Caso Cappato – dj Fabo: il diritto a morire con dignità, tra diritto e bioetica

Caso Cappato – dj Fabo: il diritto a morire con dignità, tra diritto e bioetica

La Corte Costituzionale ha stabilito che non è sempre punibile, ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Lo ha comunicato l’Ufficio Stampa della Consulta, in attesa del deposito della sentenza.

Al fine di evitare rischi di abuso di persone vulnerabili, la non punibilità, precisa la Corte, è subordinata al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua e alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del SSN, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente.

Con ordinanza del 10 luglio 2017, il gip di Milano aveva rigettato le istanze avanzate dalla Procura e dai difensori di Marco Cappato, l’esponente dei Radicali che prestò il suo aiuto a Fabiano Antoniani (dj Fabo) – rimasto cieco e tetraplegico a seguito di un incidente stradale – conducendolo a Zurigo dove, il 27 febbraio 2017, decise di porre fine alla sua vita, con il suicidio assistito praticato in una clinica svizzera.

Il giorno dopo, Marco Cappato si autodenunciò. Il processo ebbe inizio e approdò alla Consulta. La Procura aveva inizialmente chiesto al gip di Milano l’archiviazione, sulla base di un’interpretazione restrittiva della fattispecie di partecipazione materiale ex art. 580 c.p., tale da escludere l’incriminazione della condotta posta in essere da Cappato e di un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata della norma, sulla base del diritto ad una morte dignitosa, ricavato dalla lettura combinata delle norme costituzionali e convenzionali, agendo quale causa di giustificazione atipica. “Il diritto di morire con dignità”. Il divieto incondizionato di aiuto al suicidio posto dalla norma sarebbe tale da comprimere l’autodeterminazione e la dignità umane, diritti dotati di indubbia prorompenza costituzionale. Il gip, tuttavia, ritenne che la condotta di Cappato non fosse di mero aiuto, ma addirittura di rafforzamento del proposito suicida, in quanto la prospettata possibilità di recarsi in Svizzera per procedere al suicidio assistito, concretizzata dall’aiuto di Cappato, avrebbe corroborato e consolidato la volontà suicidaria di Antoniani. Il gip, inoltre, aveva evidenziato come, dalla lettura del codice penale, non emergesse affatto un diritto ad una morte dignitosa – priva, dunque, di un vero fondamento positivo – ma, piuttosto, la volontà legislativa di limitare al massimo la possibilità per il singolo di disporre della propria integrità fisica e della propria vita.

La questione di legittimità costituzionale, proposta dai PM, è stata sollevata dalla Corte d’Assise di Milano, manifestando una passione morale orientata da valori fortissimi. Ad essere contestato è il reato di aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p., nella parte in cui prescinde dal contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio, alla luce degli artt. 3, 13, co. 1 e 117 Cost. e degli artt. 2 e 8 CEDU.

In sostanza, il diritto di ogni essere umano di autodeterminarsi anche su come e quando porre fine alla propria esistenza rende ingiustificata la sanzione penale nel caso in cui le condotte di partecipazione al suicidio siano state di mera attuazione di quanto richiesto da chi aveva fatto la sua scelta liberamente e consapevolmente.

L’attenzione andrebbe spostata dal diritto ad un aiuto a morire al diritto di morire. Alla tutela della libertà di autodeterminazione del singolo, che valorizzerebbe il diritto al rifiuto di cure, anche necessarie, per la sopravvivenza.

Il sapore fascista di una norma che non tiene conto della volontà del singolo, sopprimendone la libertà, emerge in maniera nitida: la vita deve essere tutelata ad ogni costo, anche quando l’individuo esprima una volontà contraria, anche quando si trovi in fase terminale e disperata e la propria dignità sia annientata da una condizione non più corrispondente e coerente con la propria persona.

Si definisce paternalistica la norma penale che protegge il soggetto da decisioni in suo danno, punendolo qualora commetta azioni a suo discapito o punendo terzi che agiscano o omettano di agire per lui con il suo consenso. L’art. 580 c.p. costituisce l’esempio paradigmatico di paternalismo indiretto, ampiamente criticato da alcuni. Ad esempio, Feinberg critica il paternalismo penale sulla base del principio volenti non fit iniuria, per cui ad essere punito è il solo danno causato ingiustamente: nessuno può causare ad altri un danno ingiusto, a patto che questi non sia consenziente. La teoria di Feinberg ammette, invero, un paternalismo “soft”: lo Stato deve prevenire l’azione o l’omissione dannosa che il soggetto causa contro se stesso solo quando la condotta non sia volontaria; norme penali che eccedano tale condizione sarebbero, secondo questa concezione, espressione di un paternalismo “duro”, idoneo a forzare i limiti morali del diritto penale.

