cui il predetto comportamento integra pienamente il delitto di violenza sessuale ex art. 609-bis c.p.»[61]; sono state ritenute, altresì, integranti la fattispecie di cui all’art. 572 c.p. le aggressioni fisiche inflitte dal marito in danno della moglie nel contesto di una «situazione familiare contrassegnata dallo stato di frequente ubriachezza dello stesso, durante il quale egli sottopone la donna a insulti e vessazioni morali»[62]; così come il «continuo ed invasivo controllo da parte del marito, divorato da una patologica ed incontenibile gelosia nei confronti della moglie» è suscettibile di annoverarsi tra le condotte maltrattanti, per quanto il giudice debba comunque «vagliare con particolare attenzione la credibilità della vittima e dei testimoni, suoi prossimi congiunti, anche alla luce di eventuali motivi di astio di questi ultimi»[63]; il delitto in esame «è integrato anche quando le sistematiche condotte violente e sopraffattrici non realizzano l’unico registro comunicativo con il familiare, ma sono intervallate da condotte prive di tali connotazioni o dallo svolgimento di attività familiari, anche gratificanti per la parte lesa, poiché le ripetute manifestazioni di mancanza di rispetto e di aggressività conservano il loro connotato di disvalore in ragione del loro stabile prolungarsi nel tempo. Lo stato di nervosismo e di risentimento non esclude l’elemento psicologico del reato di maltrattamenti in famiglia, costituendo, al contrario, uno dei possibili moventi dell’ipotesi delittuosa»[64]. Non si trascuri, peraltro, di considerare che anche «l’uso sistematico della violenza sui minori, anche nel caso in cui sia sostenuto dal c.d. animus corrigendi, integra gli estremi del delitto di cui all’art. 572 c.p.»[65].

Ma non solo.

Disancorandosi – qui, legittimamente – da ogni fondamento etimologico, dottrina e giurisprudenza maggioritarie paiono unanimi nel ritenere integrata la fattispecie criminosa anche a seguito di condotte prettamente omissive[66]. La rilevanza penale dell’omissione ha trovato riconoscimento nell’ambito dei maltrattamenti verso minori: «se, da un parte, “trattare” un figlio implica il rispetto della norma di cui all’art. 147 c.c., che impone l’obbligo di “mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto della capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli”, dall’altra parte, “maltrattare” vuol dire, mediante costante disinteresse e rifiuto, a fronte di un evidente stato di disagio psicologico e morale del minore, generare o aggravare una condizione abituale e persistente di sofferenza, che il minore non ha alcuna possibilità, né materiale, né morale, di risolvere da solo»[67]. L’ipotesi della configurabilità dei maltrattamenti mediante condotte omissive necessita, tuttavia, di essere trattata con sufficiente cautela in guisa da guardarsi dal rischio di punire fatti che, di per sé, non esprimono disvalore offensivo. E per apprezzare appieno il significato di quanto asserito, torna utile uno sguardo a una serie di casi nei quali è stata ritenuta integrata la fattispecie di cui all’art. 572 c.p.: la Suprema Corte ha, ad esempio, considerato espressione di maltrattamento l’aver costretto la propria moglie a tollerare la presenza di una concubina in casa ovvero l’aver ostentato la propria infedeltà, quali aspetti di una condotta «reiteratamente e abitualmente prevaricatrice, tendente a umiliare e sottoporre la congiunta a sofferenze fisiche e morali, così da renderle penosa l’esistenza»[68]; del pari, sono stati qualificati come maltrattamenti «l’umiliante ed ingiustificata vessazione di esasperata avarizia»[69], così come «la richiesta abituale di atti sessuali contro natura alla propria convivente, non esplicitamente rifiutati dalla stessa, allorché si conosca il disvalore che la donna comunque attribuisce all’atto, in quanto tale condotta è idonea a cagionare» alla donna «sofferenze psichiche per il disprezzo che l’uomo mostra verso le sue convinzioni»[70]. Altra questione, restando in argomento, concerne l’omesso impedimento del delitto nei confronti di un soggetto verso il quale si ricopre una posizione di protezione. Per quanto qui interessa, si rammenti che, nell’ambito della “violenza assistita”, è da escludersi il concorso per omesso impedimento, non potendosi prevedibilmente accettare di trasformare una vittima in autore[71].

 Residuano, tuttavia, rilievi critici da parte dei fautori della tesi secondo cui i reati abituali si sottrarrebbero alla clausola di equivalenza prevista dall’art. 40 c.p., giacché richiedono la reiterazione di una serie di comportamenti positivi.

Alla luce delle considerazioni appena svolte in relazione all’elemento oggettivo della fattispecie incriminatrice considerata e alla sua natura di reato abituale, può quindi provarsi a trarre qualche conclusione sul tema della legge applicabile, poco prima anticipato: tema che acquista, agli occhi dell’interprete, una rilevanza vieppiù concreta in ragione del repentino susseguirsi di interventi legislativi in materia di violenza domestica.

A fronte degli indirizzi giurisprudenziali più restrittivi che incardinano le fattispecie di durata entro i perimetri sanzionatori della legge modificativa[72], pur più severa, da ultimo intervenuta, sotto la vigenza della quale si sia protratta la condotta criminosa, la Suprema Corte ha inteso precisare come necessario sia identificare la frazione di condotta rilevante, di per sé idonea a integrare l’abitualità del reato, ai fini del tempus commissi delicti[73].

La questione si delinea particolarmente spinosa in termini di aderenza al dettato costituzionale, profilandosi il rischio di realizzare una retroattività occulta della norma in peius sopravvenuta in quanto disancorata dal criterio in base al quale il tempo del commesso reato è da individuarsi al momento della condotta, e non già dell’evento, così come ampiamente argomentato dalle Sezioni Unite[74]. Ma non solo: unitamente a una violazione del disposto di cui all’art. 2 c.p. ci si esporrebbe al pericolo di un contrasto con le funzioni della pena general-preventiva – potendo quest’ultima dispiegarsi solo nel momento in cui il soggetto compie ovvero omette l’azione doverosa – e rieducativa.

Muovendo da tali necessarie premesse, può quindi introdursi un primo confronto con la circostanza aggravante di cui al secondo comma dell’art. 572 c.p., integrata quando il «fatto» – sinora descritto – «è commesso in presenza o in danno di persona minore». Se, infatti, si è posta in rilievo la struttura di reato necessariamente abituale dei maltrattamenti contro familiari o conviventi, a contrario deve ritenersi sufficiente che il minore percepisca anche solo una delle condotte vessatorie rilevanti[75], ai fini della configurabilità della c.d. “violenza assistita”[76]. Nell’enunciare detto principio di diritto, la Suprema Corte ha proseguito aggiungendo che la circostanza risulta integrata anche qualora la presenza del minore non sia visibile all’autore del reato, purché quest’ultimo ne abbia consapevolezza o avrebbe dovuto averla secondo l’ordinaria diligenza[77].

Il portato di una simile conclusione non pare affatto trascurabile: la ratio sottesa alla previsione normativa in esame è evidentemente improntata al riconoscimento della gravità delle conseguenze fisiche, cognitive e comportamentali che possono riverberarsi sulla persona del minore che assiste alla perpetrazione di condotte maltrattanti, sicché ogni lettura restrittiva che dovesse darsi della circostanza aggravante de qua in termini di indispensabilità della fisica presenza del minore nel luogo di consumazione del reato non farebbe altro che svuotare di contenuto la disposizione introdotta.

Non da ultimo, emergono in dottrina interessanti riflessioni critiche in ordine alla natura da riconoscersi alla fattispecie della “violenza assistita”, quale ipotesi peculiare dei maltrattamenti contro familiari o conviventi. Sul piano ermeneutico, si osserva come la giurisprudenza attribuisca rilevanza al fenomeno in esame servendosi di due strumenti[78]: da un lato, si assiste a una tendenziale ricostruzione della fattispecie in termini di evento da parte della giurisprudenza, ritenendosi, cioè, che attraverso le condotte maltrattanti si verrebbe a configurare un “clima” da cui scaturirebbe, poi, l’offesa al minore[79]. Stando a una simile prospettiva, si richiederebbe, quindi, che la condotta tipica fosse idonea a determinare un clima di intimidazione e di soggezione, in ragion del quale il minore soffrirebbe, nella sostanza, per se stesso e non già per quanto un altro soggetto compirebbe nei confronti di un altro[80]. Simili riflessioni trovano, peraltro, l’avallo di quella parte della dottrina che si sofferma sull’inevitabilità di un’offesa alla personalità e allo sviluppo del minore che si trovi inserito in un conteso di violenza che abbia come vittima diretta un altro familiare. Un tema che merita d’essere, comunque, affrontato con la dovuta delicatezza sul fronte della tipicità della fattispecie, se non altro in ragione della complessità che contraddistingue la struttura dell’offesa verso il minore che, concretamente, finisce per passare attraverso un duplice evento: uno direttamente conseguente alla condotta violenza (il “clima”) e un altro prodotto in via indiretta (la “sofferenza” del minore)[81]. Sotto un ulteriore versante, la giurisprudenza scinde la fattispecie facendo leva su una sorta di condotta omissiva che trova il minore come proprio destinatario, cui si affianca la condotta commissiva indirizzata nei confronti del familiare direttamente maltrattato[82]. Quest’ultimo passaggio non sembra, tuttavia, persuadere la dottrina più accorta, restia ad accogliere l’idea che su di un comportamento commissivo possa instaurarsi una condotta omissiva, posto che andrebbe così a violarsi «un principio cardine della nostra razionalità penalistica che fa dell’omissione un aliud rispetto alla commissione»[83].

1.3.2. Elemento soggettivo

In relazione all’elemento soggettivo richiesto dal delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi, la Suprema Corte si è espressa chiaramente: «non si richiede che il soggetto attivo sia animato da alcun fine di maltrattare la vittima, bastando la coscienza e la volontà di sottoporre la stessa alla propria condotta abitualmente offensiva»[84], ovvero essendo «sufficiente il dolo generico»[85].

Alcune precisazioni ulteriori sono però necessarie.

S’è disquisito, poc’anzi, sulla configurabilità del delitto in esame anche a seguito di condotte prettamente omissive, non mancando di puntualizzarsi la sussistenza di rilievi critici a riguardo. A ben vedere, difficoltà nel configurare il delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi anche sul presupposto di un non facere sorgono, piuttosto, in ragione della peculiarità dei singoli casi di specie: in altri termini, se risulta agevole immaginare integrata la lesione della personalità individuale di una vittima che, necessitando di particolare cura, assistenza e vigilanza a motivo della sua posizione di vulnerabilità, patisce comportamenti omissivi di deliberata indifferenza, più complesso è concepire una vessazione mediante omissione. In quest’ultimo caso, infatti, sarebbe oltremodo problematico constatare la sussistenza dell’elemento soggettivo richiesto dalla norma di cui all’art. 572 c.p., – il dolo generico –, consistente «nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima a una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che avviliscono la sua personalità»[86]. A raccordo dei singoli episodi oppressivi e prevaricatori, il cosiddetto dolo unitario di carattere programmatico sarebbe da intendersi quale elemento unificatore delle diverse condotte realizzate in momenti successivi, ma avvinte da un nesso di abitualità[87].

Proprio a cagione della natura di reato abituale, interrogativi sono stati sollevati circa la necessità di presupporre la rappresentazione e la volizione di un unitario disegno criminoso in capo all’agente ai sensi dell’art. 81 c.p.: invero la giurisprudenza è agilmente giunta a una conclusione negativa, non richiedendosi la programmazione specifica di un progetto delittuoso anticipatamente delineato, come invece esige la figura del reato continuato.

Non meno problematico risulta, altresì, il tema del dolo nel contesto della perpetrazione di condotte penalmente irrilevanti di per sé considerate, la cui reiterazione, come s’è visto, è comunque idonea a connotare il loro disvalore. Nuovamente, si coglie nella dottrina più avveduta il monito a trattare con prudenza siffatte ipotesi[88].

