Amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi: cenni storici

Amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi: cenni storici

Sommario: 1. Introduzione – 2. Istituto dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi: evoluzione della disciplina dalla legge Prodi (d.l 26/79) alla Prodi-bis (d.lgs 270/1999)

 

1. Introduzione

Il seguente elaborato ha come scopo quello di illustrare come il legislatore ha delineato il procedimento di apertura dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. Il dissesto delle grandi imprese riveste un rilevante interesse per le ripercussioni sia economiche (in particolare, si pensi agli effetti a catena sull’indotto) sia sociali (si pensi alle conseguenze derivanti dalla perdita di posti di lavoro) che esso comporta. È l’interesse pubblico, per il c.d. allarme sociale che vi è connesso, che giustifica il coinvolgimento della autorità di Governo, ovviamente non insensibile a tali vicende, al fine di salvaguardare gli interessi di tutte le parti coinvolte nel processo di crisi, avendo consapevolezza che tanto più rilevante è la dimensione di un’impresa, tanto più forte è l’impatto sociale della sua crisi sul tessuto pubblico, e di conseguenza, più tempestivo ed immediato deve essere l’intervento dello Stato nella fase di gestione della stessa. L’impatto dell’amministrazione straordinaria nell’ambito della gestione delle crisi d’impresa non è, di fatto, così rilevante sul piano quantitativo: cercheremo di porre in evidenza che si tratta in definitiva di un fenomeno di nicchia, tuttavia, rappresenta comunque un importante strumento di politica industriale.

Nei quindici anni che sono seguiti all’entrata in vigore della Legge Prodi-bis, l’amministrazione straordinaria ha interessato 136 gruppi di imprese e il programma elaborato dai commissari ha trovato esecuzione in circa l’80% dei casi consentendo la continuità produttiva delle aziende e salvaguardando un ingente numero di posti di lavoro.

L’amministrazione straordinaria, di cui si parla nel presente lavoro, è una procedura concorsuale a carattere sia amministrativo sia giudiziale e nel corso degli anni ha subito vari cambiamenti.

In prima battuta il legislatore introdusse la c.d. Legge Prodi, purtroppo non rispondente appieno ai criteri elaborati in sede comunitaria per evitare pratiche distorsive della concorrenza, che ha portato ad una nuova procedura nel 1999, anno in cui viene introdotto il d. Lgs. 270 (c.d. legge Prodi-bis), che recepisce in parte il previgente istituto dell’amministrazione straordinaria ma per certi versi, innovando la precedente disciplina, non essendo passate inosservate le forti critiche, provenienti non solo dalla Commissione europea ma anche dal mondo giuridico. Tramite la procedura di amministrazione straordinaria vengono perseguite finalità ulteriori rispetto a quelle tutelate tramite le procedure concorsuali classiche: come la salvaguardia dei complessi produttivi e del livello occupazionale. Ho inteso limitare l’indagine al procedimento di apertura dell’amministrazione straordinaria, illustrando sia la fase giurisdizionale di osservazione, sia la successiva fase amministrativa.

2. Istituto dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi: evoluzione della disciplina dalla legge Prodi (d.l 26/79) alla Prodi-bis (d.lgs 270/1999)

Il legislatore italiano interviene già alla fine degli anni ’30 del Novecento a sostegno di imprese di grandi dimensioni che vertevano in uno stato di crisi (L. 702 del 1935). Si trattava di interventi statali ma pur sempre occasionali, tanto che nella stessa legge fallimentare del 1942 non si ritrovano particolari riferimenti alle imprese di grandi dimensioni. Successivamente, si iniziò a fare largo uso dell’istituto dell’amministrazione controllata, spesso ammettendo anche imprese senza alcuna chance di risanamento, determinandone di fatto un abuso, poiché in contrasto con il disposto dell’art 187 della legge fallimentare.

