Alle Sezioni Unite la differenza tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni

Alle Sezioni Unite la differenza tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni

Cassazione Penale, Sez. II, Ord. 16 dicembre 2019 (ud. 25 settembre 2019), n. 50696, Pres. Rago, Rel. Recchione

Con ordinanza n. 50696 del 16.12.2019 la Seconda Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite le seguenti questioni: se i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione siano differenziabili sotto il profilo dell’elemento materiale ovvero dell’elemento psicologico; in caso si ritenga che l’elemento che li differenzia debba essere rinvenuto in quello psicologico, se sia sufficiente accertare, ai fini della sussumibilità nell’uno o nell’altro reato, che la condotta sia caratterizzata da una particolare violenza o minaccia, ovvero se occorra accertare quale sia lo scopo perseguito dall’agente; se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, debba essere qualificato come reato comune o di “mano propria” e, quindi, se e in che termini sia ammissibile il concorso del terzo non titolare della pretesa giuridicamente tutelabile.

Giova da subito precisare che la Corte, opportunamente, in apertura ha avuto cura di precisare che il contrasto rilevato risulta circoscritto ai soli casi in cui l’aggressione alla persona sia funzionale alla soddisfazione di un diritto tutelabile innanzi all’autorità giudiziaria, essendo pacificamente inquadrate come estorsioni le condotte funzionali a soddisfare pretese sfornite di tutela.

Orbene, posta tale circostanziata premessa, di seguito la ricostruzione effettuata dal collegio rimettente.

La Seconda Sezione penale ha osservato come la questione relativa all’inquadramento delle condotte violente dirette a soddisfare un diritto giudiziariamente tutelabile nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni piuttosto che in quello di estorsione ha diviso la giurisprudenza, che ha espresso due macro orientamenti: (a) l’uno effettua la diagnosi differenziale tra i reati valorizzando le differenze tra gli elementi oggettivi; (b) l’altro distingue le fattispecie valorizzando l’elemento psicologico.

All’interno di questo secondo orientamento si distinguono poi sentenze che valorizzano come elemento di differenziazione solo l’emersione della direzione della volontà alla soddisfazione del credito e quelle che, invece, ritengono che le modalità della condotta e dunque l’intensità della violenza e della minaccia rilevino ai fini del possibile riconoscimento del dolo dell’estorsione.

Tornando alla macro divisione, evidenza la Corte come secondo il primo orientamento, ovvero quello che valorizza le differenze tra gli elementi oggettivi, il discrimine tra le fattispecie è rinvenuto nel livello di “gravità della violenza o della minaccia” che, se particolarmente elevato, giustifica l’inquadramento della condotta come estorsione (Sez. 2, n. 33712 del 08/06/2017 – dep. 11/07/2017, Michelini e altri, Rv. 270425; Sez. 5, n. 28539 del 14/04/2010 – dep. 20/07/2010, P.M. in proc. Coppola, Rv. 247882; Sez. 2, n. 47972 del 01/10/2004 – dep. 10/12/2004, Caldara ed altri, Rv. 230709).