Una considerazione conclusiva sulla più specifica ipotesi di “violenza assistita” merita d’essere affrontata, ma non prima d’aver offerto una premessa esplicativa. Si osservi come dalla “violenza assistita” integrata qualora i maltrattamenti siano commessi “in danno” del minore debba discernersi quella configurabile nel caso in cui il fatto sia, invece, posto in essere “in (sua) presenza”. A una siffatta distinzione è da riconoscersi un carattere essenziale per diverse ragioni: anzitutto, dalla prima ipotesi potrebbe legittimamente discendere la sospensione della responsabilità genitoriale, contrariamente alla seconda; inoltre – ed è il tema che qui interessa –, diverse sono le considerazioni in termini di imputazione soggettiva: se, infatti, nel caso di maltrattamenti commessi “in danno” di persona minore si richiede che l’autore percepisca l’assistere del minore alla condotta violenta, nell’ipotesi dei maltrattamenti perpetrati “in presenza” del minore non si ritiene necessaria l’effettiva percezione, valutandosi sufficiente la mera conoscibilità[89].

1.3.3. Fondamenti criminologici: considerazioni conclusive

Volendo discostare lo sguardo dall’angolo visuale del giurista, attraverso le lenti della psicologia sociale può cogliersi sotto un aspetto diverso, ma speculare, il carattere dell’abitualità di cui s’è detto essere ontologicamente connotato il reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi: la reiterazione e la sistematicità delle condotte vessatorie possono spiegarsi alla luce del costrutto teorico elaborato dalla criminologa Lenore Walker, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, noto come The cycle of violence[90]. Seguendo l’impostazione descritta nelle pagine della sua opera The battered woman, già ampiamente invocata in sede processuale nell’ordinamento statunitense[91] e, altresì, oggetto di studio da parte della dottrina italiana[92], tratto caratterizzante dei maltrattamenti si evince essere la ciclicità.

Sovviene qui rammentare l’indissolubile legame che stringe il fenomeno del maltrattamento intrafamiliare al campo oscuro: il riferimento assume rilievo nella misura in cui abbraccia aspetti non solo squisitamente criminologici ma, altresì, di politica criminale e di scienza del diritto penale.

A questo proposito non pare, pertanto, superfluo richiamare la scansione logico-temporale che presiede alla procedura di selezione nell’ambito della repressione penale, posto che le elaborazioni della teoria del Labelling Approach[93] hanno destato un’eco crescente anche nella coscienza collettiva.

Viene così in considerazione, anzitutto, il ruolo della denunzia a opera della vittima[94], quale «agente del controllo sociale informale»[95], rappresentando l’atto di segnalazione dell’illecito subìto all’autorità giudiziaria il primo momento del processo di criminalizzazione in concreto, corroborato dall’intervento del corpo sociale nel suo complesso[96].

In funzione di filtro rispetto ai fatti attenzionati, le “istanze di controllo”[97] dispongono poi di ampi margini di discrezionalità “in senso sociologico”[98] – consistente nella libera scelta degli atteggiamenti persecutori[99], entro i limiti costituzionali del principio di legalità –, così contraendo vieppiù il canale delle strettoie che delimitano il passaggio dalla previsione astratta di una certa norma di diritto positivo alla sua concreta applicazione.

Attesa la consistenza, dunque, della cifra nera, quale esito dei summenzionati meccanismi di selezione, l’esigenza di una politica criminale orientata all’obiettivo di una contrazione del campo oscuro è stata rafforzata dall’adesione del nostro Paese alla Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011, cui si è ispirato il legislatore nazionale attraverso l’introduzione di svariate novità in ambito sostanziale e processuale a tutela della vittima di violenza: Convenzione dalla quale emerge la raccomandazione che le misure adottate «siano basate su un approccio integrato che prenda in considerazione il rapporto tra vittime, autori, bambini e il loro più ampio contesto sociale»[100].

Non si trascurino, ad esempio, gli interventi della legislazione italiana concretatisi nel d.l. 14 agosto 2013, n. 93, convertito nella L. 15 ottobre 2013, n. 119[101], la cui principale ambizione era, tra l’altro, quella di arginare il crescente fenomeno della violenza di genere[102]: un’ambizione, forse, troppo elevata e destinata a realizzare misure efficaci solo nel breve periodo, visto che «le norme introdotte si mostrano per lo più indirizzate a “separare” i soggetti legati dalla cosiddetta “relazione affettiva” nell’ambito della quale si generano gli atti persecutori o violenti»[103].

Obiettivo che, in ispecie, andò perseguendosi attraverso misure penali o parapenali la cui idoneità a proteggere le vittime, attuali o potenziali, si mostra nondimeno dubbia: misure fondate sulla deterrenza, che intervengano a danno già avvenuto, non solo non si dimostrano idonee a rompere i legami intercorrenti tra la vittima e il suo carnefice, ancorché profondamente “feriti”, ma rischiano addirittura di esasperare gli elementi di tensione al punto che dal ciclo della violenza difficile sarebbe trovare una via d’uscita[104]. In quest’ottica, muovere da un approccio “integrato”, dunque in una prospettiva “umana”[105], consentirebbe di concepire, prima ancora di concretizzare, un programma di tutela idoneo a interessare contestualmente sia la (potenziale o attuale) vittima attraverso l’intervento di agenzie di controllo che traccino un quadro oggettivo della situazione e prospettino pratiche soluzioni alternative secondo la gravità del problema[106], sia il colpevole attraverso un percorso di valutazione psicologica e l’attuazione di concrete misure di sostegno e prevenzione[107].

«Il mondo non è degli uomini solo perché è popolato da esseri umani, e non diventa più umano solo perché vi risuonano echi di voci umane, ma solo quando diviene oggetto di discussione. Rendiamo più umano il mondo solo quando lo rendiamo discorso e solo parlando di noi diventiamo ogni volta un po’ più umani»[108].

A contrario, l’impressione maturata da autorevole dottrina[109] in sede di analisi critica degli interventi di riforma di cui al d.l. n. 93, pare quella di un intervento espressivo di un populismo penale di matrice strettamente sanzionatoria. Questione probabilmente inevitabile, ma contenibile: per i fautori della visione di un diritto come “minimo etico” di ogni popolo, il carattere comunitario, dunque, lato sensu, populistico, costituirebbe un elemento intrinseco del diritto penale, quale espressione di un’appartenenza identitaria[110]; ciò malgrado, comunque arginabile per il tramite di un processo costante di informazione e trasmissione di conoscenze che prenda le distanze da una cultura non garantista del processo e della pena.

Una prospettiva, del resto, ben resa dalla visione di fondo di Nicolao Merker: una massa salvifica, ma incolta[111].

In altri termini, si discute, qui, dell’invalsa tendenza delle linee di politica criminale ad assecondare quella communis opinio che vede riposta la propria speranza di addivenire a giustizia nel sistema penale, rectius, nello strumento sanzionatorio[112].

Ancor più del decreto di cui s’è detto, macroscopica manifestazione di un atteggiamento repressivo “populisticamente orientato” è la L. 19 luglio 2019, n. 69 (Codice Rosso), approdata sulle rive rarefatte e cedevoli della XVIII legislatura con intenzioni marcatamente deterrenti, estrinsecatesi in inasprimenti sanzionatori e moltiplicazioni delle fattispecie criminose.

Così intesa, sembra rappresentare, per il contrasto alla violenza domestica e di genere, una terapia palliativa[113] – o, forse più ottimisticamente, una cura compassionevole –, da intendersi nell’accezione di intervento finalizzato ad alleviare “sintomi refrattari”, dunque non incentrato sulla causa della “malattia”.

Se, tuttavia, il palliativo mira ad attenuare un sintomo non altrimenti controllabile attraverso specifici trattamenti clinici, il fenomeno disciplinato dal Codice Rosso ben potrebbe trovare cura ricorrendo ad altre tipologie trattamentali: la diagnostica criminologica si prospetta quale strumento imprescindibile ai fini di un’adeguata scelta del più idoneo percorso trattamentale e di una cauta valutazione di ipotesi di extrema ratio.

Sennonché, riducendo il diritto penale talora a palliativo, talaltra a rimedio estremo e la criminologia a primaria terapia farmacologica, si rischierebbe di concepire la soluzione alla problematica de qua in termini essenzialmente di “cura”, sì allontanandosi dall’angolo prospettico della prevenzione che imporrebbe, piuttosto, d’implementare un sostrato di “salute” garantito da corrette abitudini, supportate da valide conoscenze, pur permeato dalla consapevolezza dei potenziali nuovi imprevisti sottratti al controllo personale e sociale.

Giova, di nuovo, rammentare che la comprensione della genesi criminale rappresenta, incontrovertibilmente, la conditio sine qua non affinché la prospettazione di un programma d’intervento non sia vanificata nella sua funzione preventiva: pur senza disconoscere del Codice Rosso l’efficacia di tutela immediata, nonché gli sforzi di difesa preventiva rinvenibili specialmente a livello procedurale e, in generale, di innegabile lotta all’indifferenza, un programma realmente utile dovrebbe, piuttosto, porsi a oggetto la pianificazione di strategie intervenienti sul contesto socio-culturale e, precipuamente, agli albori di una vita umana.

Ed è proprio lungo la direttrice dell’inasprimento sanzionatorio che si è mobilitato l’intervento di riforma nello specifico ambito della violenza intrafamiliare commessa in presenza o in danno di minori: venuto meno nella formulazione dell’aggravante comune ex art. 61, n. 11-quinquies c.p. il riferimento al delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi, la circostanza dell’aver commesso il fatto di reato in presenza di un minore, ora a effetto speciale, fu immessa nel secondo comma dell’art. 572 c.p. che prescrive un aumento di pena fino alla metà, rispetto alla cornice edittale che sanziona con un minimo di tre e un massimo di sette anni di reclusione l’autore della fattispecie base[114]; tutela ulteriormente rafforzata dall’introduzione di un quinto comma a definizione della qualifica del minore quale persona offesa dal reato, con le relative conseguenze in termini di legittimazione a costituirsi parte civile, a mezzo del tutore, all’interno di un procedimento che sia stato instaurato.

2. Prospettive de iure condendo

Se vi era uno spirito riformatore, come poc’anzi rilevato, animato da intenti repressivi orientati a inasprire l’apparato sanzionatorio, allora si sarebbe mostrata d’efficacia maggiormente pregnante la scelta di elevare ad autonoma fattispecie incriminatrice la c.d. “violenza assistita”, sì da sottrarla al giudizio di bilanciamento di cui all’art. 69 c.p.

Di tal guisa, peraltro, il fatto potrebbe ascriversi all’autore a titolo di dolo secondo i criteri d’imputazione della responsabilità previsti dal comma 2 dell’art. 42 c.p., anziché doversi misurare col principio sancito per le circostanze aggravanti di cui all’art. 59, c. 2, c.p., poste a carico dell’agente solo se da lui conosciute, ignorate per colpa ovvero ritenute insussistenti per errore determinato da colpa.

Sennonché, volendo serbare fedeltà all’approccio criminologico, considerazioni de iure condendo sull’opportunità di una trasmutazione della circostanza in esame in reato autonomo (per quanto così dovrebbe considerarsi come maggiormente garantista sotto il profilo sanzionatorio) inclinerebbero l’angolo prospettico in una direzione strettamente penalistica che, in un’ermetica chiusura rispetto al dato empirico, rischierebbe di deviare l’attenzione da piani d’intervento organici che la integrino e la precedano, capaci di incidere sul contesto socio-culturale[115].

Al più, il profilo che merita d’essere indagato in ottica riformatrice concerne la generale formulazione dell’art. 572 c.p., sovente tacciata di indeterminatezza e, dunque, inevitabilmente apparsa nel mirino della giurisprudenza sotto l’aspetto dell’esegesi interpretativa: intento, per quanto encomiabile, che finisce per minare il principio di legalità.

