Concatenazione tra parole narranti e la condizione della web reputation

Concatenazione tra parole narranti e la condizione della web reputation

La totale generalità dei consociati è ormai concorde nel ritenere che, tra le imprescindibili rivoluzioni democratiche, vi è l’avvento del Web: rete telematica mondiale [1] che consente la proliferazioni delle comunità virtuali, grazie all’interazione tra utenti della rete, i quali possono prendere ed immettere informazioni, senza gatekeeper e mediatori culturali.

La de-territorializzazione di questi “non luoghi globali” fa si ché la dimensione territoriale del diritto si scontri con la dimensione globale del relazionarsi, tanto che vengono identificati come “moderne agorà”, [2] grazie all’affermazione dei social network e all’avvento del cosiddetto Web 2.0.

Questo giocoso parallelismo riesce perfettamente a mostrare che, esattamente come nella notoria piazza della pòlis greca, anche il cyberspace è ormai centro sociale, politico e commerciale. Ciò fa sì che la reputazione digitale, strettamente connessa all’identità digitale, dei singoli privati e delle attività, assuma cardinale rilevanza e influenzi le interazioni, proprio come accade nella vita reale.

Più precisamente la reputazione digitale consiste nel biglietto da visita che si forma con le informazioni disponibili online, rinvenibili con l’utilizzo dei motori di ricerca e può essere definita come la “sentenza valoriale sociale” [3] emessa dai fruitori della rete.

Il modo in cui essa viene percepita ha apprezzabili conseguenze, sociali ed economiche sicché una sua lesione potrebbe portare danni, di natura sia patrimoniale che non patrimoniale [4]. Perciò se si tiene conto del fatto che informazioni sul nostro conto, in virtù della mancanza di “filtri” succitata, possono essere pubblicate da altri e possono prescindere dalla veridicità della realtà, come spesso accade, è possibile cogliere la ratio della fervente necessità di tutelare l’onore anche nel mondo virtuale. Anzi, una giurisprudenza costante sussume le ipotesi di lesione della reputazione altrui perpetrata su siti internet e su social network alle circostanze aggravanti relative al reato di diffamazione previste dall’art. 595 del Codice penale, come affermato dalla Sezione V della Suprema Corte di Cassazione nella celebre sentenza del 2000 n. 4741, secondo la quale: “anche in questo caso, infatti, con tutta evidenza, la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l’agente meritevole di un più severo trattamento penale” specificando in seguito che “Internet è, senza alcun dubbio, un mezzo di comunicazione più “democratico” (chiunque, con costi relativamente contenuti e con un apparato tecnologico modesto, può creare un proprio “sito”, ovvero utilizzarne uno altrui). Le informazioni e le immagini immesse in rete, relative a qualsiasi persona sono fruibili (potenzialmente) in qualsiasi parte del mondo” [5].

Attualmente l’importanza della Web reputation emerge specialmente in ambito commerciale poiché essa, riferendosi alle informazioni utilizzate per esprimere un giudizio di valore su un oggetto o una persona, rappresenta valore utile sul capitale investito e ha il maggiore impatto sulle transazioni economiche [6]. Da ciò derivano numerose strategie di marketing tese a far accrescere i proventi delle aziende intervenendo sulla reputazione virtuale delle stesse, come la Inbound marketing: modalità con cui, attraverso iniziative intraprese in rete, vengono trasmesse percezioni positive al “pubblico” al fine di rafforzare la “reputazione di affidabilità e di capacità operativa” e far prediligere il proprio prodotto rispetto ad quello della concorrenza [7]. Il comune denominatore dell’insieme di tali tecniche è sedurre gli stakeholder: qualsiasi individuo “che può influenzare o essere influenzato dal raggiungimento degli obbiettivi di un’organizzazione” come clienti, creditori, quotidiani, così da essere identificati come “attori di primo piano nella reputazione aziendale” [8].

E poiché da una buona web reputation possono originarsi innumerevoli vantaggi, come conquistare gli investitori, l’aumento del prezzo delle azioni, l’engagement (coinvolgimento attivo e spontaneo degli utenti-consumatori) e così via, a fortiori emerge come, dato anche l’ingente capitale che spesso vi viene speso in merito, parimenti nel mondo virtuale non possa essere detto tutto in modo incauto senza creare rilevanti danni patrimoniali, oltre che non.

Così, ciò che viene in rilevo in prima istanza per la salvaguardia della reputazione virtuale è la tutela del bene giuridico dell’onore, garanzia che viene ben accordata con la fattispecie normativa prevista dal precedente citato art. 595 del Codice penale a norma del quale viene punito chiunque “comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione”.

