Appalti, nota a sentenza Corte di Giustizia Europea 27 novembre 2019, C-402/18

Appalti, nota a sentenza Corte di Giustizia Europea 27 novembre 2019, C-402/18

Con la sentenza c.d. Tedeschi del 27 novembre 2019, la Corte di Giustizia sembra aver affermato definitivamente che l’imposizione di un limite quantitativo alla possibilità di subappaltare viola la disciplina europea in materia di contratti pubblici, in quanto ha dichiarato incompatibile con la direttiva 2004/18/CE la disciplina contenuta nell’articolo 118, comma 2 d.lgs. n.163 del 2006.

Invero, con la c.d. sentenza Vitali del 26 settembre scorso (causa C-63/18), la Corte aveva già censurato la disciplina vigente in tema di subappalto contenuta nel Codice dei contratti pubblici n.50 del 2016, nella parte in cui limitava la quota subappaltabile.

Con riguardo alla causa 402-18, la questione posta al vaglio del giudice europeo verte sul ricorso, presentato dalla società classificatasi seconda nella graduatoria all’esito della procedura di gara, volto all’annullamento del provvedimento recante l’aggiudicazione dell’appalto pubblico oggetto del procedimento principale. A sostegno del proprio ricorso, la ricorrente aveva dedotto un motivo vertente sulla violazione dei limiti generali previsti dal diritto italiano, ossia il limite previsto dall’articolo 118, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006 ( applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame; limite comunque successivamente confermato nell’articolo 105 del novo Codice del contratti pubblici n.50 del 2016) in quanto la quota parte dell’appalto che l’aggiudicatario intendeva subappaltare rappresentava oltre il 30% dell’importo complessivo di tale appalto pubblico . La ricorrente aveva inoltre sostenuto che l’offerta presentata dall’aggiudicatario non era stata oggetto di una adeguata disamina da parte della stazione appaltante, in quanto era stato accettato, in violazione della disciplina nazionale, un ribasso della remunerazione corrisposta alle imprese subappaltanti superiore al 20% rispetto ai prezzi unitari risultanti dall’aggiudicazione.

Il Tar del Lazio aveva accolto il ricorso in questione, annullando il provvedimento di aggiudicazione definitiva impugnato e conseguentemente dichiarando l’inefficacia del contratto di appalto stipulato, in quanto aveva constatato che non sarebbe stata operata un’attendibile disamina delle caratteristiche che avrebbe avuto il massiccio ricorso, mediante subappalto, a cooperative sociali, elemento dell’offerta aggiudicataria che aveva permesso all’aggiudicataria di giustificare l’elevato ribasso offerto. Inoltre il Tar adito aveva constatato anche che le remunerazioni delle prestazioni lavorative affidate in subappalto sarebbero state inferiori di oltre il 20% rispetto a quelle praticate dal RTI Tedeschi nei confronti dei propri dipendenti diretti.

L’aggiudicataria quindi aveva appellato la sentenza in questione dinanzi al Consiglio di Stato, mentre la seconda classificata aveva a sua volta proposto appello incidentale, nel quale aveva nuovamente sollevato le censure non accolte in primo grado, fra cui quella avente ad oggetto la violazione delle disposizioni di diritto italiano relative al divieto di subappaltare prestazioni corrispondenti a oltre il 30% dell’importo totale dell’appalto pubblico di cui trattasi.

Sulla questione il Consiglio di Stato ha sollevato dubbi in merito alla compatibilità della normativa italiana in materia di subappalto con il diritto dell’Unione.

Per tale ragione, il Supremo Consesso  ha deciso, con ordinanza n. 3553 del 2018, di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea le seguenti questioni pregiudiziali: “se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli articoli 49 e 56 [TFUE], gli [articoli] 25 della [direttiva 2004/18] e 71 della [direttiva 2014/24], che non contemplano limitazioni per quanto concerne la quota subappaltatrice ed il ribasso da applicare ai subappaltatori, nonché il principio [di diritto dell’Unione europea] di proporzionalità, ostino all’applicazione di una normativa nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell’[articolo] 118 commi 2 e 4 del decreto legislativo [n. 163/2006], secondo la quale il subappalto non può superare la quota del [30%] dell’importo complessivo del contratto e l’affidatario deve praticare, per le prestazioni affidate in subappalto, gli stessi prezzi unitari risultanti dall’aggiudicazione, con un ribasso non superiore al [20%]”.

