
La nuova fattispecie di “rivolta” in carcere nel decreto “sicurezza” tra incostituzionalità e inciviltà
di Michele Di Salvo
Il D.L. 11 aprile 2025, n. 48 (c.d. decreto Sicurezza), convertito nella legge 80 del 9 giugno 2025, tra varie modifiche attinenti all’ordinamento penitenziario ha introdotto il nuovo delitto di “rivolta in carcere”, includendolo tra i delitti ostativi ai benefici penitenziari.
La nuova fattispecie incriminatrice presenta aspetti di criticità, sia in ragione dell’indeterminatezza di alcuni elementi costitutivi del reato che dello sbilanciamento verso alcuni beni di rilievo costituzionale, a discapito di altri, senza un apparente criterio di ragionevolezza.
Ciò ha posto sin da subito rilievi sulla sua costituzionalità.
L’art. 26 del decreto-legge 11 aprile 2025, n. 48, prevede una modifica peggiorativa all’art. 415 del codice penale (Istigazione a disobbedire alle leggi) ed introduce ex novo l’art. 415-bis (Rivolta all’interno di un istituto penitenziario).
Il fine dichiarato sarebbe il “rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari”.
L’art. 27 del decreto-legge estende poi il nuovo reato di rivolta penitenziaria alle strutture per il trattenimento dei migranti di cui agli arti. 10-ter e 14 del del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.
Con questa doppia lettura appare innanzitutto evidente un pericoloso accostamento ideologico-sistemico tra struttura carceraria e strutture per la prima ricezione dei migranti, distinte in tutto, dalle forme al fine, all’obiettivo della permanenza, alla condizione giuridica di chi vi è ospitato, ed accomuniate – dovrebbe così essere – solo dall’essere “strutture pubbliche” e di un tipo particolare: quelle strutture all’interno delle quali in via estesa il benessere (complessivo) dell’ospitato incombe come responsabilità sullo Stato.
L’art. 415 c.p. titolato “Istigazione a disobbedire alle leggi”, è una disposizione tipica della filosofia autoritaria che ha ispirato il codice penale del 1930 e prevede che “Chiunque pubblicamente istiga alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico, ovvero all’odio fra le classi sociali, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni “.
Si tratta di un reato attualmente di rarissima applicazione e che avrebbe ben meritato, nei decenni successivi alla entrata in vigore della Costituzione, se on una abrogazione per la sua manifesta e dimostrata inutilità, quanto meno un forte ridimensionamento e nuova declinazione costituzionalmente orientata.
Al contrario, il Governo ha inteso aggiungere un secondo comma del seguente contenuto: “La pena è aumentata se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario ovvero a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute”.
La relazione che accompagna il d.d.l. di conversione del decreto-legge non illustra le ragioni di questa ipotesi aggravata del delitto originario: in particolare nulla dice in ordine alla specifica indicazione di “scritti o comunicazioni diretti a persone detenute”.
Lo scopo sembra dunque essere quello di punire qualunque forma di comunicazione dall’esterno che possa essere interpretata quale istigazione alla disobbedienza: si noti, “disobbedienza”, non “resistenza” o “violenza”.
Chiariamo: nella fattispecie di reato, secondo una stringente interpretazione, potrebbe finire anche chi, dall’esterno, regali ad un detenuto il libro “antiche come le montagne” di Ghandi, per i chiari riferimenti ala disobbedienza in esso contenuti, quasi fosse un manuale istigatorio.
Se questa interpretazione appare forzata, nella lettura della norma non vi è alcuna indicazione contraria, se non un vago auspicio di una interpretazione soggettiva di buonsenso, speranza che non si addice affatto ad una norma penale.
Ai fini della sussistenza del reato, costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva.
Le condotte previste sono quelle commesse da chiunque, in numero di tre o più persone riunite, all’interno di un istituto penitenziario o di un centro per stranieri, partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza: la pena è quella della reclusione da uno a cinque anni. Ai fini della sussistenza del reato, costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza.
Se si fa una lettura anche solo semantica, il sostantivo “rivolta” non fa parte del lessico giuridico penale comune, anzi ve ne è traccia in un solo caso, marginale, previsto dal Codice penale militare di pace all’art. 174, che punisce alcune condotte di grave disobbedienza commessi da militari in servizio.
Nella Relazione al Re del Guardasigilli Rocco per l’approvazione del testo definitivo del Codice penale del 1930, non si rinviene la parola “rivolta”.
Il termine è definito nel Vocabolario Treccani come “L’azione e il fatto di rivoltarsi contro l’ordine e il potere costituito (è più che sommossa, ma indica azione più improvvisa e meno estesa e organizzata rispetto a rivoluzione)”
Si tratta perciò di un termine atecnico e già per questa ragione si possono immaginare future difficoltà interpretative.
