Affidamento condiviso e mantenimento del figlio maggiorenne

Affidamento condiviso e mantenimento del figlio maggiorenne

L’affidamento condiviso è l’istituto giuridico in virtù del quale la potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori che assumono, di comune accordo, le decisioni di maggiore interesse per la prole relative all’istruzione, educazione, scelte religiose, salute, tenendo pur sempre conto delle capacità e inclinazioni dei figli.

Prima della Legge 8 febbraio 2006, n° 54 vigeva la regola dell’affidamento esclusivo ed era relegato a mero rimedio residuale l’affidamento congiunto. La suddetta legge ha invertito il rapporto tra regola ed eccezione stabilendo come regola l’affidamento condiviso e relegando quale rimedio residuale, da motivare adeguatamente, l’affidamento esclusivo. (Cass. Civ., Sez. I, 18 agosto 2006, n. 18187).

Con l’intervento della legge 54/2006 si crea il diritto alla bigenitorialità, quale diritto soggettivo del minore teso alla conservazione di un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori. L’affidamento condiviso è istituto che, in quanto fondato sull’esclusivo interesse del minore, non fa venir meno l’obbligo patrimoniale di uno dei genitori di contribuire, con la corresponsione di un assegno, al mantenimento dei figli (Cass. Civ., Sez. I, 24 gennaio 2008, n° 1595). Tale assegno, salvo accordo tra i genitori, andrà quantificato dal giudice tenendo presenti i parametri indicati dal comma 4 dell’art. 337-ter cod. civ., che sono: 1) le attuali esigenze esistenziali del figlio; 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori; 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore; 4) le risorse economiche dei genitori; 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.

Il diritto al mantenimento rimane in capo al figlio divenuto maggiorenne in quanto non cessa con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae fino a che il figlio medesimo sia in grado di provvedere alle proprie esigenze, con un’appropriata collocazione lavorativa in seno al corpo sociale in cui il soggetto svolge la propria personalità.

È bene precisare che la tutela che l’ordinamento giuridico riconosce al figlio maggiorenne non autosufficiente non appare legata al dato di fatto della mancanza attuale di indipendenza economica, ma piuttosto alle risorse personali del figlio ed alla sua capacità di rendersi indipendente dal sostegno economico genitoriale. Ne consegue che ove il figlio maggiorenne, attualmente non economicamente indipendente, abbia in passato iniziato ad espletare un’attività lavorativa, così dimostrando il raggiungimento di una adeguata capacità, perde il diritto al mantenimento da parte del genitore.

La Suprema Corte chiamata a pronunciarsi su queste questioni giuridiche ha chiaramente statuito che in ogni caso “non rileva la sopravvenienza di circostanze ulteriori che, pur determinando l’effetto di renderlo momentaneamente privo di sostentamento economico, non possono far sorgere un obbligo di mantenimento, i cui presupposti erano già venuti meno” (ex multis Cass. Civ., sez. VI, 1585/2014).

Quanto sopra detto non esclude radicalmente il diritto a qualsivoglia forma di apporto economico da parte dei genitori. Questi ultimi infatti ai sensi dell’art. 433 n. 3 c.c. sono comunque tenuti alla prestazione degli alimenti in favore del figlio consistente nell’attribuzione economica di contenuto più ristretto rispetto all’assegno di mantenimento e volta a sopperire alle sole esigenze primarie di vita (ex multis Cass. Civ., sez. I, n. 1761/2008).


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Salvatore Ciotta

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