Il diritto del figlio al riconoscimento delle sue origini e il diritto della madre all’anonimato

Il diritto del figlio al riconoscimento delle sue origini e il diritto della madre all’anonimato

La questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione riguarda il c.d. “parto anonimo”, nello specifico, il diritto del figlio, che non viene riconosciuto, al momento della nascita, dalla madre, e conseguentemente adottato da terzi, a venire in possesso delle informazioni concernenti la sua origine biologica.

Il “parto anonimo” si verifica nel caso in cui al momento del parto la madre non riconosce il neonato, che lo lascia in ospedale dove è nato(D.P.R. 396/2000 art.30 co.2) al fine di assicurare l’assistenza e la tutela giuridica al bambino; con la massima riservatezza e gli interventi adeguati si assicura alla madre che il parto rimarrà in anonimato; nell’atto di nascita del bambino verrà specificato “nato da donna che non consente di essere nominata”, e il nome della madre rimarrà per sempre segreto. La ratio che ha indotto il legislatore a prevedere la figura del parto anonimo è stata quella di garantire migliori condizioni per la donna e per il bambino durante il parto, evitare che la donna prenda decisioni, inevitabilmente, pregiudizievoli per se stessa e per il neonato.

Sulla questione, la Corte Costituzionale si è pronunciata negli anni più volte; in species, nell’anno 2005 con sentenza n. 425, aveva dichiarato la questione di legittimità costituzionale infondata, confermando il carattere dell’irretrattabilità della scelta dell’anonimato, in quanto compatibile con gli artt. 2-32 Cost., in combinato-disposto con l’art. 93 D.Lgs. 196/2003, riaffermando la ratio suesposta in merito alla previsione della disciplina del parto anonimo (assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali e distogliere la donna da decisioni irreparabili); inoltre, ha escluso qualsiasi violazione del principio di eguaglianza, tra figlio adottato la cui madre abbia dichiarato di voler rimanere anonima e quello la cui madre non ha reso alcuna dichiarazione in tal senso, posto che il limite della conoscibilità opera solo in merito all’ipotesi in cui la dichiarazione è stata effettuata.

Qualche anno più tardi, la Corte cambia rotta, infatti, con la pronuncia del 2013 n.278 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, co.7, della L. 184/1983 (Diritto del minore ad una famiglia), sostituito dall’art. 177, co.2, del D.Lgs. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali), che recita “L’accesso alle informazioni non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ai sensi dell’art. 30, co.1, del D.P.R. n.396/2000”, nella parte in cui non prevede la possibilità per il giudice di interpellare la madre, che abbia dichiarato di non voler essere nominata, su richiesta del figlio, per una eventuale revoca di tale dichiarazione, tranne nel caso in cui la legge non stabilisca un procedimento che assicuri la massima riservatezza. È necessario tutelare la vita e la salute, in quanto beni supremi nel nostro sistema costituzionale, ma allo stesso tempo è essenziale tutelare il diritto del figlio a conoscere le proprie origini, elemento indispensabile per la tutela della persona, che in mancanza potrebbe condizionare l’atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona. La Corte non ha condiviso la disciplina legislativa in esame in quanto eccessivamente rigida, e come tale, l’irreversibilità del segreto è in contrasto con gli artt. 2-3 Cost. L’art. 28 co.7 L. 184/1983 ha optato per una “cristallizzazione” delle modalità di esercizio del diritto all’anonimato della madre, in quanto avvenuta la dichiarazione dell’anonimato, essa diviene irreversibile, escludendo la madre da qualsiasi ripensamento, e peggio ancora, estendendo l’effetto di questa decisione al figlio che si vede impossibilitato di interpellare, tramite il giudice, la madre per accertare una sua eventuale revoca nella decisione, espressa molti anni prima, e in condizioni totalmente diverse. Con tale sentenza la Corte ha affidato il compito al legislatore di introdurre disposizioni volte a verificare la perdurante scelta della madre naturale di non voler essere nominata e tutelare, allo stesso tempo, il diritto all’anonimato.

Tra queste due pronunce, la stessa Corte Europea dei diritti dell’uomo si è interessata della questione, e con sentenza del 25 settembre 2012 ha affermato che la legislazione italiana non si è interessata di instaurare meccanismi idonei a creare un bilanciamento tra il diritto della madre, a mantenere l’anonimato, e quello del figlio, a conoscere le proprie origini, facendo prevalere in modo assoluto il solo diritto all’anonimato, violando, conseguentemente, l’art.8 della CEDU, che fa rientrare tra i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali l’interesse vitale ad ottenere le informazioni necessarie a scoprire la propria identità personale, come l’identità dei propri genitori.