Anche perché se la “rivolta” è “improvvisa e meno estesa e organizzata” mal si concilia con quella organizzazione della commissione del fatto “in numero di tre o più persone riunite”, si deve supporre con uno scopo preorganizzato e concordato (ma anche su questo la norma nulla dice on chiarezza).
Le condotte descritte come integranti la nuova fattispecie erano tutte già previste da altre disposizioni vigenti:
– l’articolo 41 dell’OP, “Impiego della forza fisica e uso dei mezzi di coercizione”, dispone infatti che “Non è consentito l’impiego della forza fisica nei confronti dei detenuti e degli internati se non sia indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti”;
– la resistenza ad un ordine, purché legittimo, è prevista come reato dall’art. 337c.p. così come il danneggiamento di edifici, cose e arredi (art. 635c.p. aggravato ove si tratti di beni pubblici) e l’evasione (art. 385c.p. aggravata dall’uso di violenza o minaccia), che può essere anche “tentata”.
Rimane perciò oscura la ragione essenziale – che dovrebbe essere la regola in tema di diritto penale – che ha indotto il Governo ad introdurre il nuovo reato per condotte già punite da norme vigenti: inoltre in mancanza di qualsivoglia indicazione al riguardo, non è chiaro cosa accada, ad esempio, in caso di “rivolta” compiuta attraverso atti di resistenza attiva o minaccia nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria e in genere del personale degli istituti.
Prevede infatti l’art. 337c.p. primo comma, che “Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”.
Il secondo comma, aggiunto dall’art. 19 del decreto-legge qui considerato, prevede poi che se il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza, la pena è aumentata fino alla metà, potendo quindi arrivare sino a sette anni e sei mesi.
Il nuovo reato di “rivolta”, il bene giuridico protetto del quale non sembra poter essere individuato che nello stesso della “resistenza” all’autorità, sembra perciò essere punito meno gravemente della resistenza aggravata di cui al neo introdotto secondo comma.
Nel concorso fra le due ipotesi criminose potrebbe però ravvisarsi assorbimento anziché concorso, con conseguente possibile irragionevolezza della nuova previsione. Ma anche qui siamo nel massimo della possibile discrezionalità non essendo fornita alcuna indicazione ermeneutica.
Il capolavoro si raggiunge poi con la equiparazione, ai fini penali, della resistenza passiva a quella attiva che stabilisce una abnorme dilatazione della fattispecie penale sino alla semplice inesecuzione degli ordini impartiti, senza che la condotta assuma i connotati di una resistenza aggressiva connotata da atteggiamenti violenti o minatori.
La resistenza passiva, per la giurisprudenza, non integra il reato di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) e non autorizza il ricorso all’uso delle armi ai densi dell’art. 53 c.p., il che lascia intendere già prima facie una diversa considerazione ab origine, orientata quanto meno al “senso di buon senso” di distinguere tra l’azione e la non azione.
La “non azione” tipica della resistenza passiva diventa invece ora penalmente rilevante nel contesto degli istituti penitenziari o dei centri per immigrati, ossia in contesti caratterizzati da rapporti di forza ed evidente supremazia tra le persone ristrette e il personale dell’amministrazione.
Il riferimento al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, all’impedimento del compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza sono concetti talmente generici da essere estensibili pressoché in qualsiasi contesto.
La resistenza passiva può sostanziarsi in uno sciopero della fame, nel rifiuto di rientrare dopo l’ora d’aria, nel restare in cella ed in moltissimi altri modi.
Si tratta di manifestazioni di dissenso, per loro stessa definizione non violente, che costituiscono spesso l’unico modo per far conoscere all’esterno le proprie rimostranze, il proprio malessere, il legittimo dissenso.
Sembra allora che si voglia reprimere ogni atto sgradito all’autorità di governo ed amministrativa, anche quando lo stesso non arrechi alcuna offesa ad un interesse meritevole di tutela nel nostro sistema costituzionale e sia espressione di libertà di pensiero e di legittima protesta.
L’introduzione di un nuovo reato, dall’altisonante titolo di “rivolta”, anche se passiva, esprime chiaramente l’intenzione di criminalizzare, anziché governare, il sistema delle pene e dell’ordine negli istituti penitenziari e nei centri di trattenimento dei migranti.
La forza pura e semplice e l’obbedire sempre e comunque.
Indipendentemente dalla sanzione, l’impianto “ideologico-filosofico” che sta alla base di questa nuova norma risulta già di per sé la sua incostituzionalità almeno manifestamente rispetto agli articoli 2, 21 e 27 della Costituzione.
Ma essendo una norma penale, dalla semplice disamina linguistica, appare chiaramente priva di quella tassatività che impone al legislatore di formulare le fattispecie di reato in modo chiaro, preciso e dettagliato, per garantire che i cittadini possano conoscere e discernere con certezza i comportamenti leciti da quelli illeciti.