Secondo questo filone interpretativo nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta violenta o minacciosa non è fine a sé stessa, ma è strettamente connessa alla finalità dell’agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento l’aggressione contro la persona si pone come elemento accidentale, per cui non può mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza; sicché quando la minaccia si estrinseca in forme di tale forza intimidatoria e di tale sistematica pervicacia che vanno al di là di ogni ragionevole intento di far valere un diritto, allora la coartazione dell’altrui volontà è finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri dell’ingiustizia (Sez. 2, n. 56400 del 22/11/2018 – dep. 14/12/2018, Iannuzzi, Rv. 274256; Sez. 1, n. 6968 del 20/07/2017 – dep. 13/02/2018, P.G. in proc. Rottino e altri, Rv. 272285; Sez. 2, n. 33712 del 08/06/2017 – dep. 11/07/2017, Michelinì e altri, Rv. 270425; Sez. 6, n. 11823 del 07/02/2017 – dep. 10/03/2017, P.M. in proc. Maisto, Rv. 270024; Sez. 2, n. 51013 del 21/10/2016 – dep. 30/11/2016, Arcidiacono, Rv. 268512; Sez. 2, n. 41452 del 19/07/2016 – dep. 04/10/2016, Stillitano, Rv. 268537, Sez. II, n. 1921 del 18 dicembre 2015, dep. 2016, Li, rv. 265643; Sez. II, n. 44657 dell’8 ottobre 2015, Lupo, rv. 265316; Sez. II, n. 44476 del 3 luglio 2015, Brudetti, rv. 265320; Sez. VI, n. 17785 del 25 marzo 2015, Pipitone, rv. 263255; Sez. II, n. 9759 del 10 febbraio 2015, Gargiuolo, rv. 263298; Sez. 1, n. 32795 del 02/07/2014 – dep. 23/07/2014, Donato, Rv. 261291; Sez. V, n. 19230 del 3 maggio 2013, Palazzotto, rv. 256249; Sez. 6, n. 32721 del 21/06/2010 – dep. 07/09/2010, Hamidovic e altro, Rv. 248169; Sez. V, n. 28539 del 20 luglio 2010, Coppola, rv. 247882; Sez. VI, n. 41365 del 23 novembre 2010, Straface, rv. 248736; Sez. II, n. 35610 del 26 settembre 2007, Della Rocca, rv. 237992; Sez. II, n. 14440 del 5 aprile 2007, Mezzanzanica, rv.236457; Sez. II, n. 47972 del 10 dicembre 2004, Caldara, rv. 230709; Sez. I, n. 10336 del 4 marzo 2003, Preziosi, rv. 228156).

La Quarta Sezione rimettente, dato atto degli approdi del riferito filone ermeneutico, sintetizza i principi da questo affermati come segue: la violenza e la minaccia, qualora rivestano caratteristiche di particolare gravità, tramutano in “ingiusta” la pretesa, anche se correlata ad un diritto tutelabile per via giudiziaria, ed impongono l’inquadramento della condotta nel delitto di estorsione ricorrendone tutti gli elementi “oggettivi”, ovvero l’aggressione violenta alla persona ed il profitto ingiusto, come mutato a causa della intensità della violenza.

L’ordinanza in parola rileva, a ragione, ulteriormente che l’orientamento in questione è stato recentemente oggetto di un approfondimento che si è concluso con l’affermazione che la diagnosi differenziale tra i due reati, deve essere effettuata sulla base dell’emersione della idoneità costrittiva dell’azione violenta contro la persona, non rilevando il fatto che l’aggressione sia funzionale alla soddisfazione di un diritto tutelabile di fronte all’autorità giudiziaria (Sez. 2, n. 36928 del 04/07/2018 – dep. 31/07/2018, Maspero, Rv. 273837; Sez. 2, n. 55137 del 03/07/2018 – dep. 10/12/2018, Arcifa, Rv. 274469).

In sostanza si tratta di un orientamento che valorizza non tanto l’intensità della violenza o delle minacce, la cui graduazione non è (e non può) essere identificata normativamente, ma l’effetto costrittivo dell’azione.

Si è affermato infatti che «sia l’estorsione che l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni sono reati che si consumano attraverso l’uso della “violenza” e della “minaccia” ovvero attraverso il compimento di azioni potenzialmente costrittive; entrambi prevedono, inoltre una forma aggravata nel caso in cui la condotta intimidatoria sia agita con armi, ovvero con uno strumento cui si riconosce un immediato potere coercitivo.

Al nucleo comune costituito dal ricorso alla violenza e alla minaccia si associano diversi elementi differenziali.

Nel caso dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni caratterizzano la fattispecie: a) il presupposto, ovvero la circostanza che l’autore è titolare di un diritto che gli consente di “potere ricorrere al giudice”, b) la condotta, ovvero l’uso” della violenza o minaccia, quindi di una attività intimidatoria che viene descritta come elemento necessario di fattispecie, senza la indicazione degli effetti sulla vittima; c) l’evento costituito dal “farsi ragione da sé”, attraverso il soddisfacimento della presunta pretesa legittima».

Di contro il delitto di estorsione risulta caratterizzato dalla necessaria “costrizione” della persona che ha come effetto la acquisizione di un profitto ingiusto con altrui danno.