Sul punto sono rinvenibili molteplici interventi giurisprudenziali tesi a delimitarne costantemente i confini affinché, nonostante la persistente difficoltà di alcuni di fare i conti con una nuova scena crimins (che è immateriale), sia fatto salvo ogni diritto in forza del brocardo “ubi societas, ibi ius”, necessariamente connesso anche alle comunità virtuali, affinché l’interfaccia grafica non depotenzi più la percezione degli illeciti compiuti in rete.

In merito a tale argomento appare doveroso menzionare la recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 3669 del 2019 emessa dalla Seconda Sezione Penale relativa al ricorso proposto avverso il provvedimento giurisdizionale di appello con cui, riformando la precedente pronuncia del giudice per le indagini preliminari, si assolveva l’imputato perché relativamente alle fattispecie criminose contestategli, tra cui il reato di cui all’art. 595 del Codice penale a danno di due società di scommesse e gioco d’azzardo, è stato stabilito che il fatto non sussiste. In particolare, relativamente a quest’ultima imputazione, gli veniva contestato di aver diffuso un video su Youtube, nella classifica tra i primi tre siti web più visitati al mondo, in cui era ripresa una falla del sistema di sicurezza del gioco di poker online. L’imputato descrivendo il fenomeno con espressioni che dalle controparti, costituitesi come parti civili, sono state ritenute denigratorie al punto da offendere la loro reputazione, pone in essere una condotta che per i giudici di legittimità è perfettamente in linea con la scriminante di cui all’art. 51 del Codice penale. Più precisamente la Suprema Corte ha specificato come la pubblicazione del video, ormai rimosso, era da ritenersi legittima sottolineando che la circostanza, pacifica, da esso evidenziata, seppur riferita ad una determinata categoria di soggetti interessati (ovvero ai giocatori di poker online) aveva rilevanza sociale, e che “i toni utilizzati ed il tenore dei commenti, seppure caustici, non erano gratuitamente e direttamente diffamatori quanto, piuttosto, avevano scopo divulgativo”.

Occorre evidenziare che in ordine al reato di diffamazione, tra le scriminanti vi è l’esercizio del diritto di critica, coartato da limiti oggettivi affinché sia scongiurato il pericolo che la discrezionalità nell’esercizio della facoltà scada in un abuso dello stesso. In primo luogo, relativamente al bene giuridico tutelato con l’art. 595 c.p., la Corte di legittimità afferma che “in tema di diffamazione, non può trovare applicazione la scriminante del diritto di critica quando la condotta dell’agente trasmodi in aggressioni gratuite, non pertinenti ai temi in discussione ed integranti l’utilizzo di argumenta ad hominem, intesi a screditare l’avversario” [9] statuendo così il limite di rispetto della dignità altrui. Inoltre vi è l’imprescindibile nesso triadico formato dai limiti di verità, continenza e pertinenza, previsti al fine di soddisfare la necessità che venga compiuto un bilanciamento di interessi tra la tutela della reputazione e l’esercizio del diritto di divulgazione.

A meno che non si voglia far emergere a principi fondamentali l’omertà e la connivenza, così da sovvertire l’assetto dei valori fondanti il nostro ordinamento e da eludere il principio di non contraddizione in virtù del quale, essendo riconosciuta al soggetto la possibilità di agire in un certo modo, non è possibile sanzionare lo stesso comportamento [10], non vi è dubbio sulla irrinunciabile importanza del diritto di espressione derivante dall’art. 21 della Carta Costituzionale: il solo terreno fecondo su cui è possibile edificare una società democratica. Questo è vero tanto che, come notoriamente sostenuto dal costituzionalista Temistocle Martines, “la democraticità di un ordinamento è direttamente proporzionale al grado in cui la libera manifestazione del pensiero viene riconosciuta ed in concreto attuata” [11].

Ma nonostante il suddetto diritto di esprimere il proprio pensiero, che si estrinseca nella libertà di divulgazione, appare doveroso ricordare che la stessa facoltà, non essendo esimente da vincoli, trova il suo limite nell’onore del prossimo, persona fisica o giuridica che sia.

E’ certo che la comunicazione digitale possa essere identificata come un simulacro della conversazione reale data la mancanza del linguaggio non-verbale e para-verbale, fondamentali per una corretta corrispondenza, e che quindi vi possano facilmente sorgere fraintendimenti. Ma è anche vero che la lingua italiana (tra le più articolate al mondo) offre una moltitudine di eccellenti spunti che consentono di esprimersi al meglio e di condire un dibattito con una moltitudine di toni pacifici.

Da questo ordine di elementi sorgono perplessità in merito alla successiva statuizione dei giudici di legittimità nella sentenza in esame, secondo i quali rispetto alla continenza dei toni, “la valutazione risente del mezzo utilizzato e dalla particolare espressività che il linguaggio ha assunto così che certi termini, anche coloriti (come nel caso di specie “losco” o “depredati”), specialmente in alcuni contesti, non hanno una valenza direttamente diffamatoria” da cui emerge expressis verbis la necessità di dover tenere conto del contesto all’interno del quale un messaggio viene espresso. Qui insorgono incertezze sul come e sul se debbano essere identificati “i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento” rispetto ad un dato contesto affinché anche “toni coloriti” possano essere essere giustificati e legittimati.