Ma non solo. Se ne contesta, altresì, come già accennato in apice al paragrafo 1.3., la stessa collocazione entro l’alveo dei delitti contro l’assistenza familiare (ricompresi nel Capo IV del Titolo XI, Libro II, del Codice penale).

Si tratta di due nodi gordiani sopra i quali merita di indugiare analiticamente.

Rispetto alla seconda delle criticità denunciate, si è già avuto modo di soffermarsi, sicché riteniamo sufficiente limitarci a qualche ulteriore breve puntualizzazione. Nel Progetto di riforma del Codice penale in materia di famiglia e formazioni sociali esistenziali, approntato dall’Associazione Italiana Professori di Diritto Penale[116], si coglie il rilievo critico rispetto alla collocazione sistematica del delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi secondo l’impostazione accolta dal Codice Rocco: come previamente osservato, preferibile sarebbe una trasposizione della fattispecie nel Titolo XII, ovvero nei delitti contro la persona, così riecheggiando l’art. 2 Cost. che, fra l’altro, promuove i diritti della persona «nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità». All’uopo se n’è proposta una riformulazione in termini di rubrica imputativa, che potrebbe risolversi nell’espressione “maltrattamenti contro la persona nella famiglia e nelle formazioni sociali assimilate”[117] ovvero nella locuzione costituzionalmente orientata “maltrattamenti contro la persona nella famiglia e nelle formazioni sociali ove si svolge la personalità”[118].  Per contro, si ritiene di dover respingere la proposta, da alcuni autori ventilata, di esprimersi in termini di “violenza domestica” – per quanto troverebbe un solido punto di riferimento nella Convenzione di Istanbul –, atteso che si rischierebbe di restringere oltremodo l’ambito di applicazione dei maltrattamenti che, allo stato dell’interpretazione consolidata di dottrina e giurisprudenza, non richiedono necessariamente il perpetrarsi di una “violenza”.

Si proceda, ora, all’esame del primo dei nodi critici che attanaglia la fattispecie di cui all’art. 572 c.p.: si tratta, cioè, di scandagliare la norma incriminatrice sotto il profilo dell’indeterminatezza, contestata alla previsione codicistica rispetto tanto alla formulazione impiegata dal legislatore del 1930 col verbo “maltrattare”, quanto all’individuazione dei soggetti attivi e, specularmente, passivi del reato.

Anzitutto, in relazione alla questione lessicale, sono state suggerite due alternative. Potrebbe, cioè, scegliersi di mantenere inalterato il verbo in uso (“maltratta”, nel testo di legge), affiancandovi una norma definitoria attraverso cui dar conto del significato attribuibile al verbo di cui si controverte. Significherebbe, quindi, riempire di senso il concetto di “maltrattamenti” facendo ricorso all’ampio ventaglio di pronunce della Suprema Corte sopra le quali abbiamo avuto occasione di soffermarci, a titolo esemplificativo, nella descrizione della condotta tipica che integra gli estremi del reato[119]. Alternativamente, sulla scorta di uno sguardo comparatistico alle legislazioni di altri ordinamenti[120], si è suggerito di espungere il termine “maltratta” dalla norma, procedendo in via diretta a dettagliare la condotta. Soluzioni, quelle appena prospettate, che, tuttavia, non possono ritenersi esenti da riflessioni critiche: vi è infatti chi rileva che al verbo “maltrattare” sia attribuito un significato, sul piano sia linguistico che della coscienza sociale, in realtà tutt’altro che impalpabile, rinviando all’idea di trattare qualcuno con durezza, crudeltà se non addirittura con violenza[121]. Alla luce di ciò, la proposta di elencare nella norma di cui all’art. 572 c.p. i singoli comportamenti che integrano la fattispecie di maltrattamenti non sembrerebbe potersi condividere, atteso che, prevedibilmente, finirebbe per mostrarsi comunque incompleta e approssimativa, nonché destinata a continui rimaneggiamenti successivi alle pronunce di ultima istanza: in altri termini, nel tentativo di restituire determinatezza alla previsione de qua si rischierebbe di seminare ulteriori incertezze.

Secondo altra dottrina, quel che al più meriterebbe d’essere valorizzato è sia l’aspetto della configurabilità del delitto anche in forma omissiva sia la natura di reato abituale proprio[122]. Puntualizzazione che, tuttavia, ci sembra in astratto potenzialmente foriera dei medesimi pericoli: non si finirebbe, forse, per ritrovarsi costretti a enucleare le singole condotte negative idonee a perfezionare la fattispecie, così da sfociare nella medesima incompletezza e genericità che si produrrebbe infarcendo la norma di elenchi di condotte positive?

Meno equivoca, invece, come è stato sottolineato, sembrerebbe l’aggiunta della locuzione avverbiale “in maniera reiterata” rispetto al comportamento maltrattante, idonea a rimarcare il consolidato orientamento giurisprudenziale circa l’indispensabilità di una condotta continuativa che, tra l’altro, chiarisce lo stesso rapporto che deve intercorrere tra il soggetto attivo e il soggetto passivo del reato. E, come già ampiamente illustrato[123], si richiede non una semplice occasionalità, bensì la sussistenza di un legame affettivo stabile per quanto non necessariamente caratterizzato da una convivenza[124]. È questo il secondo nodo critico poc’anzi preannunciato: si tratta, cioè, di comprendere se la norma meriti d’essere rivista nella sua formulazione anche nella parte in cui si occupa di individuare i soggetti del reato. Le incertezze derivano, anzitutto, dal termine “famiglia”, sul cui carattere di problematicità esegetica ci si è soffermati nell’evidenziare la circostanza della pluralità ed eterogeneità di modelli familiari che nel tempo hanno trovato cittadinanza nel nostro Paese. Sempre attingendo al Progetto di riforma del Codice penale in materia di famiglia e formazioni sociali esistenziali, ad esempio si è proposto di puntualizzare la formula codicistica che individua nella “persona della famiglia” il primo dei soggetti passivi del reato, facendo riferimento alle singole tipologie che, nel nostro ordinamento, già presentano confini nettamente ritagliati[125]: si tratta della famiglia coniugale, para-coniugale (unioni civili e convivenza more uxorio), dell’unione monogenitoriale, dei rapporti di adozione o di affiliazione, della famiglia c.d. parentale. Incertezze ancor più significative derivano, però, dalla formula che identifica il secondo dei soggetti passivi menzionato dalla norma incriminatrice, ovvero la persona “comunque convivente”. Ci si chiede, in particolare, se l’avverbio “comunque” – che fa la sua comparsa nel dettato normativo con la L. n. 172/2012 – «alluda ad un rapporto di genere a specie, per cui anche il familiare deve essere necessariamente convivente, oppure indichi una possibile alternativa (o familiare o convivente)»[126]. Gli orientamenti giurisprudenziali sul punto possono ricondursi essenzialmente a due filoni interpretativi: alcuni sostengono il riferimento sia a una relazione sentimentale non regolamentata dal diritto che «rivela fisicamente il rapporto di solidarietà e protezione che lega due o più persone che formano un consorzio familiare»[127], per quanto non necessariamente avvinte da una convivenza[128]; altri, invece, ritengono sia persona “comunque convivente” solo colei che condivida con l’autore del reato «una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale […] fondata […] su una stabile condivisione dell’abitazione»[129], rilevando come un’interpretazione in senso contrario colliderebbe col divieto di interpretazione analogica, quale precipitato del principio di legalità. È evidente che l’espressione utilizzata sia suscettibile di letture ad libitum, potendo riferirsi a una molteplicità di situazioni, fra le quali, ad esempio, un legame sentimentale occasionale che deriva da una frequentazione dell’abitazione della vittima, ovvero un fidanzamento di breve durata, una relazione extraconiugale, un rapporto intimo non caratterizzato da coabitazione ma comunque dalla libertà di accesso dell’autore delle condotte maltrattanti alla dimora della vittima. Sulla scorta di tali premesse, in dottrina si è tentato di escogitare una formula concisa, meglio circoscritta di quella “comunque convivente”, idonea a delimitare i confini del concetto in modo da evitarne un’eccessiva espansione: ad esempio, quindi, si è suggerito di sintetizzare l’espressione nella “persona legata da intime consuetudini di vita, comunione di interessi e reciproca assistenza e solidarietà, anche senza coabitazione”[130]. Al di là delle considerazioni sulla condivisibilità della formula proposta – rispetto alla quale la stessa autrice si riserva la necessità di una più accorta riflessione –, è da prendersi atto del recepimento tendenzialmente ampio degli indirizzi della giurisprudenza e del legislatore in materia di famiglie, unioni civili e convivenze, per quanto attuato cercando di mantenersi entro i limiti del giure penale.

La riflessione de iure condendo sinora condotta è agevole comprendere abbia il precipuo fine di contribuire alla precisazione dei confini di una fattispecie manifestamente viziata da margini di indeterminatezza: aspetto, quest’ultimo, comprensibile alla luce dell’evidente difficoltà a mantenere scissi il piano criminologico, che fa luce su un fenomeno proteiforme illustrandone le variegate sfaccettature difficilmente sintetizzabili in un tipo penalistico circoscritto, e il piano normativo.

Arduo compito quello del penalista che ha da misurarsi coi parametri di sufficiente determinatezza senza, tuttavia, adagiarsi su un confortevole – sed periculosum – rigorismo definitorio, implicante il rischio di imbrigliare il fenomeno giuridico entro maglie tanto strette da renderlo incapace di adattarsi alla multiformità del reale.

Scriveva, magistralmente, il professor Paolo Grossi che

«Il giurista è un cercatore d’ordine, un tessitore d’ordine, perché il diritto è essenzialmente scienza ordinante; egli si sforza di individuare e segnare la ragnatela dell’ordine che soggiace, invisibile ma reale, al di sotto dell’incomposta rissa delle cose. Solo che queste cose non sono per il giurista i dati della natura cosmica, un coacervo di cristalli contraddistinto da sostanziale immobilità; sono, invece, i dati della natura sociale percorsi da una dinamica continua, da una loro intima storicità. Il guaio per il giurista è troppo spesso quello di dimenticare che maneggia del materiale storicissimo e che i risultati da lui conseguiti, anche se validi, sono relativi, relativi a certi luoghi, a certi tempi, a certi stadi di civiltà storiche, debbono cioè essere fissati con la disponibilità a variarli in ragione della loro naturale elasticità. Il guaio per il giurista è la tentazione – intesa in ogni ordinatore – a immobilizzarli e assolutizzarli»[131].

Per concludere, la constatazione della fluidità intrinseca a determinati costrutti semantici[132], destinati a modellarsi dinamicamente su parametri spazio-temporali, ci pare imporre la necessità di maneggiare con cautela lo strumento definitorio, rifuggendo pretese di tipizzazioni che inevitabilmente verrebbero consegnate a interpretazioni estensive e, piuttosto, seguendo il prezioso insegnamento di chi sosteneva che «nel formulare un concetto, nell’enunciare un principio, nel delineare un istituto, bisogna essere esatti e precisi, ma la esattezza e la precisione richiedono che non si irrigidisca ciò che è flessibile e non si solidifichi ciò che è fluido»[133].

