Il recesso del socio di s.r.l alla luce della natura personalistica della società e della buona fede integrativa

Il recesso del socio di s.r.l alla luce della natura personalistica della società e della buona fede integrativa

La vicenda, sottoposta al vaglio della Prima sezione della Corte Suprema di Cassazione e decisa con la sentenza numero 28987 del 12/11/2018, concerneva un ricorso presentato da una società s.r.l., al fine di accertare l’illegittimità del recesso esercitato da due suoi soci, a seguito della delibera assembleare di trasformazione della suddetta s.r.l. a s.p.a. 

L’aspetto problematico del caso in esame era di comprendere quale fosse la disciplina applicabile nel caso in cui né l’atto costitutivo,   lo statuto di una società determinassero le modalità ed i termini dell’esercizio del diritto di recesso del socio.

La ricorrente contestava la decisione dalla Corte d’Appello di Messina, perché, da un lato, non era stata applicata la disciplina del recesso prevista per la società risultante dalla trasformazione. E, dall’altro lato, per ché non era stata rispettata la comune intenzione delle parti contraenti, la quale doveva invece essere ricercata facendo riferimento al periodo in cui la società fu costituita, vale a dire quando il diritto di recesso del socio della s.r.l. era regolato dall’art. 2437, secondo comma, c.c., vecchio testo, previsto per le s.p.a., che imponeva per il suo corretto esercizio, il rispetto del termine di quindici giorni dalla data di iscrizione dell’atto di trasformazione nel registro delle imprese.

La Corte d’Appello di Messina, al fine di dirimere la questione in esame, aveva adottato come fondamento quanto espresso nella sentenza della Corte di Cassazione n. 9662 del 22 aprile del 2013. In essa si riteneva necessario applicare, in modo estensivo, il regime giuridico dell’esercizio del diritto di recesso previsto per le s.r.l. a durata indeterminata, stabilito all’art. 2473, secondo comma, c.c., ogniqualvolta lo statuto della società a responsabilità limitata prevedesse un termine finale di vita eccessivamente lungo, non “razionalmente collegato” al progetto imprenditoriale che ne costituiva l’oggetto. La ragione di tale scelta era finalizzata a privilegiare la tutela al diritto al disinvestimento della quota, rispetto alla tutela del capitale sociale. 

I giudici della Prima sezione della Suprema Corte, però, con la sentenza n. 28987/2018, decidono di risolvere la questione in maniera differente. 

Precisano anzitutto che la disciplina applicabile in caso di trasformazione di una società, non può che essere quella prevista per la società ante trasformazione, essendo chiaro sul punto l’art. 2473 c.c., quando stabilisce che: “in ogni caso, il diritto di recesso compete ai soci che non hanno consentito al cambiamento dell’oggetto o del tipo di società […]”.

Per risolvere le altre questioni, i giudici decidono di ricordare come la disciplina della società a responsabilità limitata sia stata fortemente condizionata dalla riforma attuata con il d. Lgs. n. 6 del 17 gennaio 2003. Tale riforma è stata infatti talmente rilevante da mutare la natura stessa della s.r.l. Prima dell’intervento legislativo, la s.r.l. veniva considerata come la “sorella minore” della s.p.a., ma attualmente  non è più così: essa deve essere considerata come qualcosa di assolutamente distinto, ossia “come una società personale la quale, pur godendo del beneficio della responsabilità limitata […], può essere sottratta alle rigidità di disciplina richieste per le società per azioni” (relazione illustrativa al d.lgs. n. 6/2003), proprio per l’autonomia di cui godono i suoi soci. Già nella testé citata sentenza della Cassazione n. 9662 del 2013, veniva enunciato il proposito del legislatore della riforma: volto alla semplificazione della gestione e dell’esercizio dell’impresa affidata alla s.r.l. e, nello specifico, a facilitare l’esercizio del diritto di recesso del socio, al fine di tutelare maggiormente le esigenze della minoranza. Ma, i giudici della Prima sezione, con la sentenza n. 28987/2018, scelgono di rimarcare la natura personalistica della s.r.l., richiamando altresì, nel loro ragionamento, una recente pronuncia della Cassazione, mediante la quale, sulla base della natura personalistica, si giunse a  riconoscere il diritto al socio-amministratore, di ricevere notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare i libri ed i documenti relativi alla gestione societaria compiuta dagli amministratori, cui egli non abbia in tutto o in parte partecipato, così come previsto dall’art. 2476, secondo comma, c.c. (Cass. 2038/2018)

Grazie alla riforma, e a dimostrazione della nuova natura riconosciuta alla s.r.l., il socio, intenzionato a recedere, ha la facoltà di avvalersi, oltre che delle cause previste ex lege, anche di cause nuove e distinte, da prevedersi nello statuto o nell’atto costitutivo. Un’autonomia statutaria decisamente valorizzata anche dalla scelta del legislatore di anteporre, nella disposizione dell’art. 2473 c.c., le cause convenzionali a quelle legali.

