Diffusione di contenuti sessualmente espliciti per vendetta: il revenge porn

Diffusione di contenuti sessualmente espliciti per vendetta: il revenge porn

Con l’espressione revenge porn[1] (vendetta porno o vendetta pornografica) si intende quel fenomeno, che purtroppo sempre più dilaga, di diffusione, o minaccia di diffusione, sul web di immagini o video pornografici ritraenti un altro soggetto senza il consenso di quest’ultimo alla diffusione. Questi comportamenti sono perlopiù motivati dal desiderio di vendicarsi nei confronti della vittima per aver quest’ultima interrotto una relazione sentimentale con l’agente. Le condotte di revenge porn sono infatti ascrivibili al fenomeno della violenza di genere o violenza contro le donne, le quali vengono discriminate soprattutto nella manifestazione della loro sessualità.

In assenza di una specifica disciplina normativa, la giurisprudenza era solita punire le condotte suddette mediante il ricorso ad alcune fattispecie di reato. Nello specifico, il fenomeno era spesso ricondotto all’articolo 595 codice penale, relativo alla diffamazione e posto a tutela della reputazione; o agli articoli 167, 167-bis e 167-ter del Codice della Privacy (Decreto Legislativo 196/2003), relativi al trattamento illecito, alla comunicazione e diffusione illecita, nonché all’acquisizione fraudolenta di dati personali; ovvero all’articolo 629 codice penale, relativo all’estorsione e destinato a punire la condotta di chi utilizza il materiale a contenuto sessualmente esplicito al fine di ottenere un ingiusto profitto. Nei casi più rari, poi, si riusciva ad inquadrare il fenomeno nel reato di atti persecutori, di cui all’articolo 612-bis codice penale[2].

Risultando, tuttavia, insufficiente il ricorso a tali fattispecie criminose data la gravità e la peculiarità del fenomeno, il Legislatore è intervenuto con la Legge n. 69/2019, il c.d. “Codice Rosso”[3], introducendo modifiche al codice penale e al codice di procedura penale volte a tutelare le vittime di violenza domestica[4] e di genere, tra cui l’articolo 612-ter codice penale, che disciplina il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, ossia il c.d. revenge porn.

Il bene giuridico tutelato dalla norma è la libertà morale. Il delitto de quo non realizza infatti una semplice lesione al decoro della persona, ma comporta un vero e proprio disprezzo per la dignità della persona[5].

Il primo comma della norma in esame prevede che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone interessate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000. Si tratta di un reato comune, in quanto può essere commesso da chiunque, che punisce sia il soggetto che ha realizzato le immagini o i video, ma anche chi ha sottratto tali contenuti. Con riferimento invece alla clausola di salvezza salvo che il fatto costituisca più grave reato, essa consente l’applicabilità della più grave fattispecie dell’estorsione nell’ipotesi in cui la diffusione del materiale sia strumentale all’ottenimento di danaro o altra utilità.

L’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico.

La condotta punita può essere integrata con cinque modalità: inviando, consegnando, cedendo, pubblicando o diffondendo i contenuti sessualmente espliciti. Le prime tre modalità presuppongono un contatto diretto tra soggetti determinati, mentre le ultime due riguardano attività destinate ad una cerchia indeterminata di soggetti, con potenziale viralità della diffusione dei contenuti.

Oggetto della condotta sono immagini o video a contenuto sessualmente esplicito. Questa espressione ha destato parecchi dubbi perché non chiara e precisa[6]. Tuttavia, in assenza di alcuna interpretazione giurisprudenziale, si potrebbe fare riferimento alla nozione contenuta nell’ultimo comma dell’articolo 600-ter, relativo alla pornografia minorile: per contenuti sessualmente espliciti si potrebbe quindi intendere ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di soggetti coinvolti in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un soggetto per scopi sessuali[7].

Infine, deve trattarsi di contenuti destinati a rimanere privati, cioè nati all’interno di un rapporto di intimità, e diffusi senza il consenso delle persone rappresentate[8][9].

L’ipotesi di cui al secondo comma della norma in esame, invece, prevede l’applicazione della medesima pena di cui al comma precedente a chi, avendo ricevuto o acquisito le immagini o i video in questione, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone interessate, al fine di recare loro nocumento.

Ciò che differenzia la fattispecie descritta nel primo comma della norma sono: il soggetto agente e la finalità perseguita da quest’ultimo.

L’autore del reato, in questo secondo caso, è un soggetto terzo rispetto alla persona offesa[10]. La finalità che deve essere perseguita dall’agente qualifica la fattispecie come revenge porn nel senso letterale dell’espressione: nel recare nocumento alla persona rappresentata, l’autore del reato potrebbe perseguire infatti una finalità vendicativa vera e propria. Vien da sé che, in questo secondo caso, l’elemento soggettivo richiesto è il dolo specifico[11].

I commi terzo e quarto dell’articolo 612­-ter codice penale individuano poi un serie di circostanze aggravanti.

Ai sensi del terzo comma, la pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa, ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici. Si tratta di una circostanza speciale ad effetto comune, che determina un aumento della pena fino ad un terzo.