 

 

 

 

 

 

[1] Gli enunciati descrittivi si propongono di informare sull’equivalenza tra un significante e un significato secondo gli usi linguistici praticati: in ispecie, perseguono una funzione illocutoria che consta, cioè, della comprensione del proferimento del parlante nel suo significato da parte del destinatario della comunicazione. In altri termini, essa fa riferimento all’intenzione dell’emittente, ovvero a ciò che questi intende trasmettere attraverso le proprie parole al di là del loro mero significato letterale (sul punto, cfr. la Teoria degli atti linguistici di J. L. Austin, efficacemente sistematizzata da J. Searle, Speech acts, 1969). Le definizioni descrittive si pongono in antitesi con gli enunciati prescrittivi, tipici del diritto (e della morale): la caratterizzazione del linguaggio normativo (o prescrittivo) è comunemente realizzata attraverso una contrapposizione paradigmatica col linguaggio descrittivo (o conoscitivo), sotto gli angoli visuali pragmatico, sintattico e semantico. In ordine al primo profilo è descrittivo un enunciato utilizzato per il sol scopo di compiere l’atto di descrivere; a contrario, un enunciato è prescrittivo solo nella misura in cui sia usato per compiere l’atto di prescrivere. In relazione al profilo sintattico si suole porre in opposizione gli enunciati indicativi (tipicamente associati al linguaggio descrittivo) con gli enunciati deontici (nella cui forma si esprime il linguaggio prescrittivo), pur non potendo prescindere dalla considerazione secondo cui la forma sintattica, invero, non rappresenta un carattere discriminante tra le due tipologie di enunciati, concretandosi piuttosto in una “spia” che, assieme ad altri elementi, contribuisce a rafforzare la precisa categorizzazione dell’enunciato. Infine, l’aspetto semantico consente di porre in evidenza il principale discrimen tra le due classi di enunciati: se, da un lato, quelli descrittivi hanno valori di verità (potendo essere veri oppure falsi), dall’altro quelli prescrittivi ne sono privi (non possono dirsi né veri né falsi). Per un approfondimento delle classificazioni degli enunciati e degli strumenti definitori della filosofia del diritto, cfr. R. Guastini, Filosofia del diritto positivo. Lezioni, a cura di V. Velluzzi, Torino, 2017, pp. 3 ss.
[2] In termini tecnici, “descrittivo” non è propriamente da dirsi l’enunciato in quanto tale, bensì la sua enunciazione, ovvero il suo proferimento.
[3] Costituita nel 1993, l’Associazione CISMAI, ai sensi dell’art. 1 del relativo Statuto, persegue primariamente l’obiettivo di «costituire una sede permanente di carattere culturale e formativo nell’ambito delle problematiche inerenti le attività di prevenzione e trattamento della violenza contro i minori, con particolare riguardo all’abuso intrafamiliare», muovendo dall’instaurazione di un dialogo multispecialistico e con la Magistratura.
[4] A far data dal 23 giugno 2017 è stato reso pubblico il documento sui «Requisiti minimi degli interventi nei casi di violenza assistita da maltrattamento sulle madri», in revisione delle linee guida già predisposte dal CISMAI nel 2005 alla luce «delle nuove convenzioni, in particolare la Convenzione di Istanbul», come si legge all’interno del documento, «che ha fornito un contesto di lettura fondamentale della violenza sulle donne e ha dato il giusto rilievo alle necessità e ai diritti di protezione e cura dei bambini e ragazzi testimoni di violenza».
[5] Una strutturazione multidisciplinare dell’approccio in sede d’intervento rappresenta un’esigenza ineludibile nelle fasi di rilevazione, protezione, valutazione e trattamento, enucleate all’interno del documento «Requisiti minimi degli interventi nei casi di violenza assistita da maltrattamento sulle madri» predisposto dal CISMAI: tra loro «logicamente interconnesse e ricorsive nel tempo», presuppongono la redazione di «programmi articolari di prevenzione, sensibilizzazione e formazione».
[6] La logica aletica rappresenta una modalità linguistica, tipicamente ricondotta all’interno della tassonomia del filosofo G. H. von Wright, connessa alla formulazione di un valore di verità (il contenuto è di tipo descrittivo); in antitesi si pone la logica deontica, qualificata come prescrittiva e legata al linguaggio giuridico.
[7] Si fa qui riferimento all’impianto tassonomico elaborato da G. H. von Wright (traslato dall’ambito della logica a quello della linguistica da Lyons) che muove dall’individuazione di quattro modi (lat. modus): aletico (il modo della verità), epistemico (il modo del conoscere), deontico (il modo dell’obbligo) ed esistenziale (il modo dell’esistere).
[8] Si segnalano, per un orientamento nella vasta letteratura sul tema, gli studi di: D. Douglas, Intervention with Male Toddlers who have Witnessed Parental Violence, 1991; M. Elbow, Children of violent marriages: the forgotten victims, 1982; L. E. Walker, The battered woman, 1979; J. Alessi & K. Hearn, Battered women and their families, intervention strategies and treatment programs, 1984; A. Rosenbaum & D. O’Leary, Children: the unintended victims of marital violence, 1981; S. Burman & P. Allen-Meares, Neglected victims of murder: children’s witness to parental homicide, 1994; L. Silvern & L. Kaersvang, The traumatized children of violent marriages, 1989; R. Pynoos & S. Eth, Witness to Violence: the child interview, 1984; M. B. Levine, Interpersonal violence and its effects on the children: a study of 50 families in general practice, 1975; J. B. Fleming, Stopping wife abuse, 1979; M. Straus, R. Gelles, & S. Steinmetz, Behind closed doors: violence in the American family, 1980; D. Doumas, G. Margolin & R. S. John, The intergenerational transmission of aggression across three generations, 1994; D.A. Wolfe, L. Zak, S. K. Wilson & P. Jaffe, Child witnesses to violence between parents: critical issues in behavioral and social adjustment, 1986; B. Porter & D. O’Leary, Marital discord and childhood behavior problems, 1980; H. M. Hughes & S. J. Barad, Psychological functioning of children in a battered women’s shelter: a preliminary investigation, 1983; S. Spaccarellli, I. Sandler & M. Roosa, History of spouse violence against mother: correlated risks and unique effects in child mental health, 1994; T. Miller, P. Handel, F. Gilner & J. Cross, The relationship of abuse and witnessing violence on the child abuse potential inventory with black adolescents, 1991; T. Davidson, Conjugal crime: understanding and changing the wife beating pattern, 1987; C. Gentry & V. Bass Eaddy, Treatment of children in spouse abusive families, 1980.
[9] Si rinvia alle condotte descritte al comma 1 di cui all’art. 572 c.p.
[10] Per “normale” si intende «l’uso informativamente neutro, più prevedibile, che esprime un tratto già contenuto nel nome». Per contro, si parla di “marcato” quando ci si riferisce a «un uso che mette in rilievo un punto di vista soggettivo e realizza spesso un senso figurato (es. il marcato poetico “neri occhi” vs il normale “occhi neri”; il marcato affettivo “povero ragazzo” vs il normale “ragazzo povero”)».
[11] Dal punto di vista morfologico, identifica un lessema costituito da due o più parole che assume, così, un significato autonomo rispetto ai singoli termini di cui si compone (es. credito d’imposta).
[12] Per completezza espositiva, si rammenti altresì la variante transitiva del verbo in esame, pur assumendo in tale caso una diversa accezione: ‘assistere qualcuno’. Qui l’aggettivo ‘assistito’ è riconducibile a polirematiche che definiscono taluni istituti giuridici, come “negoziazione assistita”, “suicidio assistito”, “procreazione medicalmente assistita”, “autonomia assistita” e attribuisce il significato passivo di ‘assistito da qualcuno’.
[13] Il rilievo è di Giovanni Acerboni, linguista, ricercatore e docente universitario.
[14] Il riferimento è alle considerazioni della Suprema Corte nella parte in cui afferma che «in proposito non appaia ridondante ricordare che l’elaborazione della figura della “violenza assistita” o “indiretta” (per l’utilizzo di questa ulteriore locuzione, Sez. 6, n. 58833 del 18/10/2017, V.) è stata il punto d’approdo di una evoluzione giurisprudenziale il cui incipit è costituito dalla decisione con cui la giurisprudenza di legittimità, dopo aver ribadito che l’oggetto giuridico della tutela penale apprestata dall’art. 572 c.p. non è – o non è solo – l’interesse dello Stato a salvaguardare la famiglia da comportamenti vessatori o violenti, ma anche la difesa della incolumità fisica o psichica dei suoi membri e la salvaguardia dello sviluppo della loro personalità nella comunità familiare (ex plurimis, Sez. 6 del 24/11/2011, n. 24575, Rv. 252906), ha affermato che la condotta incriminata dall’art. 572 c.p. ricomprende non solo la violenza fisica, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla dignità della vittima, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali (Sez. 6, n. 44700 del 08/10/2013, P., Rv. 256962), anche se consistenti in atti che, di per sé soli, non costituiscono reato (Sez. 6, n. 13422 del 10/03/2016, 0., Rv. 267270), aggiungendo che la stessa può essere posta in essere tramite condotte omissive di deliberata indifferenza verso elementari bisogni assistenziali e affettivi di una persona, sempre che siano sorrette dal dolo e che da tali omissioni derivi, indubitabilmente, uno stato di sofferenza per la vittima», in Cass., sez. V, 20 novembre 2020 – 4 gennaio 2021, sentenza n. 74.
[15] Così, ad esempio, nel rapporto nazionale Spettatori e vittime: i minori e la violenza assistita in ambito domestico. Analisti dell’efficienza del sistema di protezione in Italia, 2011, p. 53. Tuttavia, approdare a una traduzione di “witnessing domestic violence” in termini di “violenza testimoniata” risulta semplicistico e approssimativo se si confrontano le alternative di significato del verbo “to witness”: si noti, infatti, come a fianco della traduzione italiana “testimoniare” i principali dizionari online (si consultino, ad esempio, WordReference, Collins Dictionary, Reverso Context, Dizionari corriere…) menzionino altresì i significati di “assistere a”, “vedere”. La traduzione appare forzata anche solo limitandosi a consultare le definizioni fornite dai dizionari di lingua inglese: a titolo esemplificativo, il vocabolario Oxford Languages si esprime in termini di «(n) a person who sees an event, typically a crime or accident, take place; evidence, proof; (verb) see an event, typically a crime or accident) happen; have knowledge of a (development) from observation or experience». Similmente, il sostantivo “witness” nel Cambridge Dictionary viene definito come «a person who sees an event happening, especially a crime or an accident». O ancora, nel Collins Dictionary si legge «a person who has seen or can give first hand evidence of some event».
[16] Vocabolario Treccani.
[17] Ibidem.
[18] A titolo esemplificativo, può cogliersi l’indirizzo implicito nella constatazione che «l’impiego di espressioni e locuzioni – e in particolare di termini giuridici – legati troppo intimamente a una determinata lingua o a un determinato ordinamento giuridico rischia di creare difficoltà di traduzione» (orientamento n. 5.3.); inoltre si ammonisce che «i rapporti tra i vari elementi della frase devono essere grammaticalmente chiari. Non deve essere dubbio, ad esempio, se un dato aggettivo si riferisce a un solo sostantivo o a più di uno» (orientamento n. 5.2.3.).
[19] Una peculiare tipologia di prestito linguistico è rappresentata dal “calco”: per usare le parole del professore e storico della lingua italiana Massimo Fanfani, «la parola o la frase straniera viene così ‘ricalcata’ strutturalmente attraverso un nuovo elemento che combinando materiali indigeni ne riproduce la forma e il significato, oppure riverbera tratti del suo significato su un termine analogo della lingua mutuante rimodellandone la semantica».