In seguito alla sentenza della Corte Costituzionale 278/2013, si sono formati due orientamenti giurisprudenziali, scaturenti da una diversa interpretazione giurisprudenziale. Un primo orientamento afferma che con la sentenza suddetta la Corte abbia affidato la soluzione al legislatore, il quale è chiamato ad individuare le modalità per dare attuazione all’interpello riservato della madre anonima; in mancanza di un intervento legislativo, il Tribunale per i minorenni non può, con un’attività giurisdizionale, dare immediata attuazione ai diritti costituzionali dei soggetti coinvolti, in quanto violerebbe la riserva assoluta individuata nella pronuncia della Corte :“…attraverso un procedimento, stabilito per legge…”. L’impossibilità di dare un’attuazione giudiziaria alla sentenza della Corte Costituzionale dipenderebbe dalla sua natura di pronuncia additiva di principio, con rinvio alla legge per la disciplina di dettaglio.

Il secondo orientamento, ponendo come base i principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e la sentenza di illegittimità costituzionale del 2013, afferma la possibilità di interpello da parte del giudice, anche in mancanza di una legge. Il giudice, soltanto perché manca una legge, non può non dare attuazione al diritto fondamentale di un figlio di conoscere la propria identità, nel rispetto assoluto della volontà della madre nel rimanere anonima.

Il Collegio, a Sezioni Unite con sentenza 1946/2017, con riferimento alla sentenza delle Corte costituzionale n. 278 del 2013, sottolinea che è una sentenza di accoglimento, di illegittimità costituzionale e per effetto della quale, la norma dichiarata costituzionalmente illegittima cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Ne consegue che, poiché la norma che escludeva l’interpello della madre, che avesse scelto l’anonimato, per una eventuale revoca è stata dichiarata incostituzionale, il giudice non può negare al figlio, in modo automatico, l’accesso alle informazioni inerenti alle sue origini, per il solo fatto che al momento del parto la madre avesse dichiarato di voler rimanere anonima. Se così fosse, e si escludesse a priori qualsiasi possibilità per il figlio di un interpello, si continuerebbe a dare applicazione ad una norma già rimossa dal nostro ordinamento, in quanto illegittima. Si tratta, non solo di una sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.28 co.7, nella parte in cui non prevede il diritto del figlio a provocare la possibile revoca della scelta dell’anonimato, ma è anche una sentenza additiva di principio, appunto “la possibilità per il giudice di interpellare la madre, che abbia dichiarato di non voler essere nominata, su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione”; ha raggiunto un punto di equilibrio tra il diritto del figlio, nella possibilità per il giudice di interpellare in via riservata la madre biologica per accertare la sua volontà attuale, in presenza di un figlio interessato a conoscere le sue origini, e quello della madre di rimanere nell’oblìo e non svelare la propria identità. La riserva di legge, espressa nella pronuncia Costituzionale, si riferisce alla fonte primaria, alle fonti del diritto, e come tale non estromette il giudice comune, che non può produrre un quid novis sulla base di una libera scelta, ma deve individuare la regola del caso singolo che necessita di essere definito sulla base dei testi normativi e dell’intero sistema, tra cui fa parte anche il principio espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza additiva. Il principio impone agli organi giurisdizionali il tipo di attività, che consiste nell’interpello della madre ai fini di una eventuale revoca della dichiarazione di anonimato, il destinatario di tale attività, cioè il giudice, il momento in cui porre in essere tale attività, su sollecitazione del figlio, e le modalità, che devono essere idonei a rispettare in modo assoluto la riservatezza della donna. Sono indicazioni utili ad assicurare una situazione adeguata alla legalità costituzionale, anche in attesa di una decisione del legislatore, ponendo a sua volta un equilibrio tra i diritti in gioco. Ciò in quanto, le additive di principio da una parte hanno la funzione di orientare il legislatore nella sua attività, dall’altro di indirizzare il giudice a trovare le soluzioni idonee al caso concreto.

Per effetto di quanto su esposto, le Sezioni Unite confermano, che, in attesa di una disposizione legislativa ad hoc, il giudice ha la possibilità di procedere, in seguito a sollecitazione del figlio, ad interpellare la madre, affinché venga accertata la sua volontà di una eventuale revoca alla dichiarazione di anonimato espressa al momento del parto, con l’ausilio di modalità tali da garantire la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della madre; in sintesi, il diritto del figlio viene ad essere tutelato, ma non in modo assoluto, in quanto trova il suo limite insuperabile nella conferma da parte della madre di voler continuare a rimanere anonima nonostante la richiesta del figlio.

In conclusione, le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto nell’interesse della legge: “In tema di parto anonimo, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n.278 del 2013, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte Costituzionale, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in séguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità”.

 


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Maria Caterina Cossari

Laurea in Giurisprudenza, conseguita presso l'Università degli Studi "Magna Graecia" di Catanzaro. Conseguimento dell'Abilitazione all'esercizio della professione di Avvocato, presso la Corte d'Appello di Catanzaro.

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