E’ indiscutibile che, come affermato dalla stessa Corte Suprema “la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica” [12]. Ma ciò non significa che esista un contesto che possa giustificare attribuzioni come “losco” o “depredati” riferite al lavoro proprio di due società, quando non è mai stata né accertata né dichiarata da alcuna Corte la fraudolenza dell’attività in questione. Non vi è dubbio alcuno sulla veridicità storica-oggettiva del fatto narrato (ovvero sull’esistenza di una falla nel sistema di gioco), ma ciò su cui ci si vuole soffermare sono le onerose conseguenze che gli attributi allusivi derivanti da soggettive narrazioni possono avere nei confronti della reputazione digitale per chi, come assiduamente accade nei tempi attuali, ne fa un lavoro. Infatti, alla luce dell’attuale rilevanza che l’identità virtuale ha nel mondo del lavoro, questa indagine appare indispensabile affinché venga scongiurato il pericolo che infondate presunzioni negative lesive dell’operato altrui possano trovare giustificazioni.

Per questo motivo il postulato della Corte di Cassazione secondo il quale, rispetto alla continenza espressiva il diritto di critica, poiché opinione personale, “non può essere per sua intrinseca caratteristica totalmente obiettivo e può manifestarsi anche con l’uso di un linguaggio colorito e pungente” [13], come recentemente recepito dal Tribunale Milano che con sentenza n. 7953 del settembre 2019 afferma che si può fruire del il diritto di critica anche con espressioni lesive della reputazione altrui, purché legate alla sola “manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o da un comportamento preso di mira e non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato” [14], sembra inidoneo alle nuove dinamiche mondo odierno, dovendo invece essere valutata necessariamente la portata delle parole utilizzate e alle accezioni in cui se ne usufruisce, data la capacità del linguaggio di “formare” la realtà a seconda del modo in cui se ne usufruisce.

Difatti se “la libertà di esprimere giudizi critici trova il solo limite nell’esistenza di un sufficiente riscontro fattuale” come definito dalla massima dalla Corte di legittimità nella sentenza n. 21145 del 15 Maggio 2019 [15], non appare irragionevole presupporre la sussistenza di un contrasto di tale principio con le attribuzioni del caso in specie qui discusse, tenendo presente la mai dichiarata dolosa creazione di una falla nel sistema di gioco da parte delle società stesse al fine di truffare i partecipanti.

Questo è fondamentale perché la reputazione delle attività commerciali dipende da come le informazioni soggettivamente interpretabili e oggettivamente instabili sul loro conto vengono percepite dai consumatori e dalle reazioni che queste innescano tra gli utenti.

Dopo tutto è la Suprema Corte stessa che nel 2012 affermò che “nel reato di diffamazione in cui sia persona offesa un ente commerciale, il concetto di reputazione deve ritenersi comprensivo anche del profilo connesso all’attività economica svolta dall’ente” (nel caso in commento in questo testo si tratterrebbe di proventi originati da una “losca” falla presente nel sistema) “ed alla considerazione che esso ottiene nel contesto sociale, sicché la condotta lesiva può attenere anche al buon nome commerciale del soggetto giuridico” [16].

Perciò, in virtù delle argomentazioni fin qui ostese, si sottolinea l’esigenza di intervenire affinché sia circoscritta la possibilità che l’irrinunciabile diritto di espressione, con tutte le specifiche estrinsecazioni ad esso naturalmente intrinseche, possa trasmutare nell’emanazione di attribuzioni intese a sminuire la lealtà di una data entità giuridica, oscurandone in patrimonio morale. Il non accidentale accostamento di qualificazioni ipotetiche trova il limite immanente del rispetto dell’onore altrui. Necessità corroborata dall’attuale sensibile coinvolgimento che la reputazione digitale ha nel buon andamento di una società e nella derivata stabilità che ha offrire ai suoi collaboratori.

Conseguentemente il precetto secondo cui non è ravvisabile una violazione della continenza nel diritto di critica “per il solo fatto dell’utilizzo di termini che, pur avendo accezioni indubitabilmente offensive, hanno però anche significati di mero giudizio negativo di cui deve tenersi conto anche alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene impiegato (Cass. n. 37397/2016; Cass. n. 31669/2015)” [17] appare manchevole nella valutazione della reale portata lesiva che vocaboli offensivi posso avere verso la reputazione ditale di imprese (e quindi anche verso la loro stabilità). Sopratutto tenendo presente che tutto ciò che viene postato sulla rete ha la capacità di raggiungere, in poche ore, migliaia di destinatari in ogni parte del mondo.

