Abusivismo edilizio e comproprietà immobiliare

Abusivismo edilizio e comproprietà immobiliare

Il presente contributo si presta ad analizzare l’istituto della nullità prevista dagli artt. 17 e 40 della L. 47 del 1985 e 46 del T.U. n. 380 del 2001, entrato in vigore il 30/06/2003. Per meglio dire, verrà di seguito riportata l’interpretazione dell’indicata sanzione fornita dalla Suprema Corte che, a Sezioni Unite, con la pronuncia n. 8230/2019, ha provveduto a dirimere il contrasto giurisprudenziale sulla natura della predetta nullità per violazione delle norme in materia urbanistica ed edilizia, a seguito di ordinanza interlocutoria 20061/18 del 9 gennaio 2018 emessa dalla Seconda Sezione.

La disquisizione teorica sulla natura formale o sostanziale della nullità in oggetto adduce una chiara valenza pratica, di notevole portata, poiché serve a comprendere quando un immobile possa ritenersi commerciabile oppure no, avendo sempre a mente le finalità proprie della disciplina in esame, ovverosia disincentivare l’abusivismo edilizio e tutelare l’affidamento della parte acquirente nei rapporti negoziali.

Occorre anzitutto premettere che l’esercizio dello jus aedificandi soggiace a molteplici limitazioni, tra le quali si annovera il permesso di costruire –titolo autorizzativo- di cui all’art. 10 del T.U. sull’edilizia, che deve essere richiesto dal privato alla pubblica amministrazione prima di eseguire un qualsivoglia intervento di trasformazione urbanistica ed edilizia. Il permesso di costruire, quale autorizzazione amministrativa ha sostituito la c.d. licenza per l’esecuzione di nuove costruzioni, l’ampliamento di quelle esistenti, la modifica di struttura o dell’aspetto dei centri abitati, nonché la c.d. concessione edilizia.

Già la L. 47/1985, denominata “Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie”, all’art. 17 disponeva che: “gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo l’entrata in vigore della presente legge, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi della concessione ad edificare o della concessione in sanatoria rilasciata ai sensi dell’art. 13. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù”.

Depone in tal senso anche il tenore letterale dell’art. 46 del d.P.R. n. 380: “Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù, ed inoltre, gli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali, ai quali le nullità, appunto, non si applicano (artt. 46, co. 5, T.U. n. 380 del 2001; 17, co. 5, della L. n. 47 del 1985)”.

Dalla lettura delle norme testé richiamate, sorge spontanea la domanda relativa alle modalità attraverso le quali il promittente venditore può addivenire alla stipula del contratto di compravendita avente ad oggetto un immobile abusivo. Sul punto, occorre distinguere l’eventualità che l’immobile abusivo sia suscettibile di sanatoria poiché gli interventi risultano conformi agli strumenti urbanistici ed edilizi relativi al tempo in cui i medesimi interventi sono stati eseguiti e al tempo in cui è stata presentata la domanda di sanatoria (c.d. doppia conformità), dalla eventualità che l’immobile in questione risulti sprovvisto dei requisiti necessari per ottenere la sanatoria, stante la difformità assoluta rispetto agli strumenti urbanistici passati ed attuali. Così che, in quest’ultima ipotesi, l’unica possibilità per il proprietario dell’immobile di vendere il bene sia commisurata all’eventualità che il predetto soggetto abbia presentato un’istanza di condono che possegga tutti i requisiti minimi utili all’emanazione di un provvedimento favorevole di accoglimento dell’istanza da parte della pubblica amministrazione. Tanto è vero che il condono edilizio consente di sanare, entro certi limiti di carattere temporale, qualitativo e quantitativo, tutti gli abusi conformi o non conformi alla strumentazione urbanistica ed edilizia (esempi di condono edilizio, per alcune tipologie di fabbricati ed irregolarità edilizie in riferimento ad abusi commessi fino al 31 dicembre 1991 e fin al 31 marzo 2003, rispettivamente introdotti con la L. n. 274 del 1994 e con il D.L. n. 269 del 2003).