Si afferma inoltre che per effettuare il corretto inquadramento ed individuare la linea di confine tra le fattispecie elementi si rinvengono nella identificazione del bene protetto dalle due norme, ovvero: a) il “monopolio statale” nella risoluzione delle controversie per quanto riguarda l’esercizio arbitrario; b) la tutela della “persona”, anche (sebbene non solo) nella sua dimensione patrimoniale con riguardo al delitto di estorsione.

Si afferma infine che ritenere che in presenza di una pretesa tutelabile per via giurisdizionale (o percepita come tale) “tutte” le condotte violente o minacciose finalizzate a soddisfarla quel diritto debbano essere attratte nell’orbita dell’art. 393 cod. pen. si risolverebbe «nell’assorbimento in tale fattispecie anche delle condotte che incidono sulla libertà personale, ovvero dei comportamenti idonei a trasformare la vittima in un “mediatore” non reattivo, strumentale al soddisfacimento della pretesa dell’autore» e che la soddisfazione di un preteso diritto attraverso la coazione alla persona non possa che essere “ingiusta”, nulla rilevando che lo stesso sia tutelabile per via giudiziaria (Sez. 2, n. 36928 del 04/07/2018 – dep. 31/07/2018, cit).

In sintesi: questa interpretazione (a) rileva una differenza “oggettiva” tra le condotte contestate nelle fattispecie previste dagli artt. 393 e 629 cod. pen., (b) valorizza la diversità dei beni giuridici tutelati, ovvero persona e patrimonio da un lato ed amministrazione della giustizia dall’altro, (c) rimarca la rilevanza dell’interpretazione costituzionalmente orientata e, dunque, la prevalenza del diritto alla incolumità personale rispetto al diritto di proprietà o di credito; (d) afferma, infine che «lo scrutinio in concreto del fatto ed il conseguente inquadramento nell’una piuttosto che nell’altra fattispecie presuppongono una accurata valutazione di merito, che deve essere riversata in una motivazione che dia conto attraverso l’analisi delle emergenze processuali dell’esistenza dell’effetto costrittivo, delle modalità di coinvolgimento dei terzi e di tutti gli altri elementi idonei a guidare l’interprete nella effettuazione della diagnosi differenziale» (Sez. 2, n. 36928 del 04/07/2018 – dep. 31/07/2018, Maspero, Rv. 273837; Sez. 2, n. 55137 del 03/07/2018 – dep. 10/12/2018, Arcifa, Rv. 274469).

A tale indirizzo volto, si ripete, a valorizzare le differenze tra gli elementi oggettivi dei due reati, se ne è contrapposto un altro che individua invece come elemento specializzante l’elemento soggettivo.

E’ stato così deciso che «il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona e quello di estorsione si distinguono non per la materialità del fatto, che può essere identica, ma per l’elemento intenzionale che, qualunque sia stata l’intensità e la gravità della violenza o della minaccia, integra la fattispecie estorsiva soltanto quando abbia di mira l’attuazione di una pretesa non tutelabile davanti all’autorità giudiziaria» (Sez. 2, n. 51433 del 04/12/2013 – dep. 19/12/2013, P.M. e Fusco, Rv. 257375; Sez. 2, n. 705 del 01/10/2013 – deo. 10/01/2014, Traettino, Rv. 258071; Sez. 2, n. 31224 del 25/06/2014 – dep. 16/07/2014, Comite, Rv. 259966; Sez. 2, n. 42940 del 25/09/2014 – dep. 14/10/2014, Conte, Rv. 260474; Sez. 2, n. 23765 del 15/05/2015 – dep. 04/06/2015, P.M. in proc. Pellicori, Rv. 264106; Sez. 2, n. 44674 del 30/09/2015 – dep. 06/11/2015, Bonaccorso, Rv. 265190; Sez. 2, n. 42734 del 30/09/2015 – dep. 23/10/2015, Capuozzo, Rv. 265410; Sez. 1, n. 6968 del 20/07/2017 – dep. 13/02/2018, P.G. in proc. Rottino e altri, Rv. 272285).