Il nucleo centrale per la risoluzione della questione sembrerebbe potersi connettere alla recentissima statuizione dei giudici della Corte di Cassazione secondo cui il giornalista imputato del reato di diffamazione aggravato ai sensi del comma terzo dell’articolo 595 c.p., relativamente ad una sua pubblicazione in un quotidiano online, non può essere condannato in quanto “non può essere rimproverato di essersi limitato a riportare i fatti… non avendo egli, comunque, in alcun modo inciso sul contenuto della stessa con arbitrarie aggiunte o indebite insinuazioni” [18]. Questo perché “il virgolettato adoperato dall’articolista…usato per sottolineare la non certezza di quanto descritto sono sintomatici di ogni intenzione manipolativa e lesiva” [18]. Difatti il riportare imparzialmente una notizia sembrerebbe la risoluzione più idonea, coerentemente con la consapevolezza del peso delle parole. Questa constatazione non vuole assolutamente in alcun modo provocare la censura dei convincimenti, delle osservazioni e delle analisi di ogni singolo individuo, ma intende rimarcare l’esistenza del sottile confine che separa il legittimo esercizio del diritto di espressione, anche e sopratutto sotto forma di critica, con le disonoranti affermazioni che posso contrassegnare risolutivamente la considerazione digitale che la collettività ha di un soggetto o di un’impresa.

Siffatto progetto sembrerebbe conforme con quanto statuito dall’art 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo nella parte in cui sancisce che: “l’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica… alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui”.

Coerentemente con questo, nel caso in specie sembrerebbe fosse stato più corretto se nel costatare l’esistenza di una falla si fosse unicamente riportata oggettivamente la notizia, data la rilevanza sociale della stessa, mentre per i dubbi sulla presenza di meccanismi turpi ci si fosse rivolti alle autorità competenti, senza procedere a passi troppo veloci tentando di emulare la competenza di chi vi è di dovere.

Per di più non bisogna trascurare la presenza del fenomeno diffuso in rete in cui l’inosservanza della portata offensiva di toni coloriti viene utilizzata da varie attività nel mercato, che si celano dietro false identità, come espediente per eludere la disciplina della diffamazione, con la pubblicazione di aggressivi dissensi che in realtà hanno il solo fine di demolire in modo sleale la concorrenza.

Si conclude perciò sottolineando l’occorrenza di una profonda revisione di tali postulati allo scopo di promuovere l’ordine e l’armonia nel mondo virtuale, spesso assenti, e di tutelare questa emergente forma di reputazione.

 

 


[1] Enciclopedia TRECCANI
[2] Agata C. Amato Mangiameli, Informatica giuridica, G. Giappichelli Editore, Torino
[3] Stefano Chiarazzo, Social Ceo, Reputazione digitale e brand advocacy per manager che lasciano il segno, FrancoAngeli
[4] Avv. Laura Biarella, Dossier – Diritto all’oblio sul web tra privacy e web reputation, Il Sole 24 ore, DIRITTO 24
[5] Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza n. 4741/2000
[6] Randy Farmer, Bryce Glass, Building web reputation system
[7] Riccardo Scandellari, Fai di te stesso un brand. Personal branding e reputazione online, Web Book
[8] Isabella Corradini, Enrico Nardelli, La reputazione aziendale. Aspetti sociali, di misurazione e di gestione, FrancoAngeli
[9] Corte Di Cassazione, Sez. V Penale, sentenza n. 21145/2019
[10] Brocardi
[11] Martines così come riportato da Natalina Stamile in “Brevi note sulla libertà di espressione nell’ordinamento giuridico italiano”
[12] Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza n. 4938 del 28/10/2010, dal libro “I reati contro la persona”, Seconda Edizione di Key Editore
[13] Terza Sezione della Core di Cassazione civ., Sentenza n. 17180 del 2007, come riportato dall’Avv. Longo Davide in Diffamazione via mass media e social network, tutele e risarcimenti, Altalex
[14] Tribunale Milano sez. I, come riportato dall’Avv. Longo Davide in Diffamazione via mass media e social network, tutele e risarcimenti, Altalex
[15] Massima della Corte di Cassazione, Sez. V Penale, Sentenza n. 21145 del 15 Maggio 2019, come riportato dalla rivista telematica “Nel Diritto.it”
[16] Cass. Pen., Quinta Sezione, Sentenza n. 43184 del 21/09/2012, come riportato dal Codice Penale commentato La Tribuna, Seconda Edizione 2018
[17] Cassazione Penale, Sez. 5, Sentenza n. 15089/2020
[18] Cassazione Penale, Sezione 5, Sentenza n. 15086/2020

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