Autotutela amministrativa: limiti, poteri e responsabilità

Autotutela amministrativa: limiti, poteri e responsabilità

L’autotutela amministrativa è, tuttora, oggetto di ampie discussioni, sia in dottrina che in giurisprudenza, tant’è che, allo stato, non ha trovato un inquadramento unitario tale da consentirne una univoca definizione. L’autotutela è stata definita da autorevolissima dottrina come la possibilità per l’autorità amministrativa di realizzare unilateralmente e, se necessario, coattivamente le situazioni di vantaggio che con il provvedimento nascono a proprio favore (c.d. esecutorietà del provvedimento) ovvero come la capacità dell’amministrazione di farsi ragione da sé, naturalmente secondo diritto, per le vie amministrative, salvo ogni sindacato giurisdizionale[1] .

La nozione di autotutela amministrativa è oggetto di un dibattito sul piano della teoria generale identificandosi con la risoluzione coattiva del diritto attraverso l’uso della forza quale monopolio statale. Autorevole dottrina[2], alla luce della definizione data, concepisce l’autotutela come eccezione alla regola.

Nel diritto amministrativo le figure tipicamente riferibili all’autotutela (ossia autotutela esecutiva e l’autotutela decisoria intesa quest’ultima quale espressione del principio di continuità dell’azione della pubblica amministrazione, che può costantemente rivedere i propri atti al fine di meglio perseguire gli interessi pubblici affidati dalla legge alle sue cure)  si concreta soprattutto nei provvedimenti di annullamento e revoca, i quali, volti ad incidere sull’assetto di interessi delineato con atti precedenti dalla stessa amministrazione, sono provvedimenti di secondo grado. L’autotutela decisoria può essere distinta in autotutela ad effetti eliminatori, il cui scopo è quello di eliminare l’atto dal mondo giuridico attraverso un contrarius actus che è esercizio del medesimo potere che ha condotto all’emanazione del provvedimento originario, e autotutela ad effetti conservativiavente lo scopo di conservare l’atto eliminandone i vizi giuridici. Nel sistema di autotutela amministrativa, la pubblica amministrazione dispone di diversi strumenti per ritirare i propri atti, tra cui l’annullamento d’ufficio e la revoca. Entrambe le figure, pur condividendo la finalità di eliminare un provvedimento precedentemente adottato, si distinguono per presupposti, natura e effetti giuridici.

L’annullamento d’ufficio è un provvedimento con cui l’amministrazione elimina un atto per motivi di legittimità, ovvero perché viziato da errori di diritto o di fatto. Questo tipo di ritiro ha, di regola, efficacia retroattiva (ex tunc): ciò significa che l’atto viene considerato come mai esistito, con la conseguente rimozione degli effetti prodotti sin dal momento della sua adozione. Tuttavia, la giurisprudenza e la dottrina riconoscono la possibilità che, all’esito di una valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati coinvolti, l’amministrazione possa disporre un annullamento con effetti solo da quel momento in avanti (ex nunc), qualora ciò risulti più adeguato a garantire l’equilibrio tra legalità e tutela dell’affidamento.

Diverso è il caso della revoca, disciplinata dall’art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990. Si tratta di un atto con cui l’amministrazione ritira un provvedimento valido, ma divenuto inopportuno o inadeguato in seguito a mutamenti dell’interesse pubblico, della situazione di fatto o a una diversa valutazione dell’utilità dell’atto stesso. A differenza dell’annullamento, la revoca opera con effetto non retroattivo (ex nunc), salvaguardando gli effetti già prodotti fino al momento del ritiro.

Trattasi pertanto di un provvedimento di revisione, perché esso attiene ai risultati dell’atto e cioè ai suoi effetti. La P.A. sottopone la verifica dell’atto sotto il profilo della sua conformità all’interesse pubblico. I presupposti del valido esercizio dello ius poenitendi sono definiti dall’art.21-quinquies e consistono nella sopravvenienza di motivi di interesse pubblico, nel mutamento della situazione di fatto imprevedibile al momento dell’adozione del provvedimento e in una rinnovata valutazione dell’interesse pubblico originario.

A differenza del potere di annullamento d’ufficio, che postula l’illegittimità dell’atto rimosso d’ufficio, quello di revoca esige, infatti, solo una valutazione di opportunità, seppur ancorata alle condizioni legittimanti dettagliate all’art.21-quinquies, sicché il valido esercizio dello stesso resta, comunque, rimesso a un apprezzamento ampiamente discrezionale dell’amministrazione procedente.

Nei primi studi della materia si faceva riferimento alla sola autotutela esecutiva, quale potestà delle amministrazioni pubbliche di portare ad esecuzione anche coattivamente le proprie decisioni senza necessità di adire gli organi giurisdizionali[3] .