Si ricorda, altresì, che la giurisprudenza amministrativa ha introdotto la c.d. “sanatoria giurisprudenziale”, ampliando così il novero delle modalità sananti gli abusi edilizi, affermando la legittimità del rilascio del titolo abilitativo fondato sulla conformità dell’intervento edilizio alla normativa urbanistica vigente, al momento della domanda del rilascio del titolo, indipendentemente dalla normativa vigente al tempo dell’esecuzione dell’opera.

Tornando adesso alla pronuncia nomofilattica della Corte di Cassazione e, in particolare, alla disamina relativa alla natura formale o sostanziale della comminatoria della nullità disposta dalla legge, si ritiene opportuno individuare celermente gli argomenti principali posti a sostegno di ciascuna delle due tesi contrapposte, a cui la pronuncia da ultimo menzionata fa espresso riferimento e che qui si intende richiamata integralmente.

Quanto alla teoria formale, i fautori di questa tesi hanno ritenuto che la nullità cui fa espressamente cenno la disciplina legislativa sopra richiamata, sia assoluta e può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e rilevabile d’ufficio ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1421 e 1418 c.c..  Parimenti, le norme cui si è fatto cenno comminano con la sanzione della nullità la mera assenza testuale nel contratto delle dichiarazioni dell’alienante sugli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Il rimedio apprestato dall’ordinamento deve essere rinvenuto nella convalida dell’atto invalido, mediante cui è possibile emendare l’atto viziato con un altro atto contenete tutti i requisiti formali richiesti a pena di nullità, sempreché non vi siano irregolarità sostanziali legate alla incommerciabilità del bene (ex multis, Cass. n. 8147/2000). Si è argomentato nel senso di risolvere la questione legata alla negozialità degli immobili abusivi con lo strumento dell’inadempimento. Così, in tema di contratto preliminare di compravendita, si è ritenuto di non scarsa importanza –tale da giustificare il recesso da parte del promittente acquirente- il comportamento del promittente alienante che offra in vendita un bene affetto da vincolo di inedificabilità assoluta e al di fuori di ogni possibilità di regolarizzazione (in tal senso, si v. Cass. n. 2712972006). La situazione prospettata in questi termini è diversa da quella che, invece, vede il promittente alienante protagonista di una vicenda amministrativa, ove l’istanza di condono edilizio ed il pagamento delle prime due rate dell’oblazione, dimostrino che sussistono in concreto quei requisiti minimi di accoglimento dell’istanza di condono avanzata dal privato nei confronti della P.A., pena la risoluzione del contratto per colpa del venditore (Cass. n. 20714/2012).

Secondo la teoria sostanziale, invece, le norme oggetto di odierna disamina devono essere interpretate nel senso che comminano la sanzione della nullità alla difformità tra il bene venduto e il progetto assentito e non alla mera assenza nel contratto delle dichiarazioni dell’alienante. Questo indirizzo ermeneutico trova la sua origine nella pronuncia n. 20258/2009 e la sua compiuta sistemazione nella sentenza n. 23591/2013: <<il contratto avente ad oggetto un bene irregolare dal punto di vista edilizio è affetto da nullità sostanziale>>. In primis perché lo scopo della norma sarebbe quello di contrastare l’abusivismo edilizio, in secundis perché sembra che l’art. 40 L.47/1985 debba essere inteso nel senso che può essere consentita la conferma dell’atto nel caso in cui la mancanza della dichiarazione o il deposito dei documenti non siano dipesi dall’insussistenza della domanda di concessione in sanatoria al tempo della stipulazione.

Tuttavia, secondo l’orientamento da ultimo esposto, sembrerebbe che “l’interpretazione letterale dell’art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 considera, invalidi quegli atti da cui non constino (ove da essi non risultino) gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria, ovvero gli estremi della segnalazione certificata di inizio attività. Ancora, nella disposizione di cui all’art. 17 della L. n. 47 del 1985, la dichiarazione deve avere ad oggetto, coerentemente alla disciplina abilitativa allora vigente, gli estremi della concessione ad edificare o della concessione in sanatoria, laddove l’art. 40 della menzionata L. n. 47, consente di stipulare validamente, oltre che con l’indicazione degli estremi della licenza o della concessione in sanatoria, anche con l’allegazione della relativa domanda e versamento delle prime rate di oblazione, o con la dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante l’inizio della costruzione in epoca anteriore al 2 settembre 1967”. Non potendosi allora convenire con la giurisprudenza che ritiene trattasi di nullità virtuale di cui al primo comma dell’art. 1418 c.c., che presuppone l’esistenza di una norma imperativa ed un divieto generale di commerciabilità di immobili abusivi. Così non è, perché la legge menziona forme specifiche di nullità. Dunque, si deve piuttosto ammettere che la nullità in oggetto abbia natura testuale ex art. 1418, comma terzo, c.c., secondo quanto argomentato dai sostenitori della teoria formale. L’analisi congiunta dei commi primo e quarto dell’art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 suggerisce invero che, a fronte del primo comma che sanziona con la nullità specifici atti carenti della dovuta dichiarazione, il quarto comma ne prevede, come sopra anticipato, la possibilità di conferma –convalida-, nella sola ipotesi in cui la mancata indicazione dei prescritti elementi non sia dipesa dalla insussistenza del titolo abilitativo.

