
Mediazione familiare e il divieto in caso di violenza: cosa accadrebbe se divenisse obbligatoria?
Abstract. La mediazione familiare nell’ordinamento italiano si è affermata progressivamente come uno strumento complementare alla giustizia ordinaria, volto a facilitare il dialogo tra coniugi o partner in fase di separazione o divorzio, in presenza o meno di figli e, soprattutto, come strumento per gestire detta fase di crisi genitoriale. Si tratta, pertanto, di uno strumento di risoluzione stragiudiziale delle controversie che ricorre a tecniche di negoziazione collaborativa – e non competitiva! – attraverso interventi di tipo clinico-sociale trasformativo né terapeutico né semplicemente tecnico-strutturato.
Essa si fonda sui principi di autodeterminazione, di parità tra le parti, di volontarietà del percorso e di centralità del benessere dei figli, il cui best interest garantisce la riorganizzazione delle relazioni del nucleo familiare e il mantenimento del ruolo bigenitoriale. Tuttavia, quando il conflitto familiare assume forme di violenza, questi stessi presupposti vengono radicalmente compromessi. La mediazione familiare in casi di violenza non solo non può ritenersi lo strumento più adatto, perché mancano i presupposti per la sua applicazione, ma risulta ad oggi legislativamente vietata. Infatti, negli anni, dottrina e giurisprudenza hanno avviato un profondo ripensamento del rapporto tra mediazione familiare e violenza, culminato nell’esplicito divieto normativo contenuto nel D.lgs. n. 149/2022[1] – id est Riforma Cartabia.
Sommario: 1. Quando si tratta di conflitto e quando di violenza? – 2. L’evoluzione normativa fino al divieto esplicito della Riforma Cartabia – 3. Cosa accadrebbe se la mediazione familiare divenisse obbligatoria? Una riflessione critica
1. Quando si tratta di conflitto e quando di violenza?
La mediazione familiare nasce dall’idea che in sé il conflitto non abbia natura patologica, ma che – al contrario – sia fisiologico nelle relazioni e che sia generalmente costruttivo, perché evolutivo del rapporto. Non è, dunque, il conflitto in sé ad essere dannoso, ma il modo in cui viene affrontato.
Tuttavia, la bontà dello strumento della mediazione familiare è subordinata a condizioni essenziali: che tra i mediandi vi sia solo ed esclusivamente un conflitto – per quanto medio/alto –, scevro da ogni forma di violenza, diretta o indiretta. Vi deve essere equilibrio tra i mediandi, una comunicazione rispettosa e una totale assenza di coercizione. In caso contrario, il procedimento non solo perde efficacia, ma rischia di aggravare il danno già arrecato alle parti più vulnerabili, in primis le vittime di violenza e i figli, creando situazioni di vittimizzazione secondaria.
Nonostante spesso dal quisque de populo i concetti vengano interscambiati nel loro significato, nella violenza e nel conflitto matrice semantica e natura sono profondamente diverse.
La violenza si colloca al di fuori del conflitto, rappresentando la degenerazione patologica che volge alla distruzione di qualsivoglia relazione. Attuare violenza, in qualsiasi forma, significa essere incapaci di stare nel conflitto. Dunque, la presenza di violenza domestica o di genere sovverte ogni principio fondativo della mediazione familiare: non si è più di fronte a un conflitto simmetrico tra pari, ma a una relazione sbilanciata basata su dominio, controllo e abuso di forza o potere.
L’OMS definisce, infatti, la violenza come: “L’utilizzo intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o reale, contro se stessi, un’altra persona, o contro un gruppo o una comunità, che determini o che abbia un elevato grado di probabilità di determinare lesioni, morte, danno psicologico, cattivo sviluppo o privazione”[2].
Talvolta, si sente parlare impropriamente di violenza simmetrica per definire i casi di alta conflittualità che si presentano in mediazione e che però possono ritenersi ancora mediabili – almeno in via di tentativo -; tuttavia la violenza in quanto tale è sempre asimmetrica. Nell’asimmetricità dello scontro sta la sua matrice: la classificazione dell’altro come oggetto, la supremazia e la prevaricazione tanto fisica quanto psicologica, l’annientamento dell’altro come soggetto che non può e non deve essere ascoltato e con il quale non si deve dialogare.