Negli anni Settanta a fronte di nuovi dissesti delle imprese italiane, per evitare una serie di fallimenti che avrebbero sicuramente inciso negativamente sull’economia del paese si introdusse nel nostro ordinamento un nuovo istituto: quello dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, una procedura concorsuale riguardante le insolvenze delle grandi imprese commerciali. La crisi di impresa è definita facendo riferimento all’insolvenza, ed è una situazione di minore gravità, rilevando tutte quelle situazioni di instabilità economico-finanziarie che potrebbero sfociare nell’insolvenza ma che ancora non si identificano con la stessa. Per insolvenza si intende invece un concetto statico di incapacità dell’imprenditore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. La disciplina è stata introdotta con il decreto-legge 30 gennaio 1979, n.26 (Provvedimenti urgenti per l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi) convertito con modificazioni dalla legge 03 aprile 1979, n.95 (anche legge Prodi dal nome del suo promotore, l’allora ministro dell’Industria, Romano Prodi). Nasce dall’esigenza di evitare la procedura di infrazione avviata dalla Commissione Europea, ex art 92.3 del Trattato CEE (essenzialmente per gli effetti distorsivi della concorrenza determinati dagli aiuti di Stato che la legge Prodi consente). Le critiche alla legge Prodi sono numeroso per esempio le si rimprovera, fin da subito, di aver predisposto un meccanismo automatico in virtù del quale, l’insolvenza, e la crisi irreversibile, di un’impresa di rilevanti dimensioni comporta di per se stessa l’accesso alla procedura. L’amministrazione straordinaria trova applicazione, quindi, per le imprese insolventi, non già, in virtù delle verificate opportunità di sopravvivenza dei complessi aziendali, bensì, esclusivamente in ragione delle dimensioni del dissesto. Ciò si è tradotto non di rado nello spreco di ulteriori risorse e nell’aggravamento del danno ai creditori, quasi sempre in numero crescente.

La legge nacque alla fine degli anni Settanta, alla conclusione di un decennio caratterizzato da importanti crisi petrolifere, la prima del 1973-74 e la seconda proprio nel 1979, che ebbero delle gravi ricadute sull’economia italiana. La crisi energetica del 1979 vide un brusco rialzo dei prezzi del petrolio nel mercato internazionale a seguito della rivoluzione iraniana di quello stesso anno. L’industria italiana, fortemente dipendente dal petrolio per l’approvvigionamento energetico, e in particolare da quello importato, non potendo essere supportata da un autonomo serbatoio energetico, si trovò a fronteggiare un periodo di importante difficoltà. Negli anni ’70 inizia a diffondersi l’idea che sia necessario sacrificare il principio cardine delle procedure tradizionali, la par condicio creditorum, per salvaguardare la continuità d’impresa e i posti di lavoro, evitando anche la dispersione dell’avviamento. All’interno di questo infausto scenario, si decise di elaborare una legge che prevedesse una procedura alternativa alle soluzioni contenute nel Regio Decreto 16 marzo 1942, n.267, e che consentisse di continuare l’esercizio dell’impresa, evitando il fallimento che avrebbe avuto delle pesanti ricadute sulla già fragile economia del Paese. La crisi d’impresa può avere delle ripercussioni sui vari soggetti con cui è entrata in contatto. Il legislatore con la disciplina dell’amministrazione straordinaria ha voluto da un lato tutelare i creditori sociali e dall’altro garantire, ove ce ne fossero i presupposti, la continuazione dell’attività aziendale e la salvaguardia dei livelli occupazionali. Queste ultime due esigenze sono nuove e ulteriori rispetto a quelle tutelate dalle altre procedure concorsuali previste dalla legge fallimentare del 1942. Il legislatore avverte che la crisi d’impresa può avere dei seri risvolti, non solo nei confronti dei creditori ma anche sull’occupazione, può in definitiva avere un’incidenza sociale. L’impianto delineato dalla legge fallimentare non era in grado di affrontare queste esigenze, tanto più pressanti tanto più l’impresa assumeva grandi dimensioni, si dovette quindi ricorrere alla delineazione di un sistema di procedure speciali e così avvenne nel 1979. La disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi prevedeva un profilo amministrativo, con l’intervento del Ministro dell’Industria e un profilo giurisdizionale con la sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza.