In tal senso, difatti, si legge nella sentenza “Fusco”, capostipite di tale indirizzo che: «l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona e l’estorsione si distinguono non per la materialità del fatto, che può essere identico, ma per l’elemento intenzionale: nell’estorsione, l’agente mira a conseguire un profitto ingiusto con la coscienza che quanto pretende non gli è dovuto; nell’esercizio arbitrario, invece, l’agente è animato dal fine di esercitare un suo preteso diritto nella ragionevole opinione, anche errata, della sua sussistenza, pur se contestata o contestabile; – di conseguenza, deve affermarsi che l’intensità e/o la gravità della violenza o della minaccia non è un elemento del fatto idoneo ad influire sulla qualificazione giuridica del reato (esercizio arbitrario delle proprie ragioni – estorsione), atteso che, ove la minaccia o la violenza siano commesse con le armi, il reato diventa aggravato ex art. 393, comma 3 o art. 629 cod.pen., art. 628 comma 3 n. 1, e, se la violenza o la minaccia ledano altri beni giuridici, fanno scattare a carico dell’agente ulteriori reati in concorso (lesioni, omicidio, sequestro di persona ecc.) – Pertanto, ove la violenza e/o a minaccia, anche se particolarmente intense o gravi, siano effettuate al solo fine di esercitare un preteso diritto pur potendo, l’agente ricorrere al giudice, non è mai configurabile il diverso delitto di estorsione che ha presupposti giuridici completamente diversi; – tuttavia, ove la violenza e/o la minaccia, indipendentemente dalla intensità con la quale siano adoperate dall’agente, siano esercitate al fine di far valere un preteso diritto per il quale, però, non si può ricorrere al giudice, il suddetto comportamento va qualificato come estorsione ma non perché l’agente eserciti una violenza o minaccia particolarmente grave ma perché il suo preteso diritto non è tutelatole davanti all’autorità giudiziaria, sicché, venendo a mancare uno dei requisiti materiali del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, il fatto diventa qualificabile come estorsione» (Sez. 2, n. 51433 del 04/12/2013 – dep. 19/12/2013, P.M. e Fusco, Rv. 257375)

Secondo questa interpretazione nella definizione del perimetro delle fattispecie previste dall’art. 393 cod. pen. e 629 cod. pen. è decisivo il fatto che l’art. 393 cod. pen. prevede un aggravamento di pena ove la condotta sia commessa “con armi”, ovvero attraverso strumenti che implicano una intimidazione sicuramente “grave”, il che impedisce di assegnare al livello di gravità dell’aggressione il ruolo di elemento decisivo per effettuare la diagnosi differenziale tra i due reati.

In sintesi: secondo questo orientamento la condotta deve essere inquadrata nella fattispecie prevista dall’art. 393 cod. pen. ogni volta che la violenza o la minaccia risultino funzionali alla soddisfazione di una pretesa tutelabile davanti all’autorità giudiziaria, nulla rilevando la gravità della violenza o della minaccia e, dunque l’efficacia costrittiva della condotta.

Sempre con riferimento al filone c.d. “soggettivo” la Corte rammenda come alle sentenze che valorizzano come elemento discretivo la direzione della volontà verso il soddisfacimento della pretesa giudiziariamente tutelabile se ne affiancano altre che affermano che questo debba essere vagliato attraverso l’analisi delle modalità della condotta, di fatto riassegnando rilevanza decisiva alla intensità della violenza e della minaccia.

Si è difatti affermato che «i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione, pur caratterizzati da una materialità non esattamente sovrapponibile, si distinguono tendenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto eventualmente infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia.  A tal proposito, è, peraltro, necessario precisare, onde evitare possibili (ed anzi, per la verità, molto frequenti nella pratica) interpretazioni strumentali, che, ai fini dell’integrazione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni: – la pretesa arbitrariamente attuata dall’agente deve corrispondere perfettamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato (Sez. V, n. 2819 del 24 novembre 2014, dep. 2015, rv. 263589); – l’agente deve essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente: pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata, deve, peraltro, trattarsi di una pretesa non del tutto arbitraria (Sez. V, n. 23923 del 16 maggio 2014, rv. 260584), ovvero del tutto sfornita di una possibile base legale. Per la sussistenza del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni non è, infatti, necessario che il diritto oggetto dell’illegittima tutela privata sia realmente esistente, ma occorre pur sempre che l’autore agisca nella ragionevole opinione della legittimità della sua (pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto in ipotesi suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale» (Sez. 2, n.46288 del 28/06/2016 – dep. 03/11/2016, Musa e altro, Rv. 268360).

