Diffamazione a mezzo web, è necessario un’attenta verifica dell’IP address

Diffamazione a mezzo web, è necessario un’attenta verifica dell’IP address

La Cassazione con sentenza n°5392 del 5.2.2018 ha affermato che per definire la responsabilità del diffamante a mezzo web è necessaria una puntuale ed attenta verifica dell’IP address.

Con la pronunzia n° 5392 della Va sezione la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza della Corte d’Appello di Lecce la quale aveva confermato la condanna del Tribunale di Brindisi nei confronti di un’imputata per il reato di diffamazione a mezzo web disciplinata dall’art. 595 comma 3 c.p.p.

Tra i motivi d’appello proposti dalla difesa dell’imputata è stata accolta in particolar modo la mancanza di una puntuale ed attenta verifica dell’indirizzo IP sul codice numerico assegnato e cioè in via esclusiva a ogni dispositivo elettronico al momento della connessione a una determinata postazione del servizio telefonico, permettendo così di individuare la linea.

La Corte ha trovato fondamento a questa tesi difensiva, in prima istanza perché la motivazione della sentenza d’appello non si era confrontata con le specifiche recriminazioni mosse dalla difesa, relative all’indicata intestazione dell’IP in origine individuato dalla parte civile riferibile al profilo facebook registrato a nome dell’imputata sulla cui bacheca virtuale, secondo la stessa imputata, intervenivano numerosi utenti che ben avrebbero potuto utilizzare un nickname con le sue generalità.

In secundis la Corte territoriale in motiva non si era confrontata con l’argomento proposto dalla difesa secondo il quale, a prescindere dal nickname utilizzato, l’accertamento dell’IP address di provenienza del post poteva essere utile a verificare almeno il titolare della linea telefonica associata.

Ancora la S.C. ha contestato la motivazione del provvedimento impugnato perché non ha comparato l’argomento difensivo relativo alla carenza istruttoria, ovvero con la verifica tecnica di tempi ed orari della connessione, risultando che l’imputata aveva contestato in ogni grado del giudizio la paternità stessa del post.

La Corte in definitiva ha ritenuto che la sentenza d’appello, non si è raffrontata con tutte le argomentazioni antagoniste evidenziate nei motivi di gravame ed abbia optato per una motivazione insufficiente circa il prospettato dubbio relativo all’eventualità che terzi abbiano potuto utilizzare il nickname dell’imputata mandando il messaggio sul forum di discussione, mal utilizzando il criterio legale di valutazione della prova di cui all’art 192, comma 2, c.p.p.

Di fatti quanto alla convergenza , concordanza, precisione degli indizi posti alla base della ritenuta responsabilità, per la condanna non è sufficiente attribuire rilievo alla provenienza del post da un profilo Facebook intestato alla donna poiché il mancato accertamento ha compromesso l’impianto accusatorio perché non ha consentito di procedere con il massimo grado di certezza possibile all’attribuzione della responsabilità anche perché di fatti sarebbe stato anche possibile, adombra la Corte, un utilizzo abusivo ed improprio del nickname dell’accusata.


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Alberto Maria Acone

Laureato in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II" Diploma Accademico presso LUMSA Master School in "Cybercrime i lati oscuri della rete. Corso di Diritto Penale dell'Informatica" Corso di Perfezionamento in tecnica e Deontologica dell'Avvocato Penalista presso la Camera Penale Irpina Winter school presso Università degli Studi di Napoli "Federico II"- Spazio Giuridico Europeo e tutela dei diritti dell'imputato tra processo e carcere" Corso di Perfezionamento in Scienze Penalistiche Integrate presso Università degli Studi di Napoli Federico II Esercita la propria attività professionale presso lo Studio legale Associato Acone in Avellino

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