Elemento importante del risanamento era il rifinanziamento dell’impresa, a volte attuato mediante il sistema delle partecipazioni statali, altre volte facendo ricorso alla Cassa Integrazione e Guadagni. Un’importante novità introdotta con la procedura era la previsione di un programma, elaborato dal commissario straordinario, contenente un piano di risanamento dell’impresa che, a norma della legge Prodi, tenesse conto degli indirizzi di politica industriale. Le caratteristiche amministrative sulle quali si basa la procedura sono state oggetto di critica perché sfuggivano pressoché totalmente al controllo del giudice.

La legge Prodi, lungi dal salvaguardare i complessi produttivi, fu oggetto di critiche anche per la disarmonia in essa intrinseca dato il rinvio alle norme sulla liquidazione coatta amministrativa. Le si criticò un eccessivo automatismo per accedervi, in base al solo accertamento dei requisiti dimensionali, che prescindevano da un’effettiva possibilità di risanamento e la continuazione dell’attività, provocava inoltre, il rischio di un amento de creditori sociali. La legge n.95 del 1979 non prevedeva nemmeno l’eventualità di convertire la procedura in fallimento quando la possibilità di conservazione dell’impresa diveniva impossibile. La legge Prodi fu oggetto di modifiche nel corso degli anni, che ebbero come risultato quello di dilatarne i tempi e l’uso per favorire la continuazione dell’attività economica, nonostante le scarse possibilità di recupero, al fine di salvaguardare la posizione dei lavoratori. Questo di certo trovò dei facili alleati nei sindacati e nella classe politica dei luoghi ove erano ubicate.

Di conseguenza, si suggerì di introdurre una fase intermedia proprio per effettuare una valutazione sulle reali possibilità di continuazione dell’attività imprenditoriale. Lo slancio per la riforma venne dalla censura da parte degli organi comunitari che la ritennero lesiva della concorrenza e incompatibile con la disciplina comunitaria degli aiuti di Stato. La Corte di Giustizia della Comunità Europea aveva in particolare censurato il punto che consentiva all’impresa sottoposta ad amministrazione di continuare la propria attività economica in situazioni in cui di norma sarebbe stata esclusa dalla disciplina sul fallimento. Questo la poneva in una posizione di privilegio rispetto sia alle imprese in bonis sia a quelle soggette alla tradizionale procedura fallimentare. Il contrasto era aggravato dal fatto che l’impresa era spesso debitrice di enti pubblici, portando lo Stato a sobbarcarsi un ulteriore onere economico, rinunciando spesso ai propri crediti per favorirne il risanamento. Gli aiuti forniti dallo Stato italiano rispondevano ad esigenze di tutela dei livelli occupazionali più che a effettive possibilità di risanamento. La Commissione europea aprì anche una procedura d’inflazione nei confronti dell’Italia per contrasto con l’articolo 93 paragrafo 2 del Trattato CE. Tra gli articoli oggetto di critica, ritroviamo l’articolo 2-bis della legge n. 26 del 1979, che affermava che il Tesoro dello Stato può garantire in tutto o in parte i debiti che le imprese in amministrazione straordinaria contraggono con istituzioni creditizie per il finanziamento della gestione corrente e per la riattivazione ed il completamento di impianti, immobili ed attrezzature industriali, o l’articolo 5-bis circa le agevolazioni fiscali sui trasferimenti, soggetti ad un’imposta fissa di un milione di lire. Al comma 2 dell’art. 1 leggiamo che l’amministrazione straordinaria deve essere definita come procedura concorsuale conservativa «delle attività aziendali, mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione dell’esercizio». È chiaro che il legislatore individua come prevalente o, meglio, tipizzante l’amministrazione straordinaria, la conservazione, sia questa del solo complesso aziendale o, invece, anche dell’impresa. In verità, nel primo caso la conservazione del complesso produttivo (come ho già anticipato) passa dalla sua liquidazione, se pure unitaria. La norma fa un riferimento preciso ad operazioni che incidono sull’attività, sull’esercizio del- l’impresa e non sul solo complesso aziendale. La prosecuzione dell’esercizio è momento qualificante del «piano» predisposto per il superamento dell’insolvenza.