Secondo la Corte quindi alla speciale veemenza del comportamento violento o minaccioso potrà, peraltro, riconoscersi valenza di elemento sintomatico del dolo di estorsione: è noto, invero, in generale, che la prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni ed, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente.

In sintesi: secondo questo orientamento l’elemento discretivo tra le fattispecie previste dall’art. 393 e 629 cod. pen. deve essere rinvenuto nell’elemento soggettivo; tuttavia l’intensità della azione aggressiva può indicare l’esistenza del dolo dell’estorsione, la cui sussistenza non è automaticamente esclusa – come nell’orientamento inaugurato dalla sentenza “Fusco” – dalla dimostrazione dell’esistenza di una pretesa tutelabile per via giudiziaria “coperta” sotto il profilo soggettivo dalla volontà dell’autore di soddisfare il suo credito.

Il contrasto all’interno dei due orientamenti che valorizzano come elemento discretivo tra fattispecie l’elemento soggettivo verte dunque sulle modalità di accertamento del profilo psicologico, ovvero sulla diversa valorizzazione degli elementi di fatto che dimostrano l’esistenza del dolo del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, piuttosto che di quello dell’estorsione: la tesi che valorizza la modalità dell’azione come “indicatore di dolo”, ritiene che una aggressione alla persona “grave”, indichi ipso facto l’estorsione, nulla rilevando che la condotta violenta sia diretta a tutelare un diritto che potrebbe essere fatto valere in giudizio (seppure con esiti incerti).

Prosegue la Corte evidenziando che l’altra tesi valorizza invece tutti gli indicatori che dimostrano che la volontà dell’agente è rivolta verso la soddisfazione di un diritto assistito da una tutela giudiziaria che, se attivata, potrebbe avere esiti favorevoli all’agente: si tratta di un elemento ritenuto incompatibile con la natura “sicuramente” ingiusta del profitto e del danno necessari per integrare l’estorsione, nulla rilevando, in questo caso, la gravità dell’aggressione alla persona.

Così ricostruiti i termini del divario interpretativo il collegio rimettente sottolinea conclusivamente come detto contrasto presuppone che vi sia “un concorso apparente” di norme e, dunque, che via sia un reato con capacità assorbente, senza prendere in esame la possibilità del “concorso formale” tra i reati.

L’ordinanza di rimessione, tuttavia, non si arresta a richiedere una decisione in ordine all’individuazione degli elementi differenziali tra le due fattispecie in parola ma deferisce al supremo collegio, altresì, l’ulteriore questione inerente la qualificazione del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, entro la categoria del reato comune o di “mano propria” e, quindi, se e in che termini sia ammissibile il concorso del terzo non titolare della pretesa giuridicamente tutelabile.

Sul punto il collegio ha osservato come l’ultimo approdo della giurisprudenza di legittimità in materia di concorso di persone nel reato previsto dall’art. 393 cod. pen. è stato quello di ritenere che il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (sia con violenza alle cose che con violenza alle persone) rientra tra i cc.dd. reati propri esclusivi o di mano propria, che si caratterizzano perché richiedono che la condotta tipica sia posta in essere dal titolare della posizione qualificata, ovvero del diritto di credito giudiziariamente azionabile; ne consegue che, se la condotta tipica è posta in essere da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio fondato sulla pretesa civilistica asseritamente vantata nei confronti della persona offesa, che agisca su mandato del creditore, essa non potrà mai integrare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma soltanto altra fattispecie.

Nei casi in cui la condotta tipica è invece posta materialmente in essere da chi intende «farsi ragione da sé medesimo», è, al contrario, configurabile il concorso – “per agevolazione”, od anche “morale” – nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni di terzi estranei alla pretesa civilistica vantata dall’agente nei confronti della persona offesa (Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016 Ud. (dep. 03/11/2016), Musa, Rv. 268360 §§ 9.2.5.2. e 9.2.10).