Rispetto alla figura dell’ autotutela decisoria non sono mancati orientamenti giurisprudenziali[4] distinti, facendo  coincidere, in alcuni casi,  la nozione di autotutela decisoria con quella dell’attività di esecuzione coattiva diretta delle pretese dell’amministrazione; oppure  aggiungendo  a tale area quella del riesame; o, ancora,  facendo  coincidere l’istituto con quella parte di attività amministrativa volta a risolvere i conflitti, potenziali o attuali, insorgenti con altri soggetti, in relazione ai suoi provvedimenti ed alle sue pretese.

L’esercizio dei poteri e delle facoltà riconducibili alla generale nozione di autotutela è  ammesso nei soli casi espressamente previsti dalla legge quale  corollario del generale principio di matrice civilistica secondo cui nessuno può compiere atti unilaterali che hanno effetti sulla sfera giuridica dei terzi, quand’anche tali atti siano adottati in funzione ripristinatoria di un proprio diritto, scadendo altrimenti nel reato disciplinato dall’art.392 c.p. in tema di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Il potere in questione rappresenta una fra le più tipiche e coerenti espressioni del tipico carattere di autoritatività che caratterizza l’esplicazione dei pubblici poteri.[5]

Secondo un importante orientamento giurisprudenziale,[6] nell’ambito del diritto amministrativo, l’autotutela viene a collocarsi nello snodo delicatissimo fra il potere amministrativo e il suo esercizio, da una parte, e la tutela dell’affidamento del privato, dall’altra.

L’autotutela viene generalmente riconosciuta come una delle manifestazioni della specialità del diritto amministrativo rispetto al diritto comune: la sovranità dello Stato e l’autarchia di cui sono titolari gli enti pubblici, infatti, fa sì che tutte le figure soggettive, comunque, inquadrabili nell’ambito della P.A. siano dotate di almeno un minimum di poteri pubblici, tra i quali rientra la prerogativa dell’autotutela.

il concetto di autotutela appare riferibile esclusivamente al potere di esecuzione coattiva diretta dei provvedimenti amministrativi spettante alla P.A., c.d. esecutorietà del provvedimento[7].

Tale potere, riconosciuto dall’ordinamento alla P.A., di rimuovere gli ostacoli che si frappongono tra il provvedimento e il risultato cui essa mira, ovvero la realizzazione dell’interesse pubblico concreto per la tutela del quale il provvedimento è stato emanato, è influenzato e condizionato dall’interesse pubblico.[8]

Dunque, non può in generale prescindersi dalla sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto ai fini dell’esercizio del potere di autotutela, non essendo sufficiente il generale interesse al mero ripristino della legalità violata (e ciò, anche alla luce dei principi di economicità ed efficacia che, legislativamente previsti dall’articolo 1, comma 1, della legge sul procedimento amministrativo, direttamente richiamano il principio di buon andamento di cui all’articolo 97 della Costituzione).

La stessa area del riesame è andata progressivamente ampliandosi, estendendo, di conseguenza, i confini dell’autotutela, pur non trovando il consenso unanime della dottrina, mentre per quel che concerne la  giurisprudenza, essa una volta acquisita l’equazione autotutela-riesame ed esecutorietà dei provvedimenti, non abbia ritenuto, per lo più, di mettere in discussione tale contenuto, concentrandosi, piuttosto, sulle modalità di esercizio e sui limiti di operatività del potere, soprattutto in relazione alle manifestazioni del riesame[9].