In tale scenario la volontarietà della mediazione è ontologicamente viziata da pressioni psicologiche e dinamiche di dipendenza. La parità tra le parti viene meno, rendendo impossibile una negoziazione libera e consapevole nonché qualsiasi tentativo di instaurare un dialogo costruttivo e collaborativo.
Come si è già anticipato poc’anzi, il rischio della rivittimizzazione della persona offesa, costretta a confrontarsi con il proprio aggressore, in un contesto che richiede ascolto reciproco e collaborazione, è il più immediato dei esiti.
2. L’evoluzione normativa fino al divieto esplicito della Riforma Cartabia
Già prima che la Riforma Cartabia intervenisse a chiare lettere, numerosi protocolli territoriali – pur non vincolanti a livello nazionale – e prassi giudiziarie evitavano la mediazione familiare in casi di violenza, riflettendo così una crescente consapevolezza dei rischi associati al ricorso di questo strumento in situazioni di abuso.
Quel che mancava era un fondamento normativo vincolante a livello nazionale.
Tuttavia, onde cadere nell’errore di pensare che la Riforma Cartabia abbia calato dall’alto una novità assoluta, è bene ricordare le diverse realtà locali, che in collaborazione con l’ONDIF[3], hanno sviluppato negli anni protocolli d’intesa per affrontare la violenza domestica e di genere: ad esempio, il Tribunale di Lecco ha istituito un sistema territoriale antiviolenza in rete a sostegno delle donne vittime di maltrattamento e violenza; mentre il Tribunale di Milano ha collaborato con l’Università degli Studi di Milano Bicocca per il progetto “violenza di genere: estrazione di caratteristiche salienti da sentenze penali“[4].
Questi protocolli evidenziano, dunque, un importante impegno a livello locale per affrontare la violenza precedente alla Riforma, sebbene non costituissero all’epoca un divieto formale alla mediazione familiare in tali contesti.
Sul piano giurisprudenziale, si riscontravano già anni addietro orientamenti che, pur non proibendo esplicitamente la mediazione, ne sconsigliavano l’uso in presenza di violenza. La Convenzione di Istanbul[5], ratificata dall’Italia nel 2013 e dall’Unione Europea solo nel 2023, stabilisce all’art. 48 che gli Stati parti dovrebbero vietare il ricorso obbligatorio a procedimenti di soluzione alternativa delle controversie, inclusa la mediazione e la conciliazione, in relazione a tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione.
Sebbene la Convenzione non imponga un divieto assoluto, essa ha influenzato le prassi giudiziarie italiane, orientandole verso una maggiore cautela nell’uso della mediazione in contesti di violenza, fino ad arrivare al divieto perentorio ed esplicito della Cartabia, contribuendo a sensibilizzare l’opinione pubblica e gli operatori del diritto sull’inadeguatezza della mediazione familiare in situazioni di violenza.
La svolta definitiva si ha con la Riforma Cartabia, che all’interno della riorganizzazione del processo civile e del nuovo rito unico per le persone, i minorenni e le famiglie, introduce una previsione chiara e cogente: l’art. 473-bis.10, co. 3, c.p.c., che stabilisce che: “Il giudice non può disporre o autorizzare la mediazione familiare quando vi è una situazione di violenza domestica o di genere, accertata o anche solo allegata”. Tale norma, avente l’intento di prevenire la sottovalutazione di situazioni pregiudizievoli, introduce un doppio criterio di esclusione:
– oggettivo: nei casi in cui la violenza sia accertata, anche in sede penale o attraverso elementi probatori documentati;
– soggettivo e precauzionale: anche solo in presenza di una allegazione della parte, che attivi un obbligo di prudenza e cautela da parte del giudice.
3. Cosa accadrebbe se la mediazione familiare divenisse obbligatoria? Una riflessione critica
L’ipotesi di introdurre un carattere obbligatorio alla mediazione familiare – prospettata ciclicamente nel dibattito politico-giuridico, da ultimo con il ddl Pillon[6] – pone interrogativi rilevanti sotto il profilo della compatibilità con i diritti fondamentali, soprattutto in contesti in cui sussistano dinamiche violente o relazioni asimmetriche.