Ciò posto, la Corte di Giustizia, rilevata la ricevibilità di tale questione pregiudiziale, ha ricordato che  la direttiva 2004/18/CE ( applicabile al caso di specie in forza del principio tempus regit actum, stante la data di pubblicazione del bando di gara oggetto del procedimento principale, ossia il 24 dicembre 2015) sancisce la facoltà, per gli offerenti, di ricorrere al subappalto per l’esecuzione di un appalto, in accordo con gli obiettivi di tutela della concorrenza, libera circolazione delle merci, libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi, nonché dei principi che ne derivano, in particolare quelli della parità di trattamento, della non discriminazione, della proporzionalità e della trasparenza.

Invero, in caso di subappalto, la disciplina europea prevede che l’amministrazione aggiudicatrice possa chiedere o possa essere obbligata da uno Stato membro a chiedere all’offerente di indicare, nella sua offerta, le parti dell’appalto che intende subappaltare a terzi, nonché i subappaltatori proposti. Inoltre la stazione appaltante ha il diritto, per quanto riguarda l’esecuzione di parti essenziali dell’appalto, di vietare il ricorso a subappaltatori dei quali non sia stata in grado di verificare le capacità in occasione della valutazione delle offerte e della selezione dell’aggiudicatario.

Tuttavia la Corte di Giustizia sottolinea come questa non sia “la portata di una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che impone un limite al ricorso a subappaltatori per una parte dell’appalto fissata in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso, e ciò a prescindere dalla possibilità di verificare le capacità degli eventuali subappaltatori e il carattere essenziale degli incarichi di cui si tratterebbe”.

Infatti, il limite del 30 percento previsto dalla disciplina nazionale troverebbe giustificazione, secondo il governo italiano, nelle circostanze particolari prevalenti in Italia, dove il subappalto “ha da sempre costituito uno degli strumenti di attuazione di intenti criminosi”. Dunque in tale ottica, limitando la parte dell’appalto che può essere subappaltata, la normativa nazionale renderebbe la partecipazione alle commesse pubbliche meno appetibile per le organizzazioni criminali, circostanza che sarebbe idonea a prevenire il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa in tali commesse e a tutelare così l’ordine pubblico.

In merito a ciò però, la Corte adita sottolinea che la stessa disciplina europea prevede l’applicazione di misure adeguate alla tutela dell’ordine, della moralità e della sicurezza pubblici. Inoltre il giudice europeo  ricorda che viene riconosciuto, anche per giurisprudenza costante, agli Stati membri un certo potere discrezionale nell’adozione di misure destinate a garantire il rispetto dell’obbligo di trasparenza; ciò in quanto si ritiene che il singolo Stato membro sia nella posizione migliore per individuare, alla luce di considerazioni di ordine storico, giuridico, economico o sociale che gli sono proprie, le situazioni favorevoli alla comparsa di comportamenti in grado di provocare le violazioni in questione (si veda, in tal senso, sentenza del 22 ottobre 2015, Impresa Edilux e SICEF, C‑425/14, EU:C:2015:721, punto 26 e giurisprudenza ivi citata).

Infine e con specifico riferimento al fenomeno dell’infiltrazione mafiosa, viene rammentato che la Corte ha già dichiarato che il contrasto al fenomeno dell’infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici costituisce un obiettivo legittimo, che può giustificare una restrizione alle norme fondamentali e ai principi generali del Trattato FUE che si applicano nell’ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici (si veda in tal senso,  la sentenza del 22 ottobre 2015, Impresa Edilux e SICEF già citata, punti 27 e 28).

Ciò posto, la Corte ha rilevato l’incompatibilità della disciplina nazionale, in quanto “anche supponendo che una restrizione quantitativa al ricorso al subappalto possa essere considerata idonea a contrastare siffatto fenomeno, una restrizione come quella oggetto del procedimento principale eccede quanto necessario al raggiungimento di tale obiettivo”.

Infatti tale limitazione al 30 percento della quota che può essere oggetto di subappalto si applica indipendentemente dal settore economico interessato dall’appalto di cui trattasi, dalla natura dei lavori o dall’identità dei subappaltatori, non lasciando, inoltre, alcuno spazio ad una valutazione caso per caso da parte dell’ente aggiudicatore. Viene quindi previsto un caso di automatica esclusione dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto, indipendentemente dalla circostanza in cui l’ente aggiudicatore sia in grado di verificare le identità dei subappaltatori interessati e ove ritenga, in seguito a verifica, che tale limite al ricorso al subappalto non sia necessario al fine di contrastare la criminalità organizzata nell’ambito dell’appalto di cui trattasi.