[20] M. Fanfani, Calchi, in Enciclopedia Treccani, 2010.
[21] Décret n. 2021-1516 du 23 novembre 2021 tendant à renforcer l’effectivité des droits des personnes victimes d’infractions commises au sein du couple ou de la famille.
[22] L. 19 luglio 2019, n. 69 (c.d. Codice Rosso), recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”.
[23] Sul punto, C.E. Paliero, in Depenalizzazione, 1989, ha asserito come le ricerche sulla cifra nera registrino «all’interno del meccanismo penalistico numerosi “colli di bottiglia” tali da spiegare l’enorme lontananza, in termini numerici, tra i due estremi del processo di criminalizzazione in concreto: i reati che si suppongono realmente commessi e la cifra dei reati effettivamente puniti», come cit. da G. Forti, in L’immane concretezza, cit., p. 64.
[24] G. Forti, «Est modus in rebus». I limiti dell’intervento penale sulle “relazioni ferite” dalla violenza di genere in ambito familiare, cit., p. 182.
[25] K. Binding, Lehrbuch des Gemeinen Deutschen Strafrechts: Besonderer Teil, 1902, come cit. da G. Fiandaca, E. Musco, in Diritto penale. Parte generale, VII ed., Bologna, 2014.
[26] Per un approfondimento sul distinguo tra i concetti di “criminalizzazione in astratto” e di “criminalizzazione in concreto”, si veda G. Forti, L’immane concretezza, cit., p. 54.
[27] Non sono, tuttavia, da trascurarsi nemmeno i limiti di una concezione che muova dall’individuazione dei beni giuridici meritevoli di tutela nei soli e unici valori che godono del conforto del consenso sociale, così come quella a fondamento della «teoria del bene giuridico costituzionalmente orientata», sussistendo, infatti, anche beni, astrattamente dotati di rilevanza costituzionale implicita che, tuttavia, non si mostrano preesistenti, a livello sociale, alle scelte di criminalizzazione (il professor Alberto Cadoppi, a titolo di esempio, menziona l’art. 7 del Dlgs n. 286/1998, – Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero –, ovvero quella norma che configura oggi quale illecito amministrativo – precedentemente punito con la pena dell’arresto fino a sei mesi – la violazione dell’obbligo di darne immediata comunicazione all’Autorità locale di Pubblica sicurezza a chi offra una qualsiasi forma di alloggio od ospitalità ad uno straniero od apolide, anche se parente o affine: trattasi, evidentemente, di una norma tesa a promuovere la collaborazione del cittadino nell’attività di contrasto all’immigrazione irregolare, pur non apparendo, prima facie, supportata da una condivisione unanime a livello sociale circa il disvalore della condotta).
[28] Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno, in GU n. 235 del 08-10-2012.
[29] Come osserva autorevolmente R. Bartoli, in La famiglia, le famiglie, in M. Bertolino (a cura di), Reati contro la famiglia, in F. Palazzo, C.E. Paliero, M. Pelissero (diretto da), Trattato teorico-pratico di diritto penale, XVIII, Torino, 2022, p. 1, «da tempo non si parla più di “famiglia”, ma di “famiglie” per significare che il termine “famiglia” non indica più un concetto/modello unico, valevole per tutte le relazioni intersoggettive, ma piuttosto una pluralità di relazioni». Dal punto di vista fenomenologico ciò trova conferma nel fatto che «la società è sempre di per sé necessariamente pluralistica e le relazioni interpersonali sono – per così dire – esse stesse società, non solo nel senso che costituiscono addirittura la prima forma di socialità, ma anche nel senso che relazioni interpersonali e società si intrecciano, si condizionano reciprocamente, fino a identificarsi, creando un tutt’uno che si trasforma nel fluire della storia».
[30] La rivendicazione di un modello comunitario è da leggersi alla luce «generale processo (rectius bisogno) di risimbolizzazione dei modelli associativi», così G. Bombelli, Appunti in margine all’ambiguità del modello comunitario occidentale: “comunità radicata” (materiale) e “comunità sradicate” (immateriali) tra pluralismo e multiculturalismo, 2004, p. 2.
[31] Cfr. A. MacIntrye, After virtue. A study in moral theory (1981), tr. it. di P. Capriolo, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Milano, 1987.
[32] Cass., sez. VI, 28 settembre 2022, sentenza n. 38336.
[33] Cass., sez. III, 25 gennaio 2021, sentenza n. 2911.
[34] Cass., sez. VI, 11 febbraio 2021, sentenza n. 17888.
[35] Cass., sez. VI, 28 settembre 2022, sentenza n. 38336.
[36] Chiamata a risolvere una questione di legittimità costituzionale avente a oggetto la norma dell’art. 521 c.p.p., sollevata nel contesto di una riqualificazione del fatto contestato ai sensi dell’art. 572 c.p., la Corte costituzionale, nel tracciare il discrimen tra le fattispecie di “maltrattamenti contro familiari o conviventi” e di “atti persecutori”, ha statuito che «il divieto di analogia in malam partem impone di chiarire se il rapporto affettivo dipanatosi nell’arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro possa già considerarsi, alla stregua dell’ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di convivenza…(e se)… davvero possa sostenersi che la sussistenza di una (tale) relazione consenta di qualificare quest’ultima come persona appartenente alla medesima famiglia” dell’imputato. In difetto di una tale dimostrazione, l’applicazione dell’art. 572 c.p. in casi siffatti – in luogo dell’art. 612-bis, comma 2, c.p., che pure contempla espressamente l’ipotesi di condotte commesse a danno di persona “legata da relazione affettiva” all’agente – apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice» (Corte Cost., 15 maggio 2021, sentenza n. 98).
[37] L. 20 maggio 2016, n. 76, recante la Regolamentazione delle unioni civili tra persone ello stesso sesso e disciplina delle convivenze (GU n. 118 del 21 maggio 2016).
[38] Ai sensi dell’art. 4 del d.P.R. 30 maggio 1986 n. 223, così come modificato alla luce degli interventi di riforma attuati dalla L. 20 maggio 2016, n. 76, «Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, unione civile, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune», precisandosi che «una famiglia anagrafica può essere costituita da una sola persona».
[39] Cass., sez. VI, 6 giugno 2022, sentenza n. 27173.
[40] Cass., sez. V, 4 maggio 2016, sentenza n. 41665; Cass., sez. VI, 24 novembre 2011, sentenza n. 24575.
[41] Per una prospettiva de iure condendo sulla collocazione sistematica del reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi, cfr. par. 2.
[42] Per il legislatore del 1930, «la famiglia assurge ad oggetto di protezione penale secondo una dimensione pubblicistica, cioè quale entità, quale bene giuridico autonomo ed indipendente dai soggetti che la compongono e la cui meritevolezza di tutela si giustifica in sé, quale cellula originaria, portante della società, e non in quanto strumentale alla tutela dei diritti di coloro che ne fanno parte». Tanto ciò è vero, che il matrimonio era concepito non come «un istituto creato a beneficio dei coniugi», bensì come «un atto di dedizione e di sacrificio degli individui nell’interesse della società, di cui la famiglia è nucleo fondamentale» (M. Bertolino, Introduzione. Dalla famiglia pubblicistico-istituzionale del codice Rocco a quella personalistica della Costituzione, in M. Bertolino (a cura di), Reati contro la famiglia, cit. XIX). Si osservi come oggi, nella prassi applicativa, a contendersi siano, da un lato, una concezione che assurge a oggetto giuridico della tutela penale apprestata dall’art. 572 c.p. la “famiglia in vista della personalità” e, dall’altro, una concezione che eleva a bene giuridico da proteggere la tutela della “personalità all’interno della famiglia”. Le conseguenze tanto a livello ermeneutico quanto applicativo sono notevoli. Osserva R. Bartoli che «allorquando si muove nella prospettiva della tutela della famiglia in vista della personalità dei suoi componenti, oggetto di tutela finisce per essere la relazione stessa, la sua “serenità”, normalità, se non addirittura la “correttezza” relazionale, con i seguenti riflessi applicativi: lo stesso concetto di relazione quale presupposto del reato, soprattutto in ambito familiare, tende a dilatarsi, attribuendosi rilevanza non soltanto alle ipotesi di convivenza, ma anche ai rapporti basati su mere componenti affettive; inoltre, comportamenti rilevanti tendono ad essere anche quelli che di per sé non costituiscono reato in quanto riconducibili alla violazione di obblighi di assistenza; infine, a causa della difficoltà di trovare un disvalore capace di esprimere l’intera vicenda costituita da singoli frammenti, da un lato, si attribuisce rilevanza all’abitualità che va ben oltre la mera reiterazione, andandosi alla ricerca di un tratto oggettivo-soggettivo unificante i diversi episodi; dall’altro lato, si tende a fare riferimento a un evento consistente nella compromissione del “clima” e dell’ambiente familiare, determinandosi così una notevole anticipazione della tutela». Per contro, «quando ci si muove nella prospettiva della tutela della personalità all’interno della famiglia i riflessi sulla disciplina sono così sintetizzabili: la relazione come presupposto tende a circoscriversi, perché soltanto in presenza di contesti relazionali particolarmente stringenti è possibile giungere a un livello offensivo così significativo; inoltre, comportamenti rilevanti tendono ad essere soprattutto quelli che già di per sé costituiscono reato, in quanto soltanto attraverso il passaggio da un’offesa dei beni personali si può giungere poi a compromettere la personalità della vittima; infine, il carattere della abitualità tende ad esaurirsi nella mera reiterazione oggettiva delle condotte criminose, non mancando sentenze in cui si fa riferimento a conseguenze – per così dire – personalizzate, consistenti in una situazione di sofferenza che impedisce lo sviluppo della personalità o la comprime». Più di recente si constata una tendenza a valorizzare soprattutto questa seconda concezione, come attestato dalla convergenza creatasi nell’attribuire rilievo alla c.d. “violenza assistita” [R. Bartoli, La tutela della persona dalle aggressioni violente, in M. Bertolino (a cura di), Reati contro la famiglia, cit., pp. 204-205].
[43] Cfr. artt. 2, 3, 29, 30, 31 Cost.
[44] In proposito, si richiamino le parole dei giudici di legittimità che, con la già menzionata sentenza del 20 novembre 2020, sentenza n. 74, hanno inteso rammentare che «l’elaborazione della figura della “violenza assistita” o “indiretta” (per l’utilizzo di questa ulteriore locuzione, Sez. 6, n. 58833 del 18/10/2017, V.) è stata il punto d’approdo di una evoluzione giurisprudenziale il cui incipit è costituito dalla decisione con cui la giurisprudenza di legittimità (…)» ha «ribadito che l’oggetto giuridico della tutela penale apprestata dall’art. 572 c.p. non è – o non è solo – l’interesse dello Stato a salvaguardare la famiglia da comportamenti vessatori o violenti, ma anche la difesa della incolumità fisica o psichica dei suoi membri e la salvaguardia dello sviluppo della loro personalità nella comunità familiare (…)».