La limitazione della libertà dei privati e l’invasione della loro sfera giuridica possono essere giustificate soltanto in base ad espresse disposizioni di legge. Inoltre, l’esecuzione forzata amministrativa deroga al principio fondamentale della divisione dei poteri, essendo compito dell’autorità giudiziaria accertare la fondatezza delle pretese e darvi attuazione mediante il processo esecutivo, cosicché l’istituto deve trovare puntuale ancoraggio nelle norme positive. Per i suddetti motivi la giustificazione dell’autotutela esecutiva ed amministrativa dev’essere ricercata nello specifico interesse pubblico che la legge individua come fondamento di una tale attribuzione. [10] Espressione di potere è anche l’annullamento d’ufficio doveroso ex lege previsto dall’art. 2 della legge 23 agosto del 1988 n. 400 che impone “l’annullamento straordinario a tutela dell’unità dell’ordinamento, degli atti amministrativi illegittimi, previo parere del Consiglio di Stato”. Parte della dottrina[11] individua in tale potere una forma speciale di controllo sugli atti, altra dottrina[12], avvicina la natura alle forme dell’autotutela e dell’annullamento d’ufficio; altri ancora,[13] valorizzando al massimo la discrezionalità dell’intervento, hanno ricondotto il potere in parola all’attività di “alta amministrazione” o di “indirizzo politico”. La Giurisprudenza  sul punto ha chiarito che  in realtà, il fatto che il potere venga esercitato da un soggetto esterno all’amministrazione che ha posto l’atto da annullare e nei confronti di atti comunque viziati nella legittimità induce a ritenere prevalenti, nella fattispecie, le garanzie della legalità che si ricollegano al controllo di legittimità sugli atti stessi, pur con tutte le connotazioni speciali che tendono ad avvicinare il potere stesso all’amministrazione attiva, in relazione sia alla facoltatività dell’annullamento, sia all’inesistenza di un limite temporale per il suo esercizio, sia all’ampia discrezionalità della valutazione relativa alla presenza di un interesse attuale di carattere generale in grado di giustificare l’intervento straordinario del Governo. L’art. 112, comma 1 del Codice del Processo Amministrativo, impone all’amministrazione di conformarsi al giudicato amministrativo che accerti l’illegittimità del provvedimento amministrativo impugnato. La dottrina tradizionale individua quattro casi di annullamento d’ufficio doveroso da parte della P.A.: quando l’atto amministrativo sia stato disapplicato dal Giudice Ordinario che lo ha riconosciuto illegittimo ai sensi dell’art. 5 LAC, Legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E;  quando l’atto amministrativo abbia formato oggetto di rilievi di legittimità da parte della Corte dei Conti in sede di controllo successivo; quando il provvedimento sia stato emanato sulla base di una norma attributiva del potere, successivamente dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Ciò si spiega perché la dichiarazione d’illegittimità costituzionale produce un effetto non abrogativo, bensì “invalidante”, poiché presuppone l’esistenza di un vizio che inficia ab origine la norma attributiva del potere, che per tale motivo deve essere considerata tamquam non esset. Determinando la cessazione di efficacia delle norme oggetto del petitum costituzionale, la declaratoria di illegittimità impedisce, peraltro, dopo la pubblicazione della relativa sentenza dichiarativa, che tali norme siano applicabili anche a soggetti ai quali sarebbero state applicabili alla stregua dei comuni principi sulla successione delle leggi nel tempo; quando sia stato annullato dal Giudice Amministrativo in sede amministrativa un atto presupposto. A sostegno dell’assunto si adduce la necessità di rendere coerenti le regole nazionali che disciplinano l’esercizio del potere di autotutela con il principio di primazia del diritto comunitario. Di parere opposto, tuttavia, è l’opinione del Consiglio di Stato secondo il quale anche nell’ordinamento comunitario la sola illegittimità dell’atto non è elemento sufficiente per giustificare la sua rimozione in via amministrativa, in quanto è necessaria una attenta ponderazione degli altri interessi coinvolti, tra cui quello del destinatario che ha fatto affidamento sul provvedimento illegittimo. In sostanza, secondo i giudici amministrativi, l’esercizio del potere di annullamento di ufficio di un atto illegittimo poiché contrastante con il diritto comunitario deve ordinariamente svolgersi alla stregua dei presupposti individuati nell’art. 21 nonies, legge n. 241/1990. Peraltro, secondo la Corte di Giustizia, la revoca di un atto illegittimo è consentita entro un termine ragionevole e se la Commissione ha adeguatamente tenuto conto della misura in cui il privato ha potuto eventualmente fare affidamento sulla legittimità dell’atto[14].  Nell’impostazione tradizionale, dunque, l’autotutela è tra quegli istituti che, insieme, delineano il quadro di una P.A. in posizione di preminenza, in quanto titolare di poteri di imperio che si ricollegano, ab antiquo, alla sovranità dello Stato.

 

 

 

 

 

 

[1] M.S. Giannini, Diritto Amministrativo, Volume Secondo, Milano, 2000.
[2] L. Cifarelli, L’autotutela amministrativa dopo la riforma Madia e il nuovo codice dei contratti pubblici, Roma 2016.
[3] M.S. Giannini, op. cit. p. 417.
[4] F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2017.
[5] F. Benvenuti, voce Autotutela (dir. amm.), in Enc. dir., vol. V, Milano, 1959, 540-544.
[6] Corte cost., sentenza n. 49 del 16 marzo 2016.
[7]  F. Benvenuti, voce Autotutela (dir. amm.), in Enc. dir., vol. IV, Milano, 1959,537.
[8] F. Caringella, Manuale di diritto Amministrativo, Roma 2020.
[9] F. Caringella, Manuale di diritto Amministrativo, op. cit. p. 1272 e ss.
[10] Cass., SS.UU., 27 gennaio 1933, in Giur. it., I, p. 262.
[11] R. Garofoli, G. Ferrari, Manuale di diritto amministrativo, Molfetta 2018.
[12] F. G. Scoca, Diritto Amministrativo, Torino 2014.
[13] E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano 2017.
[14] Corte Giust. CE, 26 febbraio 1987, C 15/85.

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