Il compenso “a risultato” nella proposta di riforma dell’avvocatura
Sommario: 1. La normativa – 2. Il contenuto della riforma – 3. Profili comparatistici e interrogativi ancora irrisolti – 4. Prospettive future
Nel contesto della più ampia riforma dell’ordinamento forense[1], il tema del compenso dell’avvocato sta tornando al centro del dibattito giuridico e, anzi, ne rappresenta uno degli aspetti più pregnanti e controversi.
Con un testo di 91 articoli, elaborato da un tavolo unitario dell’avvocatura, si è ricominciato a trattare il tema del compenso a risultato – o success fee –, che andrebbe radicalmente a modificare l’impostazione tradizionale della professione forense, basata sul concetto di “obbligazione di mezzi”. Ancorare il compenso professionale al risultato, ossia all’esito positivo che dall’operato del legale ne andrebbe a trarre il cliente/assistito mirerebbe all’obbiettivo di aumentare la responsabilità, l’efficienza e la trasparenza nei rapporti tra professionista e cliente.
1. La normativa
Tradizionalmente, l’attività lavorativa svolta dall’avvocato è qualificata come un’obbligazione di mezzi, ossia un’obbligazione in cui il debitore (id est l’avvocato) si impegna a prestare la propria attività professionale con diligenza, competenza e correttezza, ma senza garantire un determinato esito finale e, dunque, senza assicurare né la vittoria in giudizio né l’ottenimento per il cliente di tutto quanto da lui voluto.
La ratio soggiacente all’impostazione tradizionale descritta dipende da plurimi fattori, tra cui l’imprevedibilità degli esiti processuali – non potendo l’avvocato controllare tutte le variabili, dalle decisioni del giudice al comportamento della controparte – e la necessità di tutelare l’indipendenza e l’etica professionale, evitando pressioni legate al solo esito della controversia.
Per lungo tempo, dunque, l’ordinamento italiano ha vietato patti che subordinassero integralmente il compenso del professionista all’esito della causa, proprio in ossequio ai principi di dignità della professione forense e di tutela del cliente.
Tuttavia, nel 2012, l’art. 13 della Legge 247/2012[2] ha aperto la strada alla pattuizione libera del compenso, pur nel rispetto di equità, trasparenza e adeguatezza. Successivamente, il DM 55/2014[3] e successivi aggiornamenti in tema di parametri forensi nonché le linee guida del CNF (Consiglio Nazionale Forense) sono intervenuti sul punto.
A seguito di tali interventi normativi, il Codice Deontologico Forense, che pur vieta all’art. 25 espressamente il patto quota lite –[4], ammette che una parte del compenso possa essere commisurata al risultato ottenuto, purché ciò avvenga:
con accordo scritto e preventivo;
nel rispetto del decoro professionale;
con la previsione di una parte fissa.
Anche la giurisprudenza, negli ultimi anni, ha mostrato apertura nei confronti di questi orientamenti innovativi in un’ottica più meritocratica del sistema di remunerazione degli avvocati in Italia, evidenziando al contempo il timore di una mercificazione della prestazione legale e, quindi, della necessità di un intervento normativo che, tenendone conto, vada a prevenire ed evitare situazioni di tal fatta.
Si è così arrivati al 2016-2017, quando il tema è stato sollevato da alcune associazioni professionali, che hanno richiesto una revisione delle modalità di determinazione dei compensi, ritenendo che l’attuale sistema non fosse sufficientemente flessibile per rispondere alle esigenze del mercato moderno.
Nel 2018 il CNF, alla luce di tale fermento, ha iniziato a preparare una bozza di riforma, contemplando una parte variabile del compenso legata all’esito della causa, fino ad arrivare al 2020, quando la discussione sulla success fee si è ulteriormente intensificata.
Tra il 2021 e il 2022 il Ministero della Giustizia ha così avviato delle consultazioni pubbliche sul tema, chiedendo pareri ad avvocati, accademici e altre figure istituzionali: il risultato è stato un quadro poliedrico e contrastante per prospettive e opinioni.
2. Il contenuto della riforma
Entrando nel merito della Riforma, la proposta in discussione presso il Ministero della Giustizia – sostenuta da una parte del Consiglio Nazionale Forense – prevede l’esplicito riconoscimento del compenso a risultato come modalità lecita e regolamentata di determinazione del corrispettivo dell’avvocato.
Occorre, però, fare alcune precisazioni, onde dissipare i dubbi sul mutamento integrale della natura dell’obbligazione nascente tra avvocato e cliente – invero mai ipotizzato del tutto -.
Infatti, l’introduzione di compensi legati al risultato non trasforma affatto l’obbligazione dell’avvocato in un’obbligazione di risultato, ma introduce semplicemente un criterio economico fondato sull’esito dell’attività svolta, purché sempre entro limiti contrattuali chiari, con una parte fissa garantita e nel rispetto dei principi deontologici.