La gestione di un’impresa insolvente condotta nell’ottica della conservazione o dell’impresa o del complesso aziendale soltanto, è momento estremamente delicato per gli interessi già coinvolti nella crisi e che possono subire un aggravamento del pregiudizio dalla soluzione prescelta. La concorsualità è la regola predisposta dal legislatore atta per evitare tentativi di reciproca sopraffazione da parte di soggetti portatori di interessi tra loro confliggenti. L’ipotesi secondo cui una procedura concorsuale «autonoma ed eccezionale, caratterizzata essenzialmente dal fatto di mirare alla continuazione dell’attività produttiva dell’impresa dissestata, sottraendola a questo scopo all’esito ‘‘naturale’’ del fallimento» costituirebbe sempre e comunque un aiuto di Stato concesso ai beneficiari, idoneo a falsare la concorrenza e vietato dagli artt. 87 e 88 del Trattato CE, non è condivisibile. Per accoglierla si dovrebbe leggere la nozione di « aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma » contenuta nell’art. 87.2 del Trattato di Roma come comprensiva di due ipotesi alternative anziché complementari; occorrerebbe — in altre parole — dimostrare che essa si riferisce anche agli aiuti disposti dallo Stato senza oneri a suo carico, sotto forma di privilegio rispetto al diritto comune, e non soltanto a quelli che gravano sul bilancio pubblico, direttamente o indirettamente (perché erogati da soggetti formalmente autonomi). La giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, pur flessibilmente pragmatica, ha invece da tempo imboccato la via opposta, affermando che solo i vantaggi accordati direttamente o indirettamente con risorse dello Stato sono qualificabili come aiuti.

Con l’attuazione della delega legislativa conferita al Governo dall’articolo 1 della legge 30 luglio 1998, n 274, secondo la quale “il presente decreto legislativo ridisegna l’istituto dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi”, nel 1999 il legislatore introdusse una nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza con d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270. Nonostante si atteggi a riforma dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi regolata dal decreto-legge. 30 gennaio 1979 n.26 e delle leggi che sono successivamente intervenute, modificandolo e integrandolo, in realtà della tradizionale disciplina rimane ben poco. Il d.lgs. 270 del 1999 (“legge Prodi-bis) si colloca al fianco dei tradizionali modelli proposti dal R.D. 16 marzo 1942, n.267, quali il fallimento, la liquidazione coatta amministrativa, il concordato preventivo, ma si distacca dalla logica meramente eliminatoria di un organismo in crisi, cercando di favorire la continuità dei complessi produttivi e il mantenimento dei livelli occupazionali, nei casi di crisi d’impresa che potrebbero avere delle ricadute sociali ed economiche particolarmente allarmanti. La prospettiva del ritorno in bonis appare tuttavia problematica, soprattutto se si considera il presupposto oggettivo della procedura di amministrazione straordinaria: lo stato di insolvenza, vale a dire, la condizione irreversibile di impossibilità ad adempiere. Bisogna precisare che il riferimento all’impresa insolvente, la legge presuppone la compatibilità dei fattori, apparentemente incompatibili, dell’insolvenza con la prospettiva del ritorno in bonis. È la stessa contraddizione che stava alla base della riformando legge Prodi. Lì, rimaneva inespressa, non trovando spazio nel testo di legge, emerge in questa seconda con evidenza.

Dopo vent’anni dall’introduzione nell’ordinamento dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, il legislatore è intervenuto ancora una volta sul tema del dissesto delle grandi imprese, non solo abrogando la previgente normativa, ma introducendo per la prima volta una sola procedura flessibile, che prevede anche l’articolazione in diversi subprocedimenti, a loro volta caratterizzati da diverse finalità, come quella conservativa o di liquidazione. Una disciplina che per certi versi ricorda quella introdotta con il d.lgs 270/1999 era già entrata nell’ordinamento francese, con una riforma del 1985, seguita da un‘ulteriore riforma nel 1994. Tuttavia, in Italia, la normativa si riferisce ad un ambito maggiormente limitato rispetto alle esperienze estere, ossia alle sole grandi imprese. Quelle imprese che non sono caratterizzate dal requisito dimensionale non sono ricomprese in questa normativa.