Per tradurlo in parole fatte proprie dalla Cassazione, la quale ha sconfessato la teoria sostanziale della nullità: <<il contratto sarà in conclusione valido, e tanto a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo in esso menzionato, e ciò per la decisiva ragione che tale profilo esula dal perimetro della nullità, in quanto, come si è esposto al § 6.5., non è previsto dalle disposizioni che la comminano, e tenuto conto del condivisibile principio generale, affermato nei richiamati , precedenti, arresti della Corte, secondo cui le norme che, ponendo limiti all’autonomia privata e divieti alla libera circolazione dei beni, sanciscono la nullità degli atti debbono ritenersi di stretta interpretazione, sicché esse non possono essere applicate, estensivamente o per analogia, ad ipotesi diverse da quelle espressamente previste>>.

Le conseguenze annesse alla situazione prospettata in questi termini possono così sintetizzarsi: l’acquirente dell’immobile abusivo non perderà la proprietà dell’immobile abusivo acquistato, poiché il contratto rimane valido e non sarà esposto alla nullità; tuttavia rimarrà esposto alle prescrizioni vigenti in materia urbanistica. Poiché, come è noto, la sanzione della demolizione ex art. 31 TUE resta comminabile in relazione ad interventi edilizi eseguiti in totale assenza di permesso di costruire e in caso di totale difformità dallo stesso, ovvero realizzato con variazioni essenziali, stante l’imprescrittibilità del potere dell’amministrazione di eseguire l’ordine di demolizione, che può essere imposto a chiunque sia, in quel determinato momento, il proprietario dell’immobile. Ma, sul piano civilistico, con riferimento alla validità del contratto di compravendita, a nulla rileva quindi la distinzione tra variazioni essenziali e non essenziali rispetto al permesso di costruire, che per la dottrina e la giurisprudenza costituiva la linea di confine tra immobili commerciabili o meno.

Per mero scopo di approfondimento della vicenda, a chiosa delle argomentazioni fin qui svolte, si ritiene utile evidenziare che le SS.UU. della Cassazione hanno affermato importanti principi di diritto anche in tema di divisione giudiziale e/o ordinaria: << la divisione giudiziale parziale dell’asse ereditario con esclusione del fabbricato abusivo che ne faccia parte è certamente ammissibile, quando vi sia la concorde volontà di tutti i coeredi. Allorquando tra i beni costituenti l’asse ereditario vi siano edifici abusivi, ogni coerede ha diritto, ai sensi dell’art. 713 c.c., comma 1, di chiedere e ottenere lo scioglimento giudiziale della comunione ereditaria per l’intero complesso degli altri beni ereditari, con la sola esclusione degli edifici abusivi, anche ove non vi sia il consenso degli altri condividenti (…) In forza delle disposizioni eccettuative di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46, comma 5 e al L. n. 47 del 1985, art. 40, commi 5 e 6, lo scioglimento della comunione (ordinaria o ereditaria) relativa ad un edificio abusivo che si renda necessaria nell’ambito dell’espropriazione di beni indivisi (divisione c.d. “endoesecutiva” o nell’ambito del fallimento (ora, liquidazione giudiziale) e delle altre procedure concorsuali (divisione c.d. “endoconcorsuale”) è sottratta alla comminatoria di nullità prevista, per gli atti di scioglimento della comunione aventi ad oggetto edifici abusivi, dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 46, comma 1, e dalla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, comma 2>>.


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