Dalla “Roe v. Wade” alla “Dobbs v. Jackson”.  Aborto in Usa: storia di un processo al contrario

Dalla “Roe v. Wade” alla “Dobbs v. Jackson”. Aborto in Usa: storia di un processo al contrario

È ormai di dominio pubblico la sentenza shock di pochi giorni fa con cui la Corte Suprema Americana ha posto fine a quasi 50 anni di garanzie costituzionali per l’aborto.

Qualcuno dirà che era nell’aria da tempo, altri diranno che è il risultato di anni di politica scellerata e fortemente conservatrice.

In realtà in America la questione dell’aborto, anche considerata l’importante presenza delle comunità cristiane, è una questione, se possibile, più scottante di quanto lo sia in altri Paesi.

Proprio per questo, la cronologia e la contestualizzazione degli eventi in materia di aborto negli Stati Uniti appare fondamentale per comprendere al meglio come si sia arrivati ad una sentenza che, in sostanza, rischia di avere effetti catastrofici dal punto di vista della tutela dei diritti civili e dell’ordine pubblico.

Occorre partire da un presupposto fondamentale: in America non esiste una legge sull’aborto e, nella Carta costituzionale dei diritti fondamentali, non è presente alcun emendamento che garantisca alla donna il diritto di abortire.

Tutto ciò stupisce ma fino ad un certo punto, dato che il diritto degli Stati Uniti si basa storicamente sul common law, cioè su quell’ordinamento giuridico basato maggiormente a sua volta sui precedenti giurisprudenziali; a differenza dei sistemi di civil law (come quello italiano), derivanti dal diritto romano, che si caratterizzano per la centralità di leggi ed altri atti normativi di organi politici.

Con riferimento al caso che ci occupa, c’è da dire che questo tiene il banco negli Stati Uniti da un tempo molto precedente a quello in cui si è stagliata la sentenza che è stata annullata qualche giorno fa.

Infatti, fin dagli anni ’30 molti Stati hanno realizzato di avere a che fare con un grosso problema sociale, dato che molte donne stavano riuscendo ad ottenere aborti illegali che, proprio perché illegali, non venivano eseguiti correttamente e, di conseguenza, provocavano gravi malattie o addirittura morte nelle donne che decidevano di sottoporsi clandestinamente all’interruzione della gravidanza.

Fu proprio allora che certi Stati decisero di liberalizzare le leggi sull’aborto per cercare di offrire alle donne la possibilità di un aborto sicuro.

Fu un gruppo di medici cattolici che per primo cominciò ad opporsi seriamente a questa liberalizzazione dell’aborto, ed il motivo per cui lo fecero era perché secondo la visione cattolica del mondo, quest’ultimo è basato sul diritto naturale e, quindi, di conseguenza, la vita inizia al momento del concepimento, ragion per cui eseguire un aborto non sarebbe diverso dall’uccidere un essere umano al di fuori del grembo materno.

Decisivo per arrivare alla storica sentenza “Roe v. Wade” fu l’apporto del movimento femminista attivo tra gli anni ’60 e ’70, che aveva come uno dei suoi obiettivi principali, quello della legalizzazione su vasta scala dell’aborto dato che, in quegli anni ruggenti, le donne consideravano legittimamente che il diritto a disporre liberamente del proprio corpo fosse essenziale ai fini della loro uguaglianza con gli uomini e che, l’accesso libero all’aborto era necessario per tale uguaglianza.

Nel frattempo alla causa dei conservatori, preoccupati su cosa avrebbe significato una liberalizzazione dell’aborto, si aggiunse anche la corrente dei cristiani evangelici che riteneva che l’accesso libero all’aborto avrebbe messo la parola fine alla moralità di un Paese che, in quell’epoca, veniva da loro considerata già in forte declino.

In questo clima, l’arrivo di una controversia avente come oggetto l’aborto era solo una questione di tempo. E infatti, la famosa “Roe v. Wade” non arrivò come un fulmine a ciel sereno.

Nel 1965, infatti, ci fu una sentenza fondamentale anche ai fini della Roe v. Wade, la c.d. “Griswold v. Connecticut”, con cui si affermava che le coppie sposate avevano il diritto di usare la contraccezione con una prescrizione medica, contrariamente ad una legge del Connecticut che vietava tali usi contraccettivi. Questa controversia, ha avuto come passaggio successivo nel 1972 la c.d. “Eisenstadt v. Baird” che, invece, riguardava l’estensione del diritto all’uso della contraccezione oltre che alle coppie sposate, anche alle donne single.

La sentenza Griswold è cruciale poiché affermava per la prima volta, sulla scia di quanto previsto dal 14° emendamento della Carta Costituzionale (…Nessuno Stato potrà privare qualsiasi persona della vita, della libertà o della proprietà senza un processo nelle dovute forme di legge; né negare a qualsiasi persona sotto la sua giurisdizione l’eguale protezione delle leggi…), l’esistenza di un diritto alla privacy e di alcuni diritti fondamentali che il legislatore non può togliere arbitrariamente senza violare quella che in America viene indicata come “Due Process Clause”.

