Stalking: tra la paura reale e la labile soglia dell’illecito penale
di Angelica Proietti
Tra le fattispecie penali maggiormente presenti nei fascicoli delle Procure italiane, quella prevista dall’art. 612-bis c.p. – i cosiddetti “atti persecutori”, più noti come “stalking” – rappresenta senza dubbio uno dei reati più insidiosi da accertare e, al tempo stesso, più attenzionati dalla cronaca giudiziaria.
Una categoria delittuosa che si è conquistata, con drammatica costanza, un posto fisso nei procedimenti penali soprattutto laddove l’imputato rivesta la qualifica, mai giuridicamente banale, di “ex”: ex coniuge, ex fidanzato, ex convivente. D’altronde, in un Paese in cui anche i sentimenti litigano in tribunale, era inevitabile che l’ordinamento si attrezzasse per intercettare le derive patologiche dell’affetto tradito.
La struttura della fattispecie e la natura abituale del reato
Il secondo comma dell’art. 612-bis c.p. introduce una circostanza aggravante di carattere comune: il reato assume maggiore gravità qualora sia commesso da soggetti legati – o già legati – da una relazione affettiva con la persona offesa. È una aggravante che riflette, in filigrana, la consapevolezza del legislatore circa il rischio di degenerazione nelle dinamiche relazionali concluse, laddove la passione si converte in ossessione e la delusione in controllo.
Il delitto in questione è, per sua natura, abituale: non può configurarsi in presenza di una singola condotta, per quanto sgradevole, invasiva o persino intimidatoria. La reiterazione – anche attraverso modalità differenti – costituisce il fulcro unificante della tipicità penale, come ricordato dalla Cassazione nella sentenza n. 20536/2019. In altri termini, non conta solo “cosa” viene fatto, ma soprattutto “quante volte” e “con quale ricaduta sulla vittima”.
L’evento richiesto: danno concreto o pericolo percepito
Affinché si integri la fattispecie di reato, le condotte devono provocare uno degli eventi alternativi previsti dalla norma: – un evento di danno, consistente in un apprezzabile alterazione delle abitudini di vita; – oppure un evento di pericolo, riconducibile a un fondato timore per la propria incolumità o per quella di un prossimo congiunto.
È irrilevante che tale mutamento giunga a conseguenze estreme: la giurisprudenza ritiene sufficiente anche una modificazione “sensibile” e “qualitativamente significativa” delle abitudini quotidiane, purché non del tutto occasionale (Cass. pen., sent. n. 47135/2022).
In tal senso, è richiesta una valutazione emotiva, non meccanicamente numerica. Il giudice non è chiamato a contare i passi modificati nel tragitto casa-lavoro, ma a cogliere il senso del peso psicologico subito dalla persona offesa. Come a dire: la lesione non è nella mappa dei movimenti, ma nella coscienza con cui questi vengono compiuti.
Il confine tra reato e contravvenzione: la sottile linea della molestia
La condotta persecutoria può, in certi casi, essere confusa – o ridimensionata – nella più tenue figura contravvenzionale prevista dall’art. 660 c.p., che punisce la molestia o il disturbo alle persone. Tuttavia, quest’ultima norma viene assorbita nel reato di stalking ogniqualvolta vi sia un effettivo scivolamento dalla semplice irritazione al concreto turbamento della libertà psichica e della sicurezza personale della vittima.
Il concorso apparente di norme viene, in tal caso, risolto in favore della disposizione più grave (art. 612-bis c.p.), qualora si accerti una sofferenza ulteriore, non riducibile al mero fastidio. Lo ha ribadito, con chiarezza cristallina, la Cassazione penale nella sentenza n. 27909 del 10 maggio 2021, delineando il criterio discretivo nella diversa “intensità delle conseguenze”: – reato contravvenzionale, se la molestia si traduce in un’insofferenza passeggera; – delitto di atti persecutori, se conduce a una compromissione stabile della serenità interiore o della libertà di autodeterminazione.
L’onere del giudice e la sfida dell’indeterminatezza
La responsabilità interpretativa ricade sul giudice, chiamato a scandagliare l’animo della vittima e a stabilire se l’invasione subita superi la soglia del penalmente rilevante. In questo contesto, la discrezionalità è amplissima, anche perché la legge fornisce – a tratti – definizioni poco ancorate alla realtà dei vissuti psicologici.
Non è raro, infatti, che ci si trovi al cospetto di norme dai contorni vaghi, che oscillano tra l’imprecisione semantica e l’eccesso di astrazione: un terreno minato per chi deve decidere della libertà altrui. Ma la funzione della giurisprudenza, si sa, è proprio quella di “fare i conti con l’umano”, senza nascondersi dietro la pretesa infallibilità della lettera della legge.
Conclusione: tra repressione del reato e tutela effettiva
In ultima analisi, spetterà sempre al giudice, caso per caso, valutare l’effettiva incidenza delle condotte sulla sfera psico-fisica della vittima. Qualora emergano elementi di concretezza e gravità, potrà confermare l’imputazione per il delitto di atti persecutori, eventualmente aggravato. In caso contrario – laddove l’invasività non si trasformi in reale vulnerazione – potrà configurarsi una derubricazione alla contravvenzione di cui all’art. 660 c.p.
In entrambi i casi, la giustizia penale è chiamata a misurare – con rigore e umanità – il sottile confine tra il legittimo diritto alla tranquillità e la violazione sistematica della libertà morale. E se è vero che la legge, come scriveva Calamandrei, “deve essere austera, ma non cieca”, allora sarà il bilanciamento tra norma e persona a guidare la decisione giusta.
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