[45] Sovviene, a riguardo, rammentare l’importanza dell’elaborazione condotta nel corso degli anni Settanta del Novecento dal professor Franco Bricola, tesa a superare la concezione “metodologica” del bene giuridico dominante nell’Italia dell’epoca del Codice Rocco, in un contesto in cui era andato affermandosi l’orientamento “tecnico-giuridico”, imperniato sulla catalogazione ex post dei beni giuridici già individuati dal Legislatore come interessi tutelabili attraverso le norme penali: l’approccio di Bricola muove proprio dalla considerazione in base alla quale i beni giuridici penalmente tutelabili siano da identificarsi con quelli di rango costituzionale. Può quindi desumersi che la funzione selettiva dell’ambito del punibile connessa al rilievo del bene giuridico che una determinata fattispecie incriminatrice si proponga di presidiare venga a essere vanificata dalla previsione di un carattere di plurioffensività di detta fattispecie: in altri termini, per sfuggire al rischio di rendere vana la funzione di selezione, sarebbe da limitare il ricorso alla categoria dei reati preposti alla contestuale tutela di una moltitudine di beni discrezionalmente dilatabile.
[46] Sul punto cfr. la recente pronuncia della Suprema Corte (Cass., sez. VI, 10 settembre 2024 – 11 ottobre 2024, sentenza n. 37453), là dove ribadisce che ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 572 c.p. «non è richiesta affatto la sistematicità di condotte plurime isolatamente inquadrabili come atti di violenza, ma in una prospettiva costituzionalmente orientata e convenzionalmente orientata (tra le tante, Sez. 6, n. 37978 del 03/07/2023, B., Rv. 285273), è sufficiente che il comportamento intenzionale dell’autore sia volto a compromettere l’integrità della persona offesa attraverso forme coercitive che ne minano l’identità, la dignità o la libertà di autodeterminarsi (Sez. 6, n. 37978 del 03/07/2023, Rv. 285273; Sez. 6, n. 9187 del 15/09/2022, dep. 2023, C., non mass.; Sez.6, n. 30340 del 08/07/2022, S., non mass.; Sez. 6, n. 29542 del 18/09/2020, G., Rv. 279688; Sez. 6 n. 2625 del 12/01/2016, G., Rv. 266243). Si noti come in dottrina emerga, comunque, una riflessione critica sul punto: la configurabilità del delitto di maltrattamenti anche attraverso la reiterazione di condotte di per sé lecite finirebbe per far rientrare nella fattispecie «fatti molto diversi tra di loro in termini di disvalore, vale a dire, da un lato, fatti che, in quanto di per sé leciti, orientano la fattispecie soprattutto nel senso della tutela della famiglia ovvero della violazione degli obblighi di assistenza, dall’altro lato, fatti che, in quanto costituiti da fatti che già di per sé costituiscono reato, orientano i maltrattamenti nel senso della tutela della persona/personalità in termini di approfondimento/aggravamento dell’offesa personalistica» [R. Bartoli, La tutela della persona dalle aggressioni violente, in M. Bertolino (a cura di), Reati contro la famiglia, cit., pp. 218-219].
[47] Sulla distinzione categoriale delle fattispecie di durata si riscontrano svariate posizioni dottrinali sulle quali merita, brevemente, soffermarsi. A G. Leone è riconducibile la tesi secondo cui sarebbe necessario discernere tra reato abituale “della prima specie” e reato abituale “della seconda specie”. All’interno della prima categoria sarebbero ascrivibili quei reati che richiedono il compimento di determinate azioni contro un medesimo bene giuridico, esplicitamente indicate dal legislatore, che, singolarmente considerate, non rivestono il carattere di reato. In tale gruppo di reati l’Autore distingue ulteriormente tra reati “necessariamente abituali” e reati “eventualmente abituali”, connotandosi i primi per il fatto di risultare integrati sempre da un fatto complesso, mentre i secondi anche da un fatto semplice. La categoria dei reati “della seconda specie” si caratterizzerebbe sempre dalla necessaria pluralità di azioni simili, ma, rispetto a quella “della prima specie”, richiede che ogni azione abbia, di per sé, carattere di reato. La classe dei reati necessariamente abituali della prima specie coinciderebbe, de facto, con quella che un altro autore, M. Petrone, identifica con l’espressione “reati necessariamente abituali propri”, di cui il delitto di maltrattamenti ex art. 572 c.p. costituirebbe un esempio emblematico: in particolare, si tratterebbe di reati integrati da condotte di norma non dotate di autonoma rilevanza penale e, quandanche lo fossero, lo sarebbero, in ogni caso, per un titolo diverso; rispetto a questi sarebbero da distinguersi i “reati necessariamente abituali impropri” che, similmente ai reati abituali della “seconda specie” categorizzati da G. Leone, si caratterizzerebbero per la rilevanza penale delle singole condotte, anche se per un diverso titolo di reato. A tali due classi di reati si affiancherebbe un’ultima categoria, rappresentata dai “reati eventualmente abituali”, ove l’elemento distintivo sarebbe rappresentato dal fatto che la norma incriminatrice, nonostante richieda la reiterazione di più condotte omogenee, ammetta la rilevanza del singolo fatto, anche nell’ambito del medesimo titolo di reato. Le tesi sinora succintamente richiamate si prestano, tuttavia, a diverse obiezioni: come osservato in dottrina (per un’ampia disamina critica sul punto, cfr. A. Aimi, Le fattispecie di durata. Contributo alla teoria dell’unità o pluralità di reato, II ed., Torino, 2020, pp. 125 ss.), anzitutto, considerando irrinunciabile, nei reati necessariamente abituali – propri o impropri – l’elemento della pluralità a integrare il fatto tipico, non può non ammettersi che molte delle norme incriminatrici di parte speciale altresì vengono descritte in termini pluralistici, pur non configurando reati abituali; in secondo luogo, nemmeno il nesso di abitualità tra le condotte plurime sembrerebbe idoneo a distinguere, sul piano preconsumativo, il reato necessariamente abituale, posto che ciò non possa essere in alcun modo derivato dalla legge; non pare, poi, persuasivo nemmeno l’argomento offerto per dimostrare l’indispensabilità del predetto nesso di abitualità, secondo cui è solo dalla reiterazione delle condotte che potrebbe derivare la particolare natura dell’offesa della citata categoria di reati, quantitativamente e qualitativamente diversa da quella di un’unica condotta: si osserva, infatti, che non vi sarebbero valide ragioni per escludere la possibilità che un reato necessariamente abituale si consumi anche solo attraverso la perpetrazione di due condotte, magari tra loro distanti nel tempo, ma di una rilevanza tale da essere idonee a ledere significativamente il bene giuridico tutelato. Poste tali premesse di ordine critico, si è osservato che il reale tratto caratteristico dei reati abituali idoneo a distinguerli dai reati istantanei sarebbe, quindi, «la loro suscettibilità a protarsi nel tempo dopo il momento consumativo»; d’altra parte non sembra invece potersi rinvenire nell’elemento della pluralità di condotte descritte dalla norma incriminatrice un’altrettanta peculiarità dei reati abituali, atteso che già anche solo confrontandosi coi reati eventualmente abituali può appurarsi come questi, per definizione, non possano essere descritti in termini pluralistici. Più precisamente, non è la pluralità di condotte a fornire informazioni circa l’effettiva durata postconsumativa della fattispecie: tornando all’esempio del reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p., non sembra possibile derivare, dalla formulazione della norma, indicazioni in merito al protrarsi nel tempo della fattispecie al di là del momento consumativo. Infatti, se successivamente al compiersi del numero minimo di condotte necessarie ai fini della consumazione del reato de quo «non seguono altre condotte di maltrattamento, il reato sarà indistinguibile da un qualunque reato realizzato in forma istantanea», indipendentemente dall’espressione impiegata dal legislatore nella norma incriminatrice. Sulla scorta di tali considerazioni, si è osservato, dunque, che il fenomeno dell’abitualità, al pari di quello della permanenza, può essere descritto da una «successione di fatti storici nei quali debbono potersi rintracciare tutti gli elementi necessari per la punibilità ai sensi di una determinata norma incriminatrice», ovvero la tipicità, l’antigiuridicità e la colpevolezza (Id., Le fattispecie di durata, cit., pp. 152-156). Volendo, quindi, trarre alcune conclusioni, sembra potersi, in primo luogo, constatare la superfluità della categoria del reato abituale se osservata sotto il profilo preconsumativo: è stato notato, infatti, come alla nozione di reato abituale si faccia ricorso per descrivere, da un lato, reati per il cui perfezionamento è richiesta la realizzazione di una pluralità di condotte (i c.d. “reati necessariamente abituali”), dall’altro, reati che ammettono la rilevanza del singolo fatto, anche nell’ambito del medesimo titolo di reato (i c.d. “reati eventualmente abituali”); è stato, altresì, notato che la pluralità di condotte non ne costituisce un tratto distintivo, posto che si tratta di un elemento comune a svariate fattispecie non ritenute abituali. Ora, la conclusione autorevolmente fornita in dottrina è pressoché svelata: se osservata dal punto di vista postconsumativo, la categoria del reato abituale appare superflua. Sostanziandosi, infatti, nello stesso fenomeno nel quale si risolve la permanenza, non si comprende per quale motivo dovrebbe continuare a rappresentare un’autonoma categoria fra i reati di durata. Un solo aspetto sembrerebbe consentire di tracciare una linea di demarcazione tra le categorie dell’abitualità e della permanenza: la “discontinuità” della successione, a livello temporale, dei fatti storici che caratterizzano la prima e la “continuità” del protrarsi della fattispecie relativamente alla seconda (Id., Le fattispecie di durata, cit., pp. 163-166).
[48] L’espressione è di G. Forti, L’immane concretezza, cit., p.101.
[49] A. Aimi, Le fattispecie di durata, cit., p. 151.
[50] Sul punto, cfr. P. Noll, Gesetzgebungslehre, Reinbek, 1973, p. 66.
[51] D. Pulitanò, Quaderno di storia del penale e della giustizia, n. 2, Macerata, 2020, p. 214.
[52] Cass., sez. VI, 13 giugno 2018, sentenza n. 27201.
[53] Cass., sez. III, 22 novembre 2017, sentenza n. 272452.
[54] Cass., sez. II, 3 febbraio 2023, sentenza n. 11290.
[55] Cass., sez. VI, 10 marzo 2022, sentenza n. 8333.
[56] Nonostante innumerevoli siano gli argomenti che militano in favore della tesi in virtù della quale il reato di maltrattamenti in famiglia sarebbe qualificabile come di mera condotta, a rigore, non può tuttavia essere trascurato quell’orientamento secondo cui i maltrattamenti, invero, sarebbero caratterizzati dalla presenza di un “evento implicito” (così, A. Spena, Reati contro la famiglia, in Trattato di diritto penale italiano, diretto da C. F. Grosso, T. Padovani, A. Pagliaro, XIII, Milano, 2012, p. 366): in giurisprudenza si è, ad esempio, affermato che «lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all’interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamenti commessi a carico delle persone sottoposte al potere dei soggetti attivi» (Cass., sez. VI, 21 dicembre 2009, sentenza n. 8592; Cass., sez. VI, 16 ottobre 2018, sentenza n. 1508). Ecco che il riferimento all’evento può essere visto, per certi versi, come «funzionale alla individuazione di quel quid pluris di disvalore che risulta difficile afferrare attraverso il solo requisito della abitualità soprattutto allorquando si è in presenza di atti che di per sé sono leciti» [R. Bartoli, La tutela della persona dalle aggressioni violente, in M. Bertolino (a cura di), Reati contro la famiglia, cit., p. 215]. Volendo ammette l’esistenza di un evento implicito, si noti come la giurisprudenza vi si riferisca con vocaboli differenziati: talvolta si esprime in termini di “situazione”, “clima”, “ambiente”, “sistema”; altre volte l’evento viene, invece, riferito alla dimensione strettamente personale della vittima e, dunque, viene indicato come “stato di sofferenza”. Non si manchi, infine, di rammentare che un’ipotesi peculiare in cui si pone la questione dell’evento è rappresentata proprio dalla “violenza assistita”: così, a titolo d’esempio, la Cassazione ha ritenuto integrato il delitto di maltrattamenti allorquando il soggetto attivo ha tenuto una condotta violenta nei confronti del soggetto passivo e i figli vi hanno assistito, cagionandosi in loro un turbamento dell’equilibrio psico-fisico (Cass., sez. VI, 23 febbraio 2018, sentenza n. 18833); del pari, la giurisprudenza ha ritenuto sussistenti i maltrattamenti “reciproci” attraverso la valorizzazione del “clima” che si è generato (Cass., sez. III, 24 gennaio 2020, sentenza n. 12026). Da quanto premesso, in dottrina si solleva il dubbio che l’evento riferito all’ambito relazionale (ovvero il “clima”) rischi di comportare un’estensione della tipicità a fatti che, di per loro, non possono ritenersi direttamente ricollegabili alla condotta, ma, appunto, a un evento offensivo generalizzato.