Il significato del privilegio legislativo per una procedura amministrativa dell’insolvenza rispetto alla procedura giurisdizionale del fallimento, con le garanzie ad essa proprie, non risiede, a mio avviso, nelle ragioni che, nella legge fallimentare del 1942, hanno portato a una generale impostazione pubblicistica delle procedure concorsuali, con la sostanziale eliminazione del ruolo dei creditori o la loro forte compressione nelle procedure minori, e, in questo quadro, hanno condotto alla generalizzazione della liquidazione coatta amministrativa come procedimento amministrativo della crisi delle imprese. La ragione è piuttosto che una gestione amministrativa dell’impresa, anche della impresa insolvente e pure nella fase liquidatoria di essa, garantisce, più che una procedura giurisdizionale tipicamente posta a garanzia di posizioni giuridiche soggettive, tempi accettabili nelle attività di accertamento del passivo, non cadenzate dai ritmi temporali delle udienze giudiziarie, e soprattutto maggiore efficienza nelle attività di gestione e di liquidazione, grazie all’attribuzione di larghi poteri al commissario liquidatore, che non è un organo esecutivo rispetto a un soggetto cui appartenga la direzione della procedura, ma è investito congiuntamente dei poteri del curatore e del giudice delegato. significa che la rinnovata amministrazione straordinaria ha una finalità essenziale profondamente diversa da quella perseguita con la legislazione del 1979, volta alla conservazione dell’impresa insolvente ai fini della tutela dei posti di lavoro. La nuova disciplina tende invece a realizzare la ricollocazione sul mercato dell’impresa o almeno dei suoi rami vitali, secondo l’indirizzo alternativo (e quindi, da solo, sufficiente) della cessione a terzi dei complessi aziendali.

Il primo articolo del d.lgs. n. 270/1999, con il quale l’istituto è stato riformato, si preoccupa di rendere espliciti le finalità e il campo di operatività della nuova procedura in conformità al principio direttivo contenuto nell’art.1, comma 2, lett. a) della legge-delega 10 luglio 1998, n.274. La rilevanza della specifica norma a commento è resa esplicita da un passaggio dea Relazione al decreto legislativo n.270/1999 in cui si sottolinea che le disposizioni generali contenute nei primi due articoli sono state attentamente ponderate in vista della loro destinazione a fungere da “chiave di lettura dell’intero corpus normativo”. L’articolo 6-ter della legge n.26 del 1979 (Durata di applicazione) affermava che le disposizioni del presente decreto si applicano sino all’entrata in vigore di una nuova legge di riforma del regime delle società.  La legge Prodi-bis si caratterizza anche per una maggiore analiticità della disciplina, vi sono centodieci articoli, mentre nella precedente legge Prodi, ve ne sono sette. Ed è qualificata come procedura concorsuale, ossia. Volta alla soddisfazione dei creditori per via di tutela esecutiva concorsuale e con ciò condizionata alla sussistenza di pretese creditorie verso l’impresa anteriori all’apertura della procedura.

Si distacca inoltre dal forte rinvio alle norme sulla liquidazione coatta amministrativa, che mantengono un carattere solo residuale. La nuova legge permette, solo in seguito all’esito positivo della fase diagnostica da parte di un commissario giudiziale, che si possa accedere alla procedura. Il possesso dei requisiti dimensionali diviene condizione necessaria ma non più sufficiente per accedervi. Devono sussistere reali prospettive di risanamento, come previsto dall’articolo 27. Si viene così a superare il criticato automatismo d’accesso della legge Prodi, sostituito da una più puntuale selettività di modo da contemperare l’interesse conservativo con la circoscrizione ai soli casi meritevoli.

