Il reato di maternità surrogata commesso dal cittadino all’estero

Il reato di maternità surrogata commesso dal cittadino all’estero

Alcune considerazioni e precisazioni “a freddo”

di Michele Di Salvo

La legge169/2024 pubblicata nella G.U. n. 270 del 18 novembre 2024 ha introdotto una clausola speciale di extraterritorialità che consente la punibilità incondizionata, in deroga all’art. 9 c.p., del cittadino italiano che commetta all’estero una delle fattispecie incriminatrici della surrogazione di maternità. La riforma aveva ed ha dichiaratamente l’obiettivo di incrementare il tasso di effettività della repressione del “turismo procreativo”, non sottraendosi a numerose critiche in ordine alla sua legittimità costituzionale.

L’art. 12, comma 6, della legge 40/2004 già puniva, con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da seicentomila a un milione di euro, la realizzazione, l’organizzazione e la pubblicizzazione della commercializzazione di gameti ed embrioni e della surrogazione di maternità.

Con l’espressione “maternità surrogata”, che non è mai stata oggetto di una definizione legislativa, si fa riferimento a quel fenomeno per cui una donna si sottopone a interventi di procreazione medicalmente assistita per conto di terzi, con la promessa di cedere agli stessi il bambino immediatamente dopo il parto.

Responsabili della realizzazione della pratica, secondo quanto per la prima volta affermato dalla Cassazione penale con la sentenza n. 5198 del 28 ottobre 2020, sono “coloro che, consapevoli dell’accordo, prestano volontariamente una qualunque condotta eziologicamente rilevante rispetto alla nascita del minore, e dunque anche gli aspiranti genitori sociali, la stessa madre surrogata e i sanitari che abbiano applicato le tecniche sulla donna”. 

Vanno quindi almeno sin da ora chiariti questi due aspetti; tutt’altro che secondari in diritto penale, in ossequio ai principi di determinazione e tassatività, sia del fatto che della fattispecie: non vi è una definizione specifica e specificata da parte del legislatore della “maternità surrogata” ed al contempo la identificazione del soggetto responsabile in concreto, almeno della condotta perseguibile ex legge 40/2004 è dovuta alla giurisprudenza, in assenza quindi evidentemente della specifica indicazione (determinata e tassativa) ad opera del legislatore.

Sulla esatta interpretazione della condotta incriminata di realizzazione esistono quindi vistose ombre, testimoniate dai molteplici contrasti sorti in dottrina in ordine, in particolare, alla punibilità delle parti direttamente coinvolte nell’esecuzione dell’accordo. Meno equivocabile sembra il tenore delle fattispecie di organizzazione e di pubblicizzazione, di cui dovrebbero rispondere, rispettivamente, coloro che facciano da intermediari tra i soggetti contraenti o che diffondano notizie o annunci circa la disponibilità degli stessi ad aderire a un tale patto.

La nuova legge dispone l’aggiunta di un periodo finale nel testo della disposizione, introducendo il seguente periodo: «Se i fatti di cui al periodo precedente, con riferimento alla surrogazione di maternità, sono commessi all’estero, il cittadino italiano è punito secondo la legge italiana».
Va, quindi, escluso che la clausola speciale di extraterritorialità colpisca anche chi realizzi, organizzi o pubblicizzi la commercializzazione di gameti od embrioni all’estero, condotte pure incriminate dalla citata disposizione della L. n. 40/2004, che restano nell’alveo previsto dall’articolo 9 del codice penale.

A dispetto delle affermazioni pubblicistiche largamente diffuse – in primis dalla politica ed amplificate dai media – non siamo in un caso di previsione di un reato universale, attraverso cui punire i fatti di surrogazione commessi ovunque, da chiunque e contro chiunque.

Anche se le prime proposte di legge in materia si erano mosse in tale direzione, le numerose obiezioni circa l’indebita invasione di sovranità che ne sarebbe derivata a danno dei cittadini degli Stati stranieri che ammettano la liceità di tali pratiche, ha portato il Parlamento a ridimensionare la sua strategia di politica criminale “coloniale” (se non imperialistica) e a introdurre una clausola di giurisdizione basata sull’adozione incondizionata del criterio della personalità attiva, in deroga all’art. 9 del codice penale.