[57] L. Monticelli, Maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli, in Trattato di diritto penale, diretto da A. Cadoppi, S. Canestrari, A. Manna, M. Papa, VI, Torino, 2009, come cit. da R. Bartoli, La tutela della persona dalle aggressioni violente, in M. Bertolino (a cura di), Reati contro la famiglia, cit., p. 215.
[58] E. Salemi, I maltrattamenti in famiglia, Milano, 2012, p. 15.
[59] Cass., sez. VI, 23 gennaio 2019, sentenza n. 4935.
[60] Cass., sez. VI, 11 luglio 2014, sentenza n. 34197.
[61] Cass., sez. III, 19 gennaio 2016, sentenza n. 18937.
[62] Cass., sez. VI, 22 ottobre 2014, sentenza n. 1400.
[63] Cass., sez. VI, 14 maggio 2015, sentenza n. 20126.
[64] Cass., sez. III, 11 febbraio 2016, sentenza n. 14742.
[65] Cass., sez. VI, 18 novembre 2015, sentenza n. 4170.
[66] Cfr. Cass., sez. III, 28 febbraio 2013, sentenza n. 9724 che, confermando la decisione già assunta in grado di Appello con cui si condannava ex art. 572 c.p. una badante per maltrattamenti commessi a pregiudizio di un uomo affetto da sindrome di down affidato alla sua assistenza, vigilanza e cura, ha sancito che la fattispecie incriminatrice in esame risulta integrata anche a seguito di «fatti omissivi di deliberata indifferenza verso elementari bisogni esistenziali e affettivi di una persona disabile. Indifferenza espressa con dissimulata severità e fonte di inutile mortificazione, tali da incidere, non meno di gesti reale violenza, sulla qualità della vita della persona offesa»; cfr. anche Cass., sez. VI, 27 febbraio 2024, sentenza n. 8617, dove afferma che «il reato di maltrattamenti può essere commesso anche in forma omissiva, lì dove il genitore non provveda ad assicurare al minore, specie se in tenera età, tutte quelle condotte di cura, assistenza e protezione a fronte di esigenze cui il minore non può altrimenti provvedere».
[67] Cass., 18 marzo 1996, Giustizia penale, 1997, II, p. 1.
[68] Cass., sez. VI, 14 luglio 2009, sentenza n. 38125.
[69] Cass., sez. VI, 7 giugno 2000, sentenza n. 6785.
[70] Cass., sez. III, 16 maggio 2007, sentenza n. 22850
[71] In apice alle considerazioni svolte si colloca il tema dell’operatività della clausola di equivalenza ex art. 40, comma 2, c.p., qui di rilievo in ragione della ricostruzione della fattispecie in esame nei termini di reato di evento, operata da una parte della giurisprudenza. Da quanto premesso, possono trarsi alcune brevi puntualizzazioni: anzitutto, la giurisprudenza è pacifica nel considerare possibile l’integrazione di un concorso omissivo in un reato commissivo allorché le violenze vengano interamente indirizzate nei confronti di una vittima e vi sia un altro soggetto che, avendo l’obbligo di protezione, ometta di impedire il verificarsi del reato (Cass., sez. VI, 1 febbraio 2018, sentenza n. 10763; Cass., sez. III, 14 settembre 2016, sentenza n. 47968; Cass., sez. VI, 17 ottobre 1994, sentenza n. 3965); più problematica, invece, è l’ipotesi in cui le violenze siano realizzate ai danni sia della vittima diretta sia del minore, configurandosi facilmente il rischio di una vittimizzazione secondaria qualora si riconoscesse parzialmente responsabile la vittima diretta (sul punto, cfr. R. Bartoli, La tutela della persona dalle aggressioni violente, in M. Bertolino (a cura di), Reati contro la famiglia, cit., pp. 220-221).
[72] Dottrina e giurisprudenza maggioritarie muovono dall’assunto in base al quale, ai fini dell’individuazione della normativa applicabile, occorre fare riferimento all’ultima azione che protrae la situazione antigiuridica: la giustificazione argomentativa della posizione adottata poggia, anzitutto, sul presupposto per cui il reato abituale è da considerarsi in termini unitari, dunque strutturalmente inscindibile; ciò constatato, la legge successivamente intervenuta altro non sarebbe che “la legge del tempo”, non ponendosi, dunque, neppure la questione del rischio di violazione del principio di irretroattività. Non da ultimo, sarebbe da aggiungersi la considerazione, avanzata in dottrina, per la quale parrebbe ragionevole che l’autore della condotta criminosa soggiacesse alle più gravi conseguenze sanzionatorie introdotte, giacché cieco dinnanzi ai moniti del legislatore, ben potendo operare un ripensamento “di convenienza” durante il periodo di vacatio legis, desistendo dal reiterare la condotta antigiuridica.
[73] Cass., sez. VI, 28 giugno 2023, sentenza n. 28218.
[74] Cass., Sezioni Unite, 19 luglio 2018, sentenza n. 40986.
[75] Sul punto meritano di essere ribadite le recenti parole dei Giudici Supremi che, coerentemente con i consolidati orientamenti giurisprudenziali in materia, hanno affermato che «perché operi l’aggravante della violenza assistita non occorre che le condotte vessatorie realizzate in presenza dei minori abbiano necessariamente il contenuto proprio della violenza fisica, potendo apprezzarsi a tal fine anche quelle verbalmente violente o tipicamente dispregiative che contribuiscono, nella loro abitualità, a dare corpo al contesto maltrattante destinato a fondare l’ipotesi di reato di cui all’art 572 cod. pen.» (Cass., sez. VI, 7 maggio 2024, sentenza n. 17845).
[76] Così Cass., sez. VI, 25 ottobre 2018, sentenza n. 2003; Cass., sez. VI, 9 febbraio 2021, sentenza n. 8323; Cass., sez. V, 9 gennaio 2024, sentenza n. 11097; Cass., sez. VI, 25 giugno – 5 agosto 2024, sentenza n. 31929. Una nota critica: risulta difficile affermare che l’elemento dell’abitualità, destinato a fondare il disvalore della fattispecie, possa poi essere ritenuto del tutto irrilevante qualora si tratti di circostanze. In altri termini, l’abitualità non avrebbe ragione di essere trascurata a priori. Si osserva che il rischio sia quello di assimilare vicende che, invece, dovrebbero essere tenute debitamente distinte: ad esempio, ritenere che nell’ipotesi in cui i maltrattamenti siano commessi “in presenza” del minore sia sufficiente un unico episodio affinché possa configurarsi la fattispecie aggravata di cui al comma 2 dell’art. 572 c.p. significa trattare con maggior rigore l’ipotesi, meno grave, connotata dalla mera presenza del minore sul luogo del fatto, rispetto a quella, più grave, caratterizzata dalla commissione di violenze dirette “in danno” del minore (cfr. R. Bartoli, La tutela della persona dalle aggressioni violente, in M. Bertolino (a cura di), Reati contro la famiglia, cit., p. 239).
[77] Cass., sez. VI, 29 settembre 2022, sentenza n. 40045.
[78] Cass., sez. V, 20 novembre 2020, sentenza n. 74; Cass., sez. VI, 28 marzo 2019, sentenza n. 16583; Cass., sez. I, 25 giugno 2018, sentenza n. 44965; Cass., sez. VI, 23 febbraio 2018, sentenza n. 18833; Cass., sez. VI, 10 dicembre 2014, sentenza n. 4332; Cass., sez. V, 22 ottobre 2010, sentenza n. 41142; Cass., sez. VI, 21 dicembre 2009, sentenza n. 8592.
[79] Così, si è affermato, ad esempio, che «la condotta di colui che compia atti di violenza fisica contro la convivente integra il delitto di maltrattamenti anche nei confronti dei figli, in quanto lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche dal clima generalmente instaurato all’interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere del soggetto passivo» (Cass., sez. V, 22 ottobre 2010, sentenza n. 41142).
[80] Ecco che il rischio, tuttavia, finirebbe per essere quello di servirsi dell’evento riferito all’ambito relazionale (ovvero il “clima”) come strumento atto a estendere i confini della tipicità a fatti che, invero, non risultano direttamente associabili alla condotta, bensì, appunto, a un generalizzato evento offensivo [cfr.R. Bartoli, La tutela della persona dalle aggressioni violente, in M. Bertolino (a cura di), Reati contro la famiglia, cit., p. 217]
[81] Ivi, p. 227.
[82] Così, si è osservato che «i fatti commissivi abitualmente lesivi della personalità del coniuge maltrattato possono integrare il delitto di cui all’art. 572 anche nei confronti dei soggetti minori se, al contempo, nei loro confronti, si traducano in una “indifferenza omissiva”, frutto di una deliberata e consapevole trascuratezza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali dei figli, quando, cioè, i maltrattamenti siano realizzati anche in violazione dell’art. 147 c.c. in punto di educazione ed istruzione e rispetto delle regole minimali del vivere civile» (Cass., sez. VI, 10 dicembre 2014, sentenza n. 4332; Cass., sez. VI, 10 marzo 2016, sentenza n. 13422).
[83] R. Bartoli, La tutela della persona dalle aggressioni violente, in M. Bertolino (a cura di), Reati contro la famiglia, cit., p. 227.
[84] Cass., sez. V, 22 ottobre 2010, sentenza n. 41142.
[85] Cass., sez. VI, 24 aprile 2008, sentenza n. 16982.
[86] Cass., sez. VI, 3 novembre 2005, sentenza n. 39927.
[87] Cass., sez. VI, 26 giugno 2018, sentenza n. 29255.
[88] Cfr. R. Bartoli, La tutela della persona dalle aggressioni violente, in M. Bertolino (a cura di), Reati contro la famiglia, cit., p. 233.
[89] Ivi, p. 228.
[90] Il riferimento è alla teoria nota come “The cycle of violence” o “The cycle of abuse” di cui si legge in L. Walker, The Battered Woman, 1979.
[91] In ispecie, la “battered woman syndrome” (BWS), prospettata dall’autrice come conseguenza dell’esposizione reiterata della vittima a condotte abusanti, è stata frequentemente impiegata quale parametro per sostenere la ragionevolezza dell’azione omicidiaria perpetrata dalle donne nei confronti dei propri carnefici, dunque come idonea a integrare la legittima difesa.
[92] Cfr. C. Pecorella, La legittima difesa delle donne. Una lettura del diritto penale oltre pregiudizi e stereotipi, Milano, 2022.
[93] Gli interrogativi emersi in sede di constatazione della non indifferente consistenza della cifra oscura hanno trovato uno sbocco nelle teorie dell’etichettamento (o “labelling approach”): all’esito delle procedure di selezione, per coloro che vengono identificati come criminali tale processo assume un connotato stigmatizzante.
[94] Preme sottolineare come all’inerzia delle vittime, restie a denunciare, non sia sotteso unicamente il timore di ritorsioni o la sfiducia nutrita nei confronti delle autorità preposte a procedere, ma, spesso, anche dalla difficoltà di ammettere il fallimento del proprio rapporto affettivo: l’atto della denuncia rappresenterebbe, dunque, una sorta di pietra tombale su anni di convivenza e, quindi, di investimento personale ed emotivo nella relazione.
[95]  Cfr. G. Forti, L’immane concretezza, cit., p. 253.
[96] Cfr. G. Ponti, Compendio di criminologia, Milano, 1980, che illustra il ruolo dirimente del corpo sociale giacchè «attraverso i sistemi spontanei di controllo sociale, la gente, la famiglia, i gruppi, esercitano una costante vigilanza sulla condotta dei singoli, ne controllano il comportamento, ne prevengono le infrazioni antinormative, ma ne identificano altresì le concrete realizzazioni».