Questa caratteristica, strettamente legata al principio di legalità e al divieto di analogia in malam partem, serve a evitare ambiguità, impedire l’arbitrio del giudice e assicurare il diritto di difesa, creando un legame certo tra la fattispecie astratta e il fatto concreto
Sembra mancare anche di un chiaro “bene giuridico” da tutelare, che potrebbe guidare ermeneuticamente l’interpretazione sistemica della norma, e ciò anche e soprattutto perché eventuali fatti e atti concreti sono già oggetto di altre previsioni normative.
Il chiaro intento invece traspare in tutta la sua portata di inciviltà.
Vengono messi sullo stesso piano e nello stesso ambito penale strutture detentive e strutture riservate ai migranti, in ciò omologando le due fattispecie soggettive di veri e propri detenuti (senza estenderne eventualmente le garanzie e i diritti).
Quella che viene sanzionata di fatto – con la minaccia della privazione anche di benefici costituzionalmente previsti e costituzionalmente orientati – è qualsiasi forma di dissenso e manifestazione del proprio pensiero.
Cosa che stona particolarmente nel contesto concreto di una condizione carceraria in cui viene – dallo Stato – violata qualsiasi norma di civiltà: dalle norme sanitarie, agli spazi di vivibilità nelle celle, alle condizioni di vita comune, alle opportunità di reinserimento.
I benefici di legge sono previsti non già come “premio” che si può togliere, ma in base a precise condotte che consentano il reinserimento e il recupero della persona temporaneamente affidata nella detenzione “alle cure dello Stato” con lo scopo non punitivo ma di recupero ala società.
Un cittadino, sebbene in carcere per un fatto criminale compiuto e accertato con sentenza, che manifesti pacificamente e in forme non violente per la difesa di un proprio diritto (ad esempio ad una cella non iper-affollata, o a servizi igienici decorosi) è un cittadino che con questa manifestazione già dimostra, con la consapevolezza di un diritto, di essere ampiamente in un percorso di reinserimento, specie laddove scelga – semmai in concerto con altri – forme non violente.
Del resto è impensabile un reinserimento in società per persone che non si aggregano e che agiscono nella sola individualità.
Nonostante le sentenze di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo e i quasi dieci anni trascorsi dalla famosa decisione Torreggiani, il sistema penitenziario italiano e, in particolare, la situazione nelle carceri, denunciano persistenti profili di illegalità, in violazione dell’articolo 27 della Costituzione e dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Si pensi al sovraffollamento carcerario e alle conseguenze sugli individui in termini di salute fisica e psichica, all’abuso della custodia cautelare, ai non rari episodi di violenze fisiche e psicologiche, ai regimi speciali di detenzione, che spesso ignorano gli obiettivi basilari del sistema penitenziario, quale preminente il fine rieducativo della pena, nel rispetto della dignità umana. Una riforma organica del sistema è quindi urgente, ove l’Italia voglia ancora qualificarsi “Stato di diritto”.
Il tasso medio di sovraffollamento delle carceri italiane nel 2025 ha superato il 134%, con un numero di detenuti in aumento rispetto all’anno precedente e alcuni istituti che registrano picchi oltre il 190% o il 200%. Questo fenomeno è aggravato da posti letto non disponibili e porta a condizioni di vita estremamente difficili per i detenuti, con conseguenze come l’aumento dei suicidi e un elevato numero di detenuti in celle sovraffollate per molte ore al giorno.
Nel contesto dei fatti denunciati ad esempio a Santa Maria Capua Vetere questa norma sembra quasi punitiva nel contesto generale in cui nulla si fa per adeguarsi al diritto europeo ed a semplici norme di civiltà.
Purtroppo il motivo delle inerzie è tanto semplice e banale quanto disarmante.
I detenuti “non votano” e le loro famiglie difficilmente diventano elettori di questa o di quell’altra parte in funzione del fatto che il loro congiunto non sia costretto a vivere in meno di 3 metri quadri.
Nella logica del machismo il codice penale non è “l’ultimo rimedio residuale” per intervenire dove altri rimedi non possono, ma diviene “la soluzione (apparentemente) a costo zero” per affrontare le emergenze sociali (migranti, tossicodipendenti, quando non senza fissa dimora e malati di mente).
Inasprire le pene comunica un “governo attivo e attento” (e le vittime votano e soprattutto portano voti!), mentre migliorare la situazione carceraria viene vista quasi come un’offesa alle vittime e un premio per chi delinque.
Sino a quando questo approccio culturale non cambierà sarà impensabile che si metta mano seriamente alla situazione carceraria.
Nel frattempo siamo tutti corresponsabili di questa inciviltà.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
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