Sull’articolo 9 c.p. molto ci sarebbe da dire, alla luce della sempre maggiore extraterritorialità dei reati e delle organizzazioni e degli scenari sempre più transnazionali delle vicende con rilevanza penale. Allo stesso si rinvia per non deviare dall’oggetto di commento. Qui è però necessario ricordare che questa norma prevede, in via generale, le condizioni al ricorrere delle quali un delitto è perseguibile anche se sia commesso all’estero dal cittadino italiano: in particolare il secondo comma della disposizione stabilisce che occorre la presenza del reo nel territorio italiano e una serie di condizioni esplicite cui si aggiunge quella implicita della contemporanea punibilità del fatto sia nel locus commissi delicti sia nello Stato di nazionalità intenzionato a esercitare la giurisdizione prescrittiva in via extraterritoriale.

La necessità della doppia incriminazione del fatto, in particolare, è stata oggetto di una nota querelle giurisprudenziale che, a tutt’oggi, non ha condotto a una soluzione definitiva. Secondo un primo e più datato orientamento (1991) il silenzio del legislatore è indicativo della superfluità di tale condizione ulteriore. Secondo un orientamento più recente (2002) il requisito risulterebbe invece fondato sui principi costituzionali di legalità e di colpevolezza in materia penale. Infine, con la sentenza n. 13525 del 5 aprile 2016, la Corte di cassazione penale – rievocando la sentenza costituzionale n. 364/1988 – è intervenuta nuovamente sulla questione senza dirimerla, ma comunque sostenendo l’invocabilità, da parte di chiunque realizzi all’estero un fatto di reato ivi considerato lecito, di un errore inevitabile sull’art. 9 c.p., in presenza di un contraddittorio atteggiamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità sulla necessità della doppia punibilità del fatto.

Proprio per evitare che qualunque imputato potesse andare esente da un rimprovero di colpevolezza facendo valere l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 5 c.p., la legge n. 169/2024, consentendo di punire questi fatti in assenza non solo del requisito della doppia incriminazione, ma anche del ventaglio di condizioni di procedibilità generalmente previste dal codice penale, ha inteso garantire la massima effettività della legge penale in materia, su cui, ad oggi, non sono intervenute sentenze di condanna, a dispetto dei molti casi giunti dinnanzi alle corti penali italiane.

Quest’ultimo esito è stato dovuto soprattutto all’atteggiamento di self-restraint serbato dal Ministero della giustizia, tendenzialmente poco incline a formulare la richiesta di cui all’art. 9, comma 2, c.p. Ciò in coerenza con l’orientamento storicamente prevalente del Ministero nell’evitare l’adozione di una politica repressiva su fatti “eticamente sensibili” considerati leciti oltre confine.

L’introduzione della nuova legge, invece, porterà a un esercizio indiscriminato della giurisdizione penale su questi fatti, senza che il filtro della richiesta ministeriale possa più intervenire per selezionare come perseguibili le sole condotte meritevoli di punibilità – secondo il principio di extrema ratio del diritto penale – come quelle commesse presso ordinamenti stranieri che pure proibiscano queste pratiche o dove comunque siano tollerati fatti gravemente lesivi della dignità materna (si pensi alla maternità surrogata in forma commerciale).

La tenuta costituzionale di una legge marcatamente ideologica, e chiaramente tendente a rimproverare una colpevolezza su fatti chiaramente “eticamente sensibili”, come quella in esame, appare fortemente vacillante.

Rimane, in primo luogo, il problema della compatibilità con l’art 25, comma 2, Cost., di una legge che, già in base alla sua portata applicativa intraterritoriale, non chiarisce in modo inequivoco quali siano le condotte da incriminare, riversando interamente sull’interprete questo compito, come già rilevato.

Altrettanto dubbio, inoltre, è che l’applicabilità extraterritoriale incondizionata del reato nei confronti del cittadino italiano all’estero sia compatibile con il principio di offensività. Anche se la dignità della gestante – che costituisce il bene giuridico protetto, secondo la giurisprudenza e la dottrina prevalente – non ammette teoricamente limiti spaziali di tutelabilità, il reato lascia trasparire istanze di protezione della pubblica morale non suscettibili di essere proiettate oltre confine.

In particolare, nei casi in cui sia dimostrabile che la donna abbia prestato liberamente il suo consenso all’accordo e che non vi sia stato alcun condizionamento economico, non traspare alcuna necessità di tutelarne la dignità, specialmente in relazione alle condotte realizzate presso Paesi dotati di una regolamentazione che consenta di garantire la salute e la libera formazione della volontà della stessa. È proprio rispetto a questi ultimi casi che emerge un tentativo di “colonialismo morale” da parte del nostro legislatore (per altro per iniziativa dell’esecutivo), incompatibile con i principi di necessaria lesività e di laicità.

Rimane, infine, la questione del ragionevole bilanciamento tra interessi tutelati e controinteressi compressi dal divieto, strettamente influenzata dalla disciplina degli effetti civili della pratica eseguita in un Paese estero.
I cittadini italiani che abbiano regolarmente ottenuto la registrazione anagrafica del proprio statuto genitoriale nel locus nativitatis, infatti, avranno comunque modo di ottenerne il riconoscimento una volta tornati in Italia: l’uomo che abbia fornito il proprio gamete per la fecondazione, potrà richiedere la trascrizione dell’atto di nascita straniero relativamente al proprio status; la sua coniuge o la sua compagna, a fronte del divieto di trascrizione per contrarietà all’ordine pubblico – affermato dalla sentenza costituzionale n. 33/2021 oltre che dalle sezioni unite della Corte di cassazione civile – potrà comunque ricorrere all’adozione “in casi particolari” del minore.
Appare incidentalmente gravissimo poi che tutti questi aspetti siano lasciati ai rimedi amministrativi e residualmente ai tribunali civili ordinari, con tutti i tempi e le procedure che ben conosciamo – e per i quali siamo stati condannati non saltuariamente dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

A fronte di questo dato che appare prima facie inconfutabile, il benessere del bambino così concepito, che pure si potrebbe ricondurre a bene giuridico protetto dal reato in esame, rischierebbe di essere compromesso dalla condanna dei suoi genitori per il fatto stesso di averne programmato la nascita, in ciò esprimendosi l’irrazionalità di una riforma che rischia di compromettere gli scopi di cui abbia dichiarato il perseguimento incondizionato.

Gli effetti della nuova legge sul piano sociale e giuridico, seppur limitati alle decine, rischiano di essere da un alto devastanti per le vite delle persone e per i beni della vita da proteggere, ma soprattutto per l’incidenza etica e morale nella società, generando ex lege ulteriori profili di discriminazione (laddove la costituzione stessa imporrebbe a monte che la legge tenda a eliminare forme discriminatorie).

Il dato più allarmante resta comunque la scelta quanto meno eccentrica assunta dal nostro ordinamento a fronte di quelle opposte adottate dalla maggior parte dei Paesi democratici europei ed extraeuropei, che, anche laddove non considerano lecita la pratica, tendono prevalentemente a risparmiare agli aspiranti genitori e alla gestante lo stigma penale – attraverso il frequente ricorso a clausole speciali di non punibilità – anche al fine di assicurare la tutela degli interessi del minore.

Sotto questo profilo dovremmo essere tutti ragionevolmente concordi che la tutela del migliore interesse del minore (in questo caso decisamente qualificabile come neonato) dovrebbe essere – a prescindere – quello identificato come meritevole della maggior tutela.

In questo senso una interpretazione di chiaro orientamento ideologico moralmente orientato del diritto penale – specialmente se isolata e marginale sul piano internazionale e dei più ampi contesti istituzionali e del del diritto a livello transnazionale – non solo non aiuta sotto il profilo della tutela autentica del soggetto debole e meritevole di massima o comunque maggior tutela, ma rischia di creare ostacoli seri ad una regolamentazione eticamente orientata di pratiche che sempre più hanno una dimensione transfrontaliera, sulle quali la cooperazione, il dialogo e la mediazione sono sempre e da sempre preferibili ed auspicabili.


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