[97] Espressione riferita alle tipiche agenzie del controllo sociale, quali la polizia, i pubblici ministeri, i giudici e le strutture penitenziarie.
[98] Cfr. G. L. Fanuli, La depenalizzazione prasseologica del diritto penale del lavoro tra cifra nera e meccanismi di selezione, in Journals UniUrb, 1998, p. 747.
[99] Si consideri, ad esempio, il ruolo che la polizia assume nel decidere quanto insistere nelle indagini o procedere all’arresto, nonché nel concentrare le proprie risorse su determinati autori di reato o fatti con priorità rispetto che su altri. A tale profilo si aggiunga, poi, la componente discrezionale in seno alla magistratura e, segnatamente, al pubblico ministero il quale, pur vincolato dal disposto costituzionale di cui all’art. 112, conserva, prasseologicamente, un margine di intervento endoprocessuale, organizzativo e investigativo: la discrezionalità attiene già alla valutazione dei risultati delle indagini preliminari al fine di promuovere l’azione penale ovvero di chiedere l’archiviazione; si spinge poi sino all’individuazione dei criteri di priorità nella trattazione degli affari, pur comunque entro un quadro di limiti e verifiche; infine, attiene alla definizione dell’attività investigativa condivisa con la polizia, segnatamente nell’ambito delle risorse umane, economiche e tecnologiche impiegate, nella selezione di mezzi di ricerca della prova più o meno invasivi sulla base della gravità dei reati, nel grado di celerità delle operazioni.
[100] Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e il contrasto alla violenza contro le donne e la violenza domestica, ratificata dall’Italia con L. n. 77/2013.
[101] D.l. 14 agosto 2013, n. 93, recante Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province.
[102] Per quanto interessa in questa sede, si segnala, ad esempio, la previsione del reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi tra quelli per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza ex art. 380, c. 2, lett. l-ter, c.p.p.
[103] G. Forti, «Est modus in rebus». I limiti dell’intervento penale sulle “relazioni ferite” dalla violenza di genere in ambito familiare», cit., p. 180.
[104] G. Forti, La tutela della donna dalla c.d. violenza di genere. L’intervento sulla relazione affettiva in una prospettiva criminologica “integrata” – Il ritmo salutare della prossimità negli interventi a protezione delle vittime di maltrattamenti, pp. 38-39, in O. Fumagalli Carulli – A. Sammassimo (a cura di), Famiglia e matrimonio di fronte al Sinodo. Il punto di vista dei giuristi, Milano, 2015.
[105] Un approccio umanistico che rifugga dal nichilismo e, soprattutto, che muova dallo studio della realtà umana del crimine, concepita come un’entità complessa e connotata da un’inevitabile dinamismo, tale da mettere in moto costantemente i contesti di relazioni con cui entra a contatto, è il solo auspicabile ai fini di una comprensione del fenomeno criminale e di un suo efficace contrasto: evidentemente una simile visione non può che denotare una critica al diritto penale vigente e ai suoi «disumani meccanismi di immobilizzazione e cristallizzazione della realtà umana messi in atto dal controllo e, dunque, dalla “reazione sociale”, formale e informale, al crimine» (Cfr. Id., L’immane concretezza, cit., pp. 273 ss).
[106] Di estrema importanza sarebbe, anzitutto, illustrare alla vittima il quadro personologico o, addirittura, psicopatologico del soggetto a cui è legata, stante la frequente tendenza della parte debole a sottovalutare la gravità della situazione e, spesso, addirittura ad autocolpevolizzarsi al fine di trovare una giustificazione ai comportamenti violenti del proprio partner. In secondo luogo, dimostrata, inoltre, la concreta difficoltà (sia sul piano materiale, sia sul piano psicologico) che la vittima spesso incontra nel prendere le distanze dal soggetto violento con cui intrattiene una relazione, utile sarebbe indirizzarla verso la consapevolezza dei rischi in cui potrebbe incorrere protraendo la relazione con un soggetto abusante e, conseguentemente, fornirle un supporto effettivo sia nella misura di un percorso di sostegno psicologico, sia, eventualmente, orientandola verso Centri Antiviolenza territoriali (sul punto cfr. M. F. Hirigoyen, Le harcèlement moral. La violence perverse au quotidien, Parigi, 1998, tr. it. di M. Guerra, Molestie morali. La violenza perversa nella famiglia e nel lavoro, Torino, 2015, pp. 151 ss.).
[107] Una volta chiarito il quadro diagnostico del soggetto violento, da attuarsi sarebbe un tempestivo protocollo d’intervento sia nella forma della prevenzione sia in quella della rieducazione: qualora si certifichi che il soggetto sia affetto, ad esempio, da un disturbo psichiatrico, che costituisce un pericolo per se stesso o per gli altri e che rifiuta il trattamento volontario, sarebbe da disporre un ricovero ai fini di una più accurata valutazione e predisposizione del trattamento; qualora non sussistano elementi tali da far desumere la sussistenza di una evidente patologia psichiatrica, ma sia stata accertata la commissione di atti di violenza, permarrebbe comunque l’esigenza di avviare il soggetto in percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione e assistenza psicologica (art. 6, L. n. 69/2019); in assenza di una psicopatologia conclamata, di particolare interesse è il c.d. “Trattamento psico-criminologico integrato” che si sostanzia in un programma di trattamento psico-criminologico che integra competenze e conoscenze delle due discipline al fine del riconoscimento e della gestione di comportamenti-reato, promuovendo il riconoscimento e la gestione delle emozioni, lo sviluppo di una maggiore consapevolezza di sé e la costruzione di alternative all’uso della violenza: esso si basa su colloqui individuali volti a una prima valutazione globale del funzionamento cognitivo, emotivo e comportamentale oltre alla personalità del soggetto e a una successiva analisi criminogenetica e criminodinamica tesa a sostenere la persona in un percorso di cambiamento.
[108] H. Arendt, On humanity in dark times: thoughts about Lessing, cit., pp. 24-25, tr. it., L’umanità nei tempi oscuri, cit., p. 7.
[109] G. Forti, «Est modus in rebus». I limiti dell’intervento penale sulle “relazioni ferite” dalla violenza di genere in ambito familiare, cit., p. 177.
[110] G. Jellinek, Die sozialethisce Bedeutung von Recht, Unrecht und Strafe, Wien, 1878, come cit. da F. Viola, in Diritto e morale: una rilettura aggiornata, Assisi, 2015, p. 88.
[111] N. Merker, Filosofie del populismo, Roma-Bari, 2009.
[112] Auspicare a un cambiamento di più o meno radicate ideologie della massa, entro la quale è annoverabile – sine culpa – chiunque si percepisca straniero su quel terreno di studi empirici che dimostrano l’assenza di qualsivoglia spinta dissuasiva nello strumento punitivo, significa educare alla conoscenza di realtà fattuali. La soluzione più immediata e di più agevole comprensione, qui da intendersi nel ricorso a meccanismi afflittivi, evidentemente non è destinata a favorire il conseguimento di obiettivo alcuno: il diritto non si erge a pretesa di attuare una prevenzione del reato, né sotto il profilo culturale né da un punto di vista sociale, ma, sovente, limita il proprio intervento al mero contrasto dell’effetto, dunque trascurando del fenomeno l’eziologia. Recuperato dalla scienza criminologica, il versante dell’indagine causale rappresenta l’unico vero terreno da cui la conoscenza possa germogliare.
[113] G. Ariante, Il Codice Rosso? Un’altra riforma penal-populista inutile e dannosa, in Extrema Ratio Associazione, 2019.
[114] In risposta alle istanze internazionali e, segnatamente, alla Convenzione di Istanbul, il d.l. n. 93/2013 aveva inteso disporre a tutela dei minori d’età, quali soggetti “vulnerabili”, un aggravio sanzionatorio nelle ipotesi in cui l’autore avesse, «nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale e contro la libertà personale, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza».
[115] Come ebbe a dire G. Marinucci, Politica criminale e riforma del diritto penale, 1974, «la migliore politica per la lotta alla criminalità richiede capillari e diffusi interventi nel tessuto sociale».
[116] AIPDP, Progetto di riforma del codice penale parte speciale. Riforma del codice penale in materia di famiglia e formazioni sociali esistenziali, in www.aipdp.it, 2019.
[117] La proposta è di A. Merli, in Progetto di riforma del codice penale parte speciale, cit., pp. 50-56.
[118] La proposta è di A. Roiati, in Progetto di riforma del codice penale parte speciale, cit., pp. 60-62.
[119] Cfr. supra, par. 1.3.1.
[120] Il riferimento suggerito da S. Larizza, in Progetto di riforma del codice penale parte speciale, cit., p. 45, è agli ordinamenti di Francia e Spagna.
[121] Sul punto, cfr. A. Merli, in Progetto di riforma del codice penale parte speciale, cit., pp. 52-53 e A. Spena, in Progetto di riforma del codice penale parte speciale, cit., pp. 57-58.
[122] A. Spena, in Progetto di riforma del codice penale parte speciale, cit., p. 57.
[123] Cfr. supra, par. 1.2.
[124] È appena il caso di puntualizzare, nuovamente, trattarsi dell’orientamento maggioritario – per quanto non unanimemente condiviso –, quello secondo cui è integrato il delitto di maltrattamenti ex art. 572 c.p. anche in assenza di coabitazione tra autore e vittima. Per le osservazioni critiche sul punto, si rimanda comunque al par. 1.2.
[125] La proposta è di A. Merli, in Progetto di riforma del codice penale parte speciale, cit., p. 53.
[126] Cass., sez. VI, 19 maggio 2022, sentenza n. 19839.
[127] Cass., sez. VI, 27 maggio 2013, sentenza n. 22915.
[128] In questo senso, Cass., sez. V, 11 maggio 2022, sentenza n. 36194; Cass., sez. VI, 26 novembre 2021, sentenza n. 7259; Cass., sez. VI, 11 febbraio 2021, sentenza n. 17888; Cass., sez. VI, 6 novembre 2019, sentenza n. 5457; Cass., sez. VI, 25 giugno 2019, sentenza n. 37628; Cass., sez. III, 18 ottobre 2018, sentenza n. 56673; Cass., sez. VI, 28 settembre 2017, sentenza n. 52723; Cass., sez. VI, 20 aprile 2017, sentenza n. 25498; Cass., sez. VI, 8 luglio 2014, sentenza n. 33882; Cass., sez. VI, 7 maggio 2013, n. 23380; Cass., sez. VI, 26 novembre 2021, sentenza n. 7259; Cass., sez. VI, 11 febbraio 2021, sentenza n. 17888; Cass., sez. VI, 6 novembre 2019, sentenza n. 5457; Cass., sez. VI, 25 giugno 2019, sentenza n. 37628; Cass., sez. III, 18 ottobre 2018, sentenza n. 56673; Cass., sez. VI, 20 aprile 2017, sentenza n. 25498; Cass., sez. VI, 8 luglio 2014, sentenza n. 33882; Cass., sez. VI, 7 maggio 2013, sentenza n. 23380.
[129] Così, Cass., sez. VI, 16 marzo 2022, sentenza n. 15883; Cass., sez. VI, 16 febbraio 2022, sentenza n. 10626; Cass., sez. VI, 16 febbraio 2022, sentenza n. 9663; Cass., sez. VI, 1º dicembre 2021, sentenza n. 46097; Cass., sez. VI, 17 novembre 2021, sentenza n. 45095; Cass., sez. VI, 6 settembre 2021, sentenza n. 39532; Cass., sez. VI, 3 novembre 2020, sentenza n. 37077; Cass., sez. II, 23 gennaio 2019, sentenza n. 10222; Cass., sez. VI, 19 maggio 2016, sentenza n. 30704.
[130] A. Merli, in Progetto di riforma del codice penale parte speciale, cit., p. 55.
[131] P. Grossi, Le molte vite del Giacobinismo giuridico. Ovvero: la ‘carta di Nizza’, il progetto di ‘Costituzione europea’ e le insoddisfazioni di uno storico del diritto, Milano, 2005.
[132] Si rinvia al paragrafo 1.2. per le considerazioni svolte sull’evoluzione semantica del concetto di “famiglia”.
[133] S. Romano, Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1983, p. 117, come cit. da I. L. Nocera, in Persona e mercato, in Rivista periodica online, 2020, p. 121.

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