La controversia Roe v. Wade è stata la prima in materia di aborto che è arrivata dinnanzi alla Corte suprema ma, in quello stesso periodo, in diversi Stati aventi culture e pensieri tra di loro agli antipodi, arrivarono all’attenzione dei giudici diverse controversie simili, come la “People v. Belous”, la “Doe v. Bolton”, la “Able v. Markle” e la “Abramovich v. Lefkowitz”.

La Roe v. Wade però era una controversia particolare, dato che la donna in questione era una donna con un passato particolare, marcato a fuoco da violenze e soprusi familiari e, soprattutto, che la legge “incriminata” del Texas era forse la legge anti-aborto più severa di America, poiché anche ad una vittima documentata di stupro o di incesto non era permesso abortire.

Non c’era nulla di urgente in realtà per la donna dato che, nelle more della decisione, il bambino era nato.

Quello che portò realmente avanti la controversia era la voglia di affrontare e regolare finalmente una questione vitale per le sorti di tante donne, oltre che per quella dei diritti civili.

Il verdetto dei giurati fu netto e non lasciò spazio a recriminazioni, 7 a 2.

Secondo la Corte suprema degli Stati Uniti d’America “…La clausola di giusto processo del XIV emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America concede un fondamentale diritto alla riservatezza che protegge la libertà di una donna incinta di abortire il suo feto. Questo non è diritto assoluto e deve essere bilanciato con le leggi del governo a proteggere la salute prenatale del feto. Le leggi del Texas che rendono un crimine abortire violano questo diritto…”.

Come ben si può intendere, decisivo per questa decisione storica è stato proprio quel diritto alla privacy che delineò le sorti della sentenza Griswald, e successivamente della sentenza Eisenstadt, cioè: tutti hanno diritto a prendere decisioni fondamentali per la loro vita senza che qualcun altro, fra cui il governo, incida su queste.

In altre parole, il diritto alla privacy di decidere sull’uso dei contraccettivi in un contesto, come il matrimonio, considerato (anche e soprattutto dai cristiani) sacro, si estendeva anche alla decisione se partorire figli o meno.

Con la stessa sentenza Roe, i giudici tuttavia riconobbero che bisognava trovare un equilibrio tra il diritto assoluto di una donna alla privacy e il potenziale interesse dello Stato nella vita del bambino. Pertanto, la decisione offriva delle restrizioni diverse basate sul trimestre di gravidanza: nel primo trimestre gli Stati non potevano in alcun modo limitare l’aborto; nel secondo trimestre di gravidanza gli Stati potevano apportare restrizioni solo e soltanto se legate alla salute materna; nel terzo trimestre potevano vietare del tutto l’aborto tranne che nei casi in cui la vita della madre era in pericolo.

Come sicuramente già sapete, la sentenza “Dobbs v. Jackson Women’s Healt Organization” di pochi giorni fa ha annullato tutto ciò, confermando la legge del Mississipi che proibisce l’interruzione di gravidanza dopo 15 settimane.

Così recita l’opinione del caso “The Constitution does not confer a right to abortion; Roe v. Wade, and Planned Parenthood of Southeastern Pa v. Casey, are overruled; the authority to regulate abortion is returned to the people and their elected representatives”.

Niente più diritto alla privacy con riferimento all’aborto, sentenza precedente annullata, ora i singoli Stati sono liberi di introdurre divieti o restrizioni all’aborto.

E ora cosa succede? Non c’è tantissimo da dire, forse basta riprendere quello che era il contesto prima della sentenza Roe, perchè probabilmente, se le cose non cambiano, è lì che si tornerà.

Per il resto, la situazione al momento è in fermento, il clima non è disteso e la gente si è già riversata sulle strade per protestare. Ma, soprattutto, 13 Stati hanno già le c.d. “trigger laws”, cioè divieti non ancora applicati che dovrebbero entrare in vigore nell’arco di 30 giorni.

In Missouri e Texas i divieti sono attivi fin da subito.

Il sindaco di New York ha riferito che le donne che vogliono abortire saranno sempre benvenute nella Grande mela.

Con tutta la gratitudine che si può riconoscere al nuovo Sindaco di New York, una prospettiva in cui, come in un film premio Oscar di qualche anno fa, le donne girano per l’America con un “Green book” su cui sono segnati gli Stati dove è possibile abortire, non è di certo confortante.

Ironia della sorte, quel film, in cui il pianista di colore andava su e giù per l’America in cerca di Motel dove il razzismo non era di casa, era ambientato proprio agli inizi degli anni ’60.

Praticamente, in materia di aborto, pochissimi anni fa, dato che da qualche giorno a questa parte si possono considerare gli ultimi 50 anni come una specie di tregua o comunque come qualcosa che adesso è stato annullato da una decisione che ci rende testimoni, seppur da lontano, di un paradossale viaggio all’indietro.


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Pietro Boccuni

Laureato in Giurisprudenza al Dipartimento Jonico dell'Università degli studi di Bari con votazione di 110/110 e lode. Tirocinante ex art. 73 D.L. 69/13 presso la sezione GIP/GUP del Tribunale di Taranto. Praticante Avvocato.

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