Ai sensi del quarto comma, invece, la pena è aumentata se i fatti sono commessi in danno di una persona in condizione di inferiorità psichica o fisica o in danno di una donna in stato di gravidanza. In tal caso si tratta di una circostanza speciale ad effetto speciale, che comporta l’aumento della pena da un terzo alla metà[12].

Quanto alla procedibilità del reato, essa è disciplinata in conformità ai principi previsti in materia di reati contro la libertà sessuale. Invero, il delitto è punito a querela della persona offesa, eccetto nell’ipotesi di cui al comma quarto in cui si procederà d’ufficio. Il termine per proporre la querela è di sei mesi ed è rimettibile solo in sede processuale, ossia al cospetto e sotto il controllo di un giudice.

In conclusione, sebbene da un lato siano da ritenere certamente apprezzabili gli sforzi del Legislatore di volere disciplinare un fenomeno del tutto oscuro nel nostro ordinamento penale, dall’altro non si può non tenere conto delle zone grigie lasciate fuori dalla disciplina normativa. Invero, il fenomeno del revenge porn, così come delineatosi fattualmente al giorno d’oggi, è molto più ampio di quello racchiuso all’interno della cornice legislativa. Ciò, in parte, è sicuramente dovuto al fatto che fenomeni del genere hanno tanta risonanza perchè la diffusione di un video o un’immagine sul web e, nello specifico, sui social networks fa in modo che il materiale diventi virale, tramite la ricondivisione da parte di un numero indeterminato di utenti.

Ciò detto, la normativa, così delineata, sembra criticabile soprattutto per due motivi. In primis perché, prendendo le mosse dalla tutela della libertà morale della vittima e, soprattutto, della sua riservatezza sessuale, il Legislatore avrebbe potuto prevedere nei confronti della persona offesa di tale reato le stesse tutele previste per la persona offesa di reati di violenza sessuali, disponendo ad esempio la possibilità di procedere a porte chiuse in giudizio e vietando la pubblicazione di atti o immagini del processo e della persona offesa, onde evitare che il processo stesso rappresenti il pretesto per una vittimizzazione secondaria della persona offesa.

Ma ciò che desta maggiori preoccupazioni è che, tenuto conto della tendenziale viralità del fenomeno sul web, il Legislatore non abbia previsto alcuna misura per garantire la rapida e sicura rimozione dei contenuti sessualmente espliciti finiti on-line, anche tramite la collaborazione dei gestori dei social networks o dei siti sui quali vengono diffusi i materiali. Del resto, una previsione di tal fatta avrebbe garantito maggiormente la vittima di revenge porn: avrebbe provato a limitare l’umiliazione che ogni giorno è costretta a subire a causa della ricondivisione di una parte della sua intimità da un numero indeterminato e potenzialmente illimitato di persone.

 

 

 

 


[1] Il termine viene mutuato dalla legislazione inglese, “Section 33 of the Criminale Justice and Courts Act 2015”.
[2] Interessante, al riguardo, è la sentenza n. 30455/2019 della Quinta Sezione della Corte di Cassazione in cui un ex fidanzato, per le plurime condotte poste in essere nei confronti della donna, è stato condannato per diffamazione aggravata, atti persecutori e trattamenti illecito di dati personali della ex fidanzata. In tal caso, gli ermellini non solo hanno ritenuto integrato il delitto di stalking per avere l’agente realizzato uno degli eventi previsti dall’art. 612-bis c.p., avendo determinato una situazione di turbamento esistenziale nella donna, la quale, in seguito alla diffusione di immagini sessualmente esplicite sul web e alla diffusioni di biglietti con epiteti denigratori nell’ambiente di lavoro della donna, è stata additata, e addirittura ricercata, come persona disponibile ad incontri sessuali con sconosciuti. Ma hanno altresì ritenuto sussistente il concorso tra il delitto di diffamazione e quello di trattamento illecito di dati personali, essendo il bene giuridico posto a tutela dei medesimi differente: nel primo caso si tratterebbe della reputazione, intesa come la considerazione di cui la persona gode nell’ambiente sociale e attinente all’aspetto esteriore dell’individuo; nel secondo caso, invece, si tratterebbe della riservatezza, che consiste nel diritto dell’individuo a preservare la propria sfera personale da chi, senza titolo, tende ad ingerirsi in essa e che attiene, quindi, all’aspetto interiore dell’individuo.
[3] Le nuove norme rappresentano uno strumento ulteriore di attuazione della direttiva 2012/29/UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, attuata con il d. lgs. 15 dicembre 2015, n. 212. Questa direttiva aveva offerto per la prima volta una definizione di violenza di genere, al considerando n. 18: “violenza diretta contro una persona a causa del suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere (…), è una forma di discriminazione e una violazione delle libertà fondamentali della vittima e comprende la violenza nelle relazioni strette (…)”.
[4] Per violenza domestica, ai sensi dell’art. 3, co. 1, d.l. n. 93 del 2013, convertito dalla legge n. 113 del 2013, si intende: “uno o più atti, gravi ovvero non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra persone legale, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”.
[5] Secondo una parte della dottrina, tuttavia, sarebbe stata preferibile la collocazione tra