Il mobbing configura maltrattamenti in famiglia in caso di lavoro subordinato para-familiare

Il mobbing configura maltrattamenti in famiglia in caso di lavoro subordinato para-familiare

La Suprema Corte con sentenza n. 7639/2017, emessa dalla Sezione II Penale, in tema di  maltrattamenti in famiglia ha sancito il principio di diritto secondo il quale le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cd. mobbing) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para – familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra (rapporto supremazia – soggezione), dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, e come tale destinatario, quest’ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo.

Tale principio è stato stabilito in riforma della sentenza della Corte di Appello di Torino che, decidendo a seguito di un primo rinvio disposto dalla Cassazione, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Torino, sezione distaccata di Chivasso, rideterminava la pena inflitta ad datore di lavoro per maltrattamenti continuati (in concorso con la propria figlia) nei confronti di una dipendente della propria azienda.

Nel caso di specie, ciò che si lamentava era proprio la violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 572 c.p. stante la ritenuta insussistenza del presupposto per l’applicabilità del reato de quo: il rapporto di para-familiarità.

Tale rapporto, invece, veniva ravvisato dalla Corte d’Appello avuto riguardo alle “dinamiche relazionali in seno all’azienda” sulla base delle prerogative dirigenziali del datore di lavoro il quale che si assumeva prendere in assoluta autonomia tutte le decisioni concernenti i lavoratori, essere fin troppo presente in azienda impartendo direttamente disposizioni ai dipendenti ed essendo a conoscenza di alcuni aspetti della vita privata dei dipendenti e della parte civile in particolare, la quale si trovava, così, in condizione di subordinazione in quanto, nonostante i tentativi di far valere i suoi diritti, non è stata riassegnata alle originarie mansioni ed è stata demansionata.

Invero, la Suprema Corte afferma in sentenza come la circostanza del comprovato diretto coinvolgimento del datore di lavoro nell’azienda di piccole dimensioni, attraverso le condotte descritte (assunzione di tutte le prerogative aziendali, adozione in autonomia assoluta di tutte le decisioni concernenti i lavoratori, presenza quotidiana in azienda, imposizione diretta degli ordini ai dipendenti), non configura, per ciò solo, una comunità para-familiare, idonea ad attrarre alla sfera dell’illiceità penale le eventuali condotte vessatorie poste in essere dal datore di lavoro.

Inoltre, l’assidua comunanza di vita deve tradursi, affinché sia validamente contestato e configurato il reato di cui all’art. 572 c.p., non in una generica presenza nel luogo di lavoro, bensì in una stretta ed intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente caratterizzata dalla condivisione di tutti i momenti tipici del contesto familiare (quali ad esempio, il consumo comune dei pasti, il pernottamento nei medesimi luoghi, la costante ed assidua vicinanza fisica, il mutuo soccorso, la solidarietà morale, la confidenzialità).

La Cassazione prosegue nella puntuale disamina, soffermandosi, in particolare, anche con riferimento alla mera conoscenza di particolari della vita privata della lavoratrice, evidenziando che trattasi di elemento di carattere non decisivo ai fini della prova della para-familiarità in ambito lavorativo, in quanto detta conoscenza potrebbe derivare da ragioni legate al rapporto di lavoro in presenza di dati, lato sensu, sensibili che il lavoratore è tenuto a riferire al datore di lavoro (per permessi, malattia, reperibilità, variazioni d’orario) ovvero perché la confidenza potrebbe essere oggetto di un narrato estemporaneo rivelato in modo del tutto scollegato da ogni altro contesto.

Dunque, secondo la giurisprudenza di legittimità, la modulazione di tale rapporto, deve comunque essere caratterizzata dal tratto della “familiarità”, poiché è soltanto nel limitato contesto di un tale peculiare rapporto di natura para-familiare che può ipotizzarsi, ove si verifichi l’alterazione della sua funzione attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti.

La II Sezione individua infatti, in via esemplificativa di rapporto para-familiare, il rapporto che lega il collaboratore domestico alle persone della famiglia presso cui svolge la propria opera o a quello che può intercorrere tra il maestro d’arte e l’apprendista. L’inserimento di tale figura criminosa tra i delitti contro l’assistenza familiare si pone in linea con il ruolo che la stessa Costituzione assegna alla famiglia, quale società intermedia destinata alla formazione e all’affermazione della personalità dei suoi componenti, e nella stessa prospettiva ermeneutica devono essere letti ed interpretati soltanto quei rapporti interpersonali che si caratterizzano, al di là delle formali apparenze, per la loro natura para-familiare.

Occorre altresì evidenziare che, se da un lato, è vero che l’art. 572 c.p., ha “allargato” l’ambito delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello strettamente endo-familiare, è pur vero, dall’altro lato, che la relativa fattispecie incriminatrice è inserita nel titolo dei delitti in materia familiare ed espressamente indica nella rubrica la limitazione alla famiglia ed ai fanciulli, sicché non può ritenersi idoneo a configurarla il mero contesto di un generico rapporto di subordinazione/sovraordinazione.

Da qui la ragione dell’indicazione del requisito della para-familiarità del rapporto di sovraordinazione, che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità. Se così non fosse, ogni relazione lavorativa caratterizzata da ridotte dimensioni e dal diretto impegno del datore di lavoro dovrebbe, per ciò solo, configurare una sorta di comunità (para)familiare, idonea ad imporre la qualificazione, in termini di violazione dell’art. 572 c.p., di condotte che, pur di eguale contenuto, ma poste in essere in un contesto più ampio, avrebbero solo rilevanza in ambito civile con evidente profilo di irragionevolezza del sistema.


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