Secondo la Corte si tratta di interpretazione che indirizza chiaramente verso la qualificazione del fatto come estorsione ogni volta che la condotta violenta sia posta in essere da un terzo, sebbene su mandato del titolare del diritto che si intende soddisfare: l’inquadramento dell’esercizio arbitrario come reato proprio “esclusivo” inibisce infatti l’operatività della norma generale sul concorso di persone nel reato, che rimane applicabile solo nei casi in cui il contributo del terzo non esaurisca l’azione tipica, ma si atteggi come azione “agevolatrice”, anche solo morale, rispetto alla condotta tipica posta in essere dal titolare del diritto (Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, § 9.2.5.2.).

La Corte, inoltre, da atto che rispetto alla giurisprudenza che esclude la possibilità che l’azione tipica del reato previsto dall’art. 393 cod. pen. sia posta in essere da un soggetto non titolare della posizione qualificata, si è posta in giurisprudenza una prospettiva diversa che esamina il tema del concorso valorizzando la differenza dell’elemento oggettivo tra i reati di estorsione e ragion fattasi: si è affermato, infatti, che quando il mandato alla riscossione del credito sia conferito a terzi dotati di esprimere una singolare forza di intimidazione, in quanto appartenenti a consorzi con riconosciuta capacità criminale, è ragionevole che l’azione violenta produca l’effetto “costrittivo” tipico dell’estorsione (Sez. 2, n. 36928 del 04/07/2018 – dep. 31/07/2018, Maspero, Rv. 273837; Sez. 2, n. 55137 del 03/07/2018 – dep. 10/12/2018, Arcifa, Rv. 274469).

Altra giurisprudenza, ponendo invece l’attenzione sull’elemento soggettivo, ha rilevato che, di regola, il terzo esattore è mosso da un interesse proprio non coincidente con quello del mandante, consistente nell’accrescimento della propria capacità criminale e generatore di profitti e che, pertanto, ogni volta che l’azione violenta volta alla riscossione del credito sia posta in essere dal terzo dovrà essere verificato «se questi sia portatore di un proprio interesse, diverso ed ulteriore rispetto a quello vantato dal titolare del diritto, potendosi configurare un eventuale concorso nel reato di cui all’art. 393 cod. pen. solo ove tale interesse esclusivo del terzo risulti assente» (Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016 – dep. 18/03/2016, Guarnieri, Rv. 267123, § 2.3.; Sez. 2, n. 41433 del 27/04/2016 – dep. 04/10/2016, Bifulco e altri, Rv. 268630).

Tirando, quindi, le fila della questione la Corte ha così sintetizzato i termini del contrasto interpretativo sopra riportato: nel valutare la condotta dell’esattore estraneo al rapporto contrattuale la giurisprudenza ha mostrato una chiara tendenza ad escludere la sua riconducibilità alla fattispecie prevista dall’art. 393 cod. pen. nella sua dimensione concorsuale; la contrazione dell’area di operatività del concorso nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni è avvenuta: (a) attraverso il riconoscimento della qualifica di reato proprio esclusivo all’art. 393 cod. pen., con la correlata esclusione radicale della configurabilità del concorso del terzo nei casi di collaborazione che non si risolva in un contributo agevolatore “atipico”; (b) rilevando che all’intervento del terzo esattore sono associati, da un lato, l’accrescimento dell’efficacia costrittiva dell’azione e, dall’altro, l’emersione di interessi individuali non coincidenti con quelli del titolare del diritto, circostanze che indirizzano entrambe verso la qualificazione della condotta come estorsione.

In conclusione, dunque, di fronte a tale frammentato quadro giurisprudenziale il collegio ha ritenuto necessario il vaglio chiarificatore delle Sezioni Unite, poiché si è ritenuto di dubitare della legittimità dell’inquadramento del reato di “ragion fattasi” tra quelli propri “esclusivi” e della correlata, automatica, limitazione all’operatività del concorso che, a seguito di tale scelta ermeneutica, resta circoscritto solo alle condotte concorsuali agevolatrici che non esauriscono l’azione tipica.

Così ricostruiti i termini del contrasto nonché le questioni sottoposte alla decisione delle Sezioni Unite, non resta, quindi, che attenderne la relativa pronuncia chiarificatrice.


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Avv. Gioacchino Sanfilippo

Avvocato del foro di Agrigento. Laurea in Giurisprudenza all'Università degli Studi di Palermo con tesi dal titolo "il reato di scambio elettorale politico mafioso", con relatore il Prof. Giovanni Fiandaca.

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