Alla luce di tale disciplina, la Corte di Giustizia rileva che “l’obiettivo perseguito dal legislatore italiano potrebbe essere raggiunto da misure meno restrittive, come l’approccio consistente nell’obbligare l’offerente a fornire nella fase dell’offerta le identità degli eventuali subappaltatori, al fine di consentire all’amministrazione aggiudicatrice di effettuare verifiche nei confronti dei subappaltatori proposti, perlomeno nel caso degli appalti che si ritiene rappresentino un maggior rischio di infiltrazione da parte della criminalità organizzata”.

Infine, viene sottolineato, da un lato come la disciplina italiana già preveda diverse misure  finalizzate espressamente a impedire l’accesso alle gare d’appalto pubbliche alle imprese sospettate di appartenenza mafiosa o di essere comunque collegate a interessi riconducibili alle principali organizzazioni criminali operanti nel paese; dall’altro, che l’argomento fatto valere governo italiano, secondo cui i controlli di verifica che l’amministrazione aggiudicatrice deve effettuare in forza del diritto nazionale sarebbero inefficaci per raggiungere l’obiettivo perseguito dalla normativa nazionale oggetto del procedimento principale, non solo non risulta in alcun modo dimostrato, ma inoltre “nulla toglie al carattere restrittivo della misura nazionale oggetto del procedimento principale”.

In conclusione, in merito a tale questione, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ritiene che occorra rispondere – alla luce dei principi di aggiudicazione degli appalti di cui all’articolo 2 della direttiva 2004/18/CE ed in particolare dei principi di parità di trattamento, di trasparenza e di proporzionalità –  “dichiarando che la direttiva 2004/18 dev’essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che limita al 30% la quota parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi”.

Anche in merito alla seconda questione, ossia  quella che verte sulla compatibilità della normativa nazionale che impone di limitare il ribasso al 20%  i prezzi corrisposti ai subappaltatori rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione, la Corte rileva che tale limite è definito in modo generale ed astratto, indipendentemente da qualsiasi verifica della sua effettiva necessità ed a prescindere dal settore economico o dall’attività interessata; inoltre è imposto in modo imperativo, a pena di esclusione dell’offerente dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto.

Dunque “ne consegue che il limite del 20% è idoneo a rendere meno allettante la possibilità offerta dalla direttiva 2004/18 di ricorrere al subappalto per l’esecuzione di un appalto, dal momento che tale normativa limita l’eventuale vantaggio concorrenziale in termini di costi che i lavoratori impiegati nel contesto di un subappalto presentano per le imprese che intendono avvalersi di detta possibilità”, ponendosi quindi in contrato con gli obiettivi perseguiti dalla disciplina comunitaria dell’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza nella misura più ampia possibile e, in particolare, dell’accesso delle piccole e medie imprese alle commesse pubbliche.

Inoltre una tale disciplina non può considerarsi giustificata per garantire la tutela dei lavoratori impiegati nel contesto di un subappalto, in quanto un tale limite generale, astratto ed imposto in modo imperativo come suesposto, eccede quanto necessario al fine di assicurare ai lavoratori impiegati nel contesto di un subappalto una tutela salariale.

Per le stesse argomentazioni, tale limitazione non può essere giustificata dall’obiettivo consistente nel voler garantire la redditività dell’offerta e la corretta esecuzione dell’appalto, che potrebbe e dovrebbe essere perseguito mediante altre misure, meno restrittive e più proporzionate.

Infine, la Corte ritiene che tale limite non si possa giustificare anche alla luce del principio della parità di trattamento degli operatori economici, in quanto “la mera circostanza che un offerente sia in grado di limitare i propri costi in ragione dei prezzi che egli negozia con i subappaltatori non è di per sé tale da violare il principio della parità di trattamento, ma contribuisce piuttosto a una concorrenza rafforzata e quindi all’obiettivo perseguito dalle direttive adottate in materia di appalti pubblici, come ricordato al punto 39 della presente sentenza”.

Dunque, anche in merito a tale questione, la Corte afferma l’incompatibilità della disciplina nazionale con quella europea.

Per questi motivi, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha concluso dichiarando che “la direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, dev’essere interpretata nel senso che: essa osta a una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che limita al 30% la quota parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi; essa osta a una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che limita la possibilità di ribassare i prezzi applicabili alle prestazioni subappaltate di oltre il 20% rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione”.


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