Smart working: obblighi del datore alla luce del DPCM del 3 novembre 2020

Smart working: obblighi del datore alla luce del DPCM del 3 novembre 2020

L’art. 5 co.6 del DPCM del 3 nov 2020 raccomanda “fortemente” ai datori di lavoro privato, il ricorso allo smart working, restando escluse, per ovvie ragioni, le attività che per caratteristiche proprie, devono necessariamente svolgersi presso il luogo di lavoro.

La disciplina giuridica rinvenibile anzitutto all’art. 2087 cod. civ. impone al datore di lavoro di adottare qualsiasi misura utile a prevenire sia i rischi insiti nel luogo di svolgimento delle mansioni sia i rischi esterni connessi al luogo di lavoro.

Il datore di lavoro è responsabile dei rischi professionali propri della particolare attività e di quelli impropri, afferenti lo svolgimento della prestazione lavorativa.

Il rischio connesso all’esecuzione della mansione può derivare dal numero elevato di persone presenti sul luogo di lavoro nonché dall’uso di mezzi pubblici di trasporto qualora fosse indispensabile per il raggiungimento del posto di lavoro.

Tra i pericoli ravvisabili in “occasione del lavoro”, infatti, sono ricompresi quelli derivanti dalle attività complementari ed accessorie in rapporto di occasionalità necessaria con essa.

Durante l’emergenza in atto, in ragione della quale è stata implementata la logica della rarefazione delle presenze sui posti di lavori, assume ancor più rilevanza il rischio generico derivante dall’utilizzo dei mezzi pubblici di trasporto, che muta in “rischio generico aggravato”, a cui il prestatore è esposto in ragione della necessità di eseguire “in presenza” la propria prestazione.

Da tempo, la giurisprudenza di legittimità ha elaborato il principio per cui è rilevante in ogni caso lo “scopo” dello spostamento del lavoratore, a prescindere dal mezzo (pubblico o privato) di trasporto e dalla strada percorsa.

A tal proposito è utile fare riferimento alla Nota alla sentenza della Corte Suprema di Cassazione n. 5063/2000, elaborata dal prof. Marco Gambacciani secondo cui “ (…) ogniqualvolta l’utilizzo della pubblica strada sia imposto dalla mera necessità di raggiungere il posto di lavoro si configura un rapporto finalistico- strumentale tra l’attività di spostamento e quella lavorativa, che non richiede alcuna valutazione ulteriore sulle modalità e le circostanze dell’ evento infortunistico in sé considerato”[1]

Conseguentemente, pur non essendo rinvenibile nell’art. 5 del DPCM 3 nov 2020, alcun obbligo a carico del datore, potrebbero sorgere problemi qualora il prestatore si ammalasse sul luogo di lavoro ed agisse giudizialmente.

Infatti, per accertare un esonero di responsabilità, difficilmente sarebbe sufficiente la prova, da parte datoriale, di aver adottato all’interno dell’unità produttiva tutti i protocolli di sicurezza imposti dalla emergenza epidemiologica da COVID – 19.

L’obbligo di tutelare le condizioni del lavoro, gravante sul datore di lavoro, comporta la messa in atto da parte sua, di tutte le misure, anche organizzative, al fine di salvaguardare l’incolumità dei prestatori.

Un’organizzazione “totalmente in presenza” del ciclo produttivo potrebbe denotare una inadeguatezza delle tutele adottate se non addirittura comportare una violazione delle raccomandazioni diramate e degli obblighi di sicurezza.

Il principio di diritto definito della giurisprudenza di legittimità porta a configurare una responsabilità in capo al datore ogniqualvolta si verificasse l’evento dannoso a causa della mancata attuazione di norme di cautela derivanti da prescrizioni di legge o genericamente deducibili dalle regole consuetudinarie di prudenza, perizia e diligenza pretese dal caso concreto.

La responsabilità datoriale si fonda, quindi, sulla violazione di obblighi di comportamento a tutela delle condizioni di lavoro imposti dalla legge o dalla tecnica, purché concretamente sintetizzate, relativamente alla specifica attività.[2]

Anche di recente, la Corte di Cassazione ha ribadito il concetto per cui : “ l’articolo 2087 cod. civ. non configura, infatti, un’ipotesi di responsabilità oggettiva, essendone elemento costitutivo la colpa, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore. Né può desumersi dall’indicata disposizione un obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a “rischio zero”, quando di per sé il pericolo di una lavorazione o di un’attrezzatura non sia eliminabile, neanche potendosi ragionevolmente pretendere l’adozione di strumenti atti a fronteggiare qualsiasi evenienza che sia fonte di pericolo per l’integrità psico-fisica del lavoratore, ciò in quanto, ove applicabile, avrebbe come conseguenza l’ascrivibilità al datore di lavoro di qualunque evento lesivo, pur se imprevedibile ed inevitabile […]; non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto” (Corte di Cassazione, Sez. Lav. sent. n.3282/2020).

Se è consolidato il principio in base al quale non si può, dal semplice verificarsi del danno automaticamente presupporre l’inadeguatezza delle misure di contenimento adottate, va sottolineato, tuttavia, come il datore di lavoro debba ottemperare a determinati obblighi derivanti dalla legge e alle raccomandazioni idonee a ridurre il contagio.

Ed invero, l’art. 1 co. 14 del Decreto Legge n. 33/2020 prescrive che le attività economiche debbano svolgersi rispettando il contenuto dei protocolli e delle linee guida finalizzate a prevenire o ridurre il contagio da Sars Cov – 2.

Il Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 raccomanda il massimo utilizzo, da parte delle imprese, del lavoro agile.

Nel caso in cui la prestazione “agile” risultasse impossibile a causa di carenze strumentali (es connessione internet, pc e tablet ecc), in forza del principio sopra esposto, il datore di lavoro è tenuto a sopperire a tali mancanze organizzative fornendo gli strumenti informatici al fine di consentire lo svolgimento della prestazione lavorativa da casa.

Anche se il prestatore avanzasse richiesta di svolgimento delle proprie prestazioni “in presenza”, il datore di lavoro potrebbe (e dovrebbe) rifiutarla, atteso che il potere organizzativo e gestionale del rapporto di lavoro è prerogativa datoriale.

Ne deriva che, il datore di lavoro attraverso l’esercizio del proprio potere direttivo e di controllo, deve evitare che il lavoratore si esponga a pericoli derivanti da condotte negligenti ed imprudenti, impostando lo svolgimento dell’attività in maniera idonea a prevenire eventi lesivi, avuto riguardo anche alle ordinarie regole di prudenza imposte dalla emergenza epidemiologica.[3]

Una istanza in questo senso del lavoratore non comporterebbe una diminuzione delle responsabilità del datore, nel caso in cui il primo contraesse sul luogo di lavoro l’infezione da Sars Cov – 2 e decidesse di adire le vie legali.

Conseguentemente, la previsione di cui all’art. 5 co.6 del DPCM del 3 nov 2020 pare configurarsi come qualcosa di più che una “raccomandazione”.

 

 

 


[1] M. GAMBACCIANI, L’infortunio in itinere dall’interpretazione giurisprudenziale alla recente disciplina legislativa, Nota a Cassazione 18 aprile 2000, n. 5063, in Dir. lav., parte II, 425 segg., 433
[2] Cfr Cass Civ. sent. 14066/2019)
[3] Cfr Cass. Civ sent. n. 24798/2016; Cass. Civ. Sent. n. 1994/2012

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