Quindi, pur restando la prestazione dell’avvocato un’obbligazione di mezzi, il nuovo sistema permetterebbe di riconoscere premialità economiche collegate al buon esito del lavoro, che non vadano a compromettere la natura giuridica del rapporto.
In particolare, la Riforma mira a valorizzare la qualità e l’efficacia della prestazione professionale, a responsabilizzare l’avvocato, incentivando l’efficienza nella gestione delle pratiche e, soprattutto, a disincentivare il fenomeno delle pratiche difensive dilatorie o inefficienti e, al contrario, a incentivare la risoluzione efficace e tempestiva delle controversie.
Inoltre, tale Riforma potrebbe contribuire a rafforzare la fiducia dei cittadini nei confronti degli avvocati.
A garanzia della figura professionale forense e della libertà e autonomia di azione degli avvocati, la Riforma prevede che comunque il compenso non possa essere interamente subordinato all’esito positivo della controversia – dovendo sempre essere previsto un compenso minimo garantito (la parte fissa non legata al risultato), commisurato all’attività effettivamente svolta – e mantiene la proibizione di compensi sproporzionati o che inducano conflitti di interesse.
3. Profili comparatistici e interrogativi ancora irrisolti
In altri ordinamenti, soprattutto in quelli anglosassoni, la success fee è ampiamente diffusa: nel Regno Unito e negli Stati Uniti la formula del contingency fee[5] è tipica nelle cause civili e, in particolare, in quelle di risarcimento danni.
Tuttavia, come visto, anche l’Italia, pur mantenendo un impianto etico diverso e, per così dire, “più tradizionale”, sembra volersi avvicinare gradualmente ai modelli anglosassoni.
Diverse sono, però, ancora le questioni aperte, che attendono risposte chiare e, in qualche modo, rassicuranti per l’intera categoria.
Quale limite va imposto al compenso variabile? Come garantire che la parte variabile non superi una certa soglia? Infine, come garantire che gli accordi sul compenso siano chiari, comprensibili e ben documentati, così da evitare un numero elevato di contenziosi?
4. Prospettive future
Una cosa è certa: qualora e se la Riforma dovesse essere approvata, probabilmente si avrà un sistema per i compensi dell’avvocato caratterizzato da maggiore flessibilità – in funzione dei risultati -, ma comunque con limiti e garanzie per evitare abusi e distorsioni della Riforma, che non compromettano la dignità della professione.
Insomma, la sfida sarà evitare gli eccessi, garantendo che il compenso resti proporzionato, trasparente e rispettoso dei principi deontologici. Una riforma del genere, se ben attuata, può senza dubbio segnare l’ingresso in una fase più moderna e responsabile della professione legale.
[1] La riforma in questione prende in parte le mosse da una direttiva europea (Direttiva 2013/55/UE) sul riconoscimento delle qualifiche professionali, ma è anche il frutto di una riflessione interna sulla futura evoluzione della professione forense, in un progetto di modernizzazione del sistema giuridico italiano, che include la semplificazione delle procedure e l’adozione di nuove tecnologie, ma anche la necessità di rispondere a nuove sfide economiche e sociali.
[2] Art. 13 Legge n. 247 del 31.12.2012 (Nuova disciplina dell’ordinamento forense) – “Compenso dell’avvocato”: “Il compenso dell’avvocato per l’attività professionale è determinato secondo i criteri di cui agli articoli 11 e 12 e deve essere comunque proporzionato all’importanza dell’opera prestata e al risultato conseguito.
Il compenso può essere determinato: a) secondo le tariffe professionali adottate dal competente Consiglio dell’Ordine; b) secondo accordi liberi tra l’avvocato e il cliente, anche in funzione del risultato ottenuto, con l’osservanza dei principi di cui al presente articolo.
Gli accordi tra l’avvocato e il cliente sul compenso sono validi, purché siano chiari e preventivamente concordati, e non risultino manifestamente inadeguati rispetto alla natura e alla difficoltà dell’incarico.
Il compenso per l’attività professionale dell’avvocato deve essere congruo, tenuto conto anche dei parametri di riferimento eventualmente stabiliti dal Ministero della Giustizia, nonché dei costi sostenuti e delle attività svolte.
In caso di controversia sul compenso, l’avvocato e il cliente sono tenuti a ricorrere ad una procedura di conciliazione”.
[3] Decreto n. 55 del 10.03.2014 “Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell’articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247”.
[4] “Una volta accertata la violazione del divieto del patto di quota lite (art. 13 L. n. 247/2012 e art. 25 cdf), nessun rilevo assume l’eventuale proporzionalità e ragionevolezza del compenso così pattuito” Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Corona, rel. Corona), sent. n. 351 del 27.09.2024
[5] Id est: “compenso di risultato”.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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