Quando però né l’atto costitutivo né lo statuto di una s.r.l. prevedano le modalità o i termini di esercizio del diritto di recesso, l’interprete, nel silenzio dell’art. 2473 c.c., non potrà ricorrere al criterio dell’analogia legis ex art. 12 delle Preleggi, poiché violerebbe il dovere di buona fede in senso oggettivo e di correttezza ai sensi dell’art. 1375 c.c. Dovrà invece essere rispettoso dello spirito della riforma e riconoscere che un’applicazione analogica della norma stabilita all’art. 2437 bis c.c. (norma che attualmente disciplina i termini di recesso per le s.p.a.) sarebbe in malam partem. E quindi sarà tenuto ad applicare i principi propri del diritto comune, riguardanti l’interpretazione e l’esecuzione del contratto secondo buona fede ex art. 1366 e 1375 c.c.; principi che operano altresì come fonte di integrazione contrattuale ex art. 1374 c.c.

E’ infatti ormai una concezione pienamente condivisa, tanto in giurisprudenza (v. Cass. 3351/1996; 4598/1997; 11004/2006; 15669/2007; 12563/2014), quanto in dottrina, quella che considera la buona fede esecutiva come fonte di integrazione del contratto, e che trova altresì riconoscimento a livello sovranazionale  sia all’articolo 4: 109 dei Principles of European Contract Law, sia all’art. 3.2.7 par. 2 dei Principi Unidroit, e sia all’art. II 9:101, paragrafo 2.c, del Draft Common Frame of Reference. In base alla buona fede integrativa, deve essere preteso “a ciascuna parte l’adozione di comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere del neminem laedere, senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell’altra parte” (Cass. 15669/2007).

Nel caso in esame, quindi, al fine di valutare la congruità del termine dell’esercizio del diritto di recesso, dovrà effettuarsi un bilanciamento tra le esigenze di certezza della società e quelle dei soci di minoranza. Detto in altri termini, il recesso non dovrà avvenire né in un momento troppo posticipato dalla causa che lo legittima, per non comprometterne la riconducibilità ad essa, né troppo prossimo, affinché non divenga eccessivamente oneroso per il recedente. Sarà poi compito del giudice valutare la congruità o meno del suddetto termine, tenendo in considerazione di volta in volta le modalità concrete di esercizio e la pluralità degli interessi coinvolti.

Il ricorso al criterio della buona fede è ulteriormente utilizzato dai giudici nella sentenza in esame per dirimere la questione riguardante la disciplina applicabile ratione temporis. Infatti, anche se la società fu costituita in un momento in cui era pacifica l’applicazione della normativa delle s.p.a. per le s.r.l., sulla base del rinvio contenuto nel previgente art. 2494 c.c., ad avviso dei giudici tale aspetto non può considerarsi sufficiente da permettere di desumere, in via interpretativa, l’univoca volontà delle parti di assoggettarsi a quel richiamo normativo. Ed è proprio nel silenzio dell’atto costitutivo e dello statuto, e, soprattutto, in ragione della riforma che ha interessato la società a responsabilità limitata, che non può ammettersi un sistema interpretativo delle clausole statutarie esclusivamente fondato su un modello legale non più applicabile.

In considerazione di quanto esposto, con la sentenza in esame, i giudici hanno ritenuto fondamentale esprimere il seguente principio di diritto: “anche in caso di trasformazione da società a responsabilità limitata a società per azioni, la disciplina del diritto di recesso applicabile ai soci a seguito della trasformazione è quella dettata dall’art. 2473, primo comma, c.c. per le s.r.l., che non prevede termini di decadenza. Pertanto, in detta ipotesi, il diritto di recesso del socio di s.r.l. trasformata in s.p.a. va esercitato nel termine previsto nello statuto della s.r.l., prima della sua trasformazione in s.p.a., e, in mancanza di detto termine, secondo buona fede e correttezza, dovendo il giudice del merito valutare di volta in volta le modalità concrete di esercizio del diritto di recesso e, in particolare, la congruità del termine entro il quale il recesso è stato esercitato, tenuto conto della pluralità degli interessi coinvolti.”


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