Il tema del suicidio e dell’aiuto al suicidio rappresenta un punto eticamente sensibile del biodiritto, in cui si innestano problemi interpretativi di norme giuridiche, in uno scenario culturale e giuridico complesso.

Il punto è: possono sussistere, in un ordinamento costruito sulla Costituzione e ancellato dai principi di diritto comunitario e convenzionale, normative di diritto penale indirettamente paternalistico? È moralmente accettabile punire chi offre un aiuto al soggetto che si trova in una condizione di vita limite, estrema, indegna, entro cui non trova più alcuna compatibilità tra la propria essenza e la continuazione dell’esistenza? È davvero configurabile – e, dunque, prevalente – un “dovere di stare nella società” anche se a condizioni insopportabili (assimilabili alla tortura, alla sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti)?

In un ordinamento che tutela la libertà umana, è giusto condannare l’aiuto al suicidio, quando il suicidio rappresenta l’espressione stessa della libertà, autonoma e consapevole scelta di fuga da uno scafandro che ci tiene prigionieri, negando la persona che siamo? Qual è il limite tra la tutela della vita e il portare avanti una condizione – quella del malato – che versa in uno stato irreversibile di atroci sofferenze, reso possibile dalla medicina che consente un prolungamento della vita straordinario, ma anche artificiale e innaturale?

Rispettare il volere del portatore dell’interesse significherebbe, per lo Stato, non farsi portavoce di un individualismo freddo e indifferente, né di un abbandono programmato da parte di una società materialistica, orientata all’efficienza economica o all’edonismo collettivi.

Del resto, uno sguardo al panorama sovranazionale consente, con tutta probabilità, di giudicare eccessivo l’iper-paternalismo italiano – non sempre esente da critiche –  alla luce del fatto che altri ordinamenti giuridici, pur tutelando e preservando il valore della vita, consentono il suicidio assistito. Del resto, la ricerca di un luogo (per altro la nostra Europa, la vicina Svizzera) in cui cercare di alleviare sofferenze terribili, in cui sia legittimo il comportamento di chi aiuti un’altra persona a porre fine alla propria agonia, a trovare la libertà e l’espressione della propria persona, dovrebbe indurre a considerare più che legittima una scelta orientata in tal senso, valorizzandosi, pertanto, la lex loci, legittimandosi la scelta per una soluzione rispettosa dei limiti della potestà dello Stato e della dignità di scelte personali.

Se ammettiamo che il diritto ad una vita dignitosa rappresenta il limite alla tutela della vita stessa, ne deriva che lo Stato ha il dovere di fissare i confini entro cui il portatore dell’interesse abbia la possibilità di chiedere a terzi un aiuto, un intervento a tutela del diritto di rifiutare la prosecuzione di uno stato indignitoso e intollerabile. Confini chiari, precisi, rigorosi, che non lascino spazio a dubbi o che diano spago a manifestazioni confuse di volontà; ma che, al contempo, non rendano più lo Stato colpevole di una compressione immorale e disumana dei diritti del malato.

In attesa di un auspicabile intervento legislativo, si può salutare positivamente questa decisione – storica, senza dubbio –  con cui la Corte Costituzionale ha dato luogo ad una netta inversione di tendenza, legittimando per la prima volta il suicidio assistito nel nostro ordinamento, verso una forma sostanziale ed effettiva di tutela e protezione del valore della vita umana, nei casi, dolorosissimi, di mortificazione della libertà, quando una prigione non è fatta necessariamente da sbarre, ma può essere costituita dal nostro stesso corpo.

C’è da domandarsi se il nostro Paese, non indifferente alla morale cattolica, sia pronto per questa rivoluzione culturale.


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Alessia Nicodemo

Ha conseguito la laurea magsitrale in Giurisprudenza presso l'Università degli studi di Napoli Federico II, discutendo una tesi in Cooperazione Giudiziaria Penale, incentrata sulle prospettive di tutela dei diritti fondamentali della persona. Ha collaborato con uno studio legale napoletano operante nel settore penale e ha svolto il tirocinio formativo ex art. 73, d.l. 69/2013, presso la Seconda Sezione Civile del Tribunale di Napoli.

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