Il maggiore elemento di novità è stato introdurre il sistema del c.d. doppio binario, in base al quale dopo la dichiarazione dello stato di insolvenza si apre la fase diagnostica che può concludersi o con apertura dell’amministrazione o con dichiarazione di fallimento. Nel suo pianto generale la nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria rappresenta dunque, un sensibile miglioramento del sistema di tutela del ceto creditorio. Una particolare attenzione sembrerebbe dedicata ai crediti dei fornitori (art. 1 lett. a), ma non si comprende come sul terreno della tutela, possa essere fatta distinzione tra creditori fornitori e i creditori finanziari, senza che si determini un’alterazione delle regole della par condicio. L’accesso è stato reso, così, più selettivo rispetto alla procedura precedente del 1979 in quanto si riserva alle sole imprese con effettive possibilità di risanamento, e con un piano di risanamento già delineato. La procedura è stata inoltre armonizzata con i criteri comunitari per superarne le censure. I creditori vengono maggiormente tutelati, poiché il tribunale può convertire la procedura in fallimento se vengono meno i presupposti per la continuazione della procedura di amministrazione straordinaria. Nelle procedure concorsuali tradizionali il concetto di impresa come entità dinamica caratterizzata da un nucleo organizzativo come elemento fondante veniva posto in secondo piano. Tant’è che l’istituto stesso del fallimento, risalendo al Medioevo, era stato pensato per avere come protagonista una persona fisica che svolgesse un’attività economica. Con il tempo e la diffusine delle società commerciali, non si assistette inizialmente ad una modifica della disciplina ma ad un’assimilazione di queste ultime ai commercianti persone fisiche. Questa impostazione la ritroviamo anche nella legge fallimentare del 1942. È centrale, nell’amministrazione straordinaria, e da considerarsi come punto di svolta rispetto al passato, proprio la considerazione legislativa autonoma dell’impresa. Questa non viene più vista, semplicisticamente, come una componente del patrimonio dell’imprenditore commerciale, ma assume una rilevanza giuridica a sé stante. La dottrina ha parlato a proposito di oggettivazione del diritto fallimentare. Infatti, nell’amministrazione straordinaria, le sorti dell’impresa e dell’imprenditore possono essere diverse. Può essere che l’impresa venga risanata mentre l’imprenditore perda tutto, così come entrambi possono soccombere con il fallimento dell’imprenditore. Nell’amministrazione straordinaria, l’impresa rileva, appunto anche come complesso organizzativo non solo di beni ma anche di persone. I lavoratori vengono tutelati non solo come creditori dell’imprenditore insolvente, ma anche come componente attiva e imprescindibile dell’impresa, tentando di mantenere intatti i livelli occupazionali. L’evoluzione del diritto fallimentare e delle procedure d’amministrazione come emerge dal d.lgs. 270/99, ha finalità conservativa dei complessi produttivi. Nel 2003 il crack Parmalat ha portato il Governo ad approvare un decreto-legge n.347 recante, “Misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza”, (c.d. Decreto Marzano, poi convertito, con modifiche, dalla legge 18 febbraio 2004, n.39). Introdusse una disciplina che mirava al risanamento delle imprese che versavano in un grave stato di crisi, prevedendo un piano di ristrutturazione e favorendo la continuazione dell’attività aziendale, riducendo inoltre la giurisdizionalizzazione della procedura a favore del potere amministrativo. La disciplina delineata dalla legge Prodi-bis non era in grado di far fronte a quei casi gravi di insolvenza, con ricadute sull’economia nazionale. Se da un lato la crisi delle imprese di rilevanti dimensioni vedrà una maggiore attenzione per i creditori, resta, tuttavia, confermato l’indirizzo di fondo ad affidare la gestione della crisi all’autorità amministrativa. Se poi si riflette che la soglia minima per l’applicazione della nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria è stata abbassata al punto tale da consentire di definire grande “impresa commerciale insolvente”, imprese che secondo le regole comunitarie, addirittura consentirebbero l’applicazione delle norme sulle piccole imprese. Se ne conclude che nel futuro, la gestione di una qualsiasi crisi di qualche rilevanza e per la quale si intraveda la concreta possibilità di collocazione sul mercato, verrà affidata alla gestione amministrativa. Di conseguenza, la nostra diversità nel panorama europeo è destinata ad accentuarsi.


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Silvia Mallamaci

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