Se la mediazione fosse imposta senza una valutazione preliminare della sicurezza relazionale, si rischierebbe una violazione del principio di autodeterminazione e del diritto alla tutela effettiva, di cui all’art. 24 Cost., oltre a creare un vulnus per le vittime di violenza, costrette a partecipare a un percorso potenzialmente re-traumatizzante.
Un sistema di mediazione obbligatoria generalizzata, inoltre, si porrebbe in contrasto con la Convenzione di Istanbul, con l’art. 6 CEDU[7] e con le più recenti direttive UE in materia di protezione delle vittime e tutela dei minori.
Alla luce di ciò, l’attuale formulazione della Riforma Cartabia, che valorizza la mediazione come facoltativa ma esclude espressamente il suo utilizzo nei casi di violenza, rappresenta un punto di equilibrio avanzato tra l’efficienza del sistema giustizia e la tutela dei diritti inviolabili della persona.
Dunque, il divieto introdotto dalla Riforma Cartabia segna un passaggio culturale importante: riconosce che non tutti i conflitti familiari possono essere gestiti tramite mediazione, soprattutto quando sono presenti condotte violente, coercitive o manipolatorie. L’obiettivo è delimitare l’ambito di applicazione della mediazione familiare, nel rispetto della dignità delle vittime e dei principi costituzionali di protezione. In definitiva, il legislatore ha operato una scelta di valore, orientata a tutelare la parte debole e a garantire la piena effettività dei diritti fondamentali, in linea con le raccomandazioni sovranazionali e la giurisprudenza costituzionale ed europea.
[1] D.lgs. n. 149 del 10.10.2022 “Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonchè in materia di esecuzione forzata”.
[2] In “Quaderni di sanità pubblica”, pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 2002 sotto il titolo “World Reporton Violence and Health”, pag. 21.
[3] L’Osservatorio Nazionale sul Diritto di Famiglia – Avvocati di Famiglia è un’associazione forense di rilievo nazionale, nata nel 2001, che riunisce avvocati, magistrati, accademici ed esperti del diritto di famiglia, minorile e delle persone. Le sue finalità sono quelle di promuovere il miglioramento del diritto di famiglia e delle persone, di incentivare l’aggiornamento professionale e scientifico degli operatori del settore, di elaborare proposte legislative e di monitorare prassi giudiziarie e protocolli operativi a livello nazionale e territoriale.
L’ONDIF ha numerose sezioni locali attive in quasi tutte le regioni italiane e ha collaborato spesso alla stesura di protocolli d’intesa con tribunali, servizi sociali, centri antiviolenza e ordini professionali, anche in relazione a situazioni di violenza domestica o mediazione familiare.
[4] L’iniziativa mirava a raccogliere e analizzare in modo sistematico le sentenze penali emesse dal Tribunale di Milano in materia di violenza di genere. L’obiettivo era di identificare le caratteristiche salienti dei procedimenti, come la tipologia di reato, le circostanze aggravanti, le misure cautelari adottate e le pene comminate al fine di ottenere dati empirici utili per comprendere meglio le dinamiche della violenza di genere e per migliorare le strategie di intervento e prevenzione.
[5] La Convenzione di Istanbul, alias la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, adottata a Istanbul l’11.05.2011, è stata ratificata da parte dell’Italia il 27.09.2012 con la Legge n. 77 del 27.06.2013. La Ratifica formale da parte dell’UE avviene ben dieci anni dopo, il 01.10.2023, dopo anni di discussioni tra gli Stati membri, in maniera limitata per le materie di competenza europea: asilo, cooperazione giudiziaria e misure per l’uguaglianza di genere.
All’art. 48 “Proibizione di pratiche di composizione alternativa obbligatoria delle controversie”: “Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per vietare pratiche di composizione alternativa obbligatoria delle controversie, comprese la mediazione e la conciliazione, in relazione a tutte le forme di violenza contemplate dalla presente Convenzione”.
[6] Il disegno di legge 832 sull’affido condiviso dei figli – altrimenti noto come ddl Pillon -.
[7] Art. 6 CEDU – Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: “1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia. 2. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. 3. In particolare, ogni accusato ha diritto di: (a) essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico; (b) disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa; (c) difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia; (d) esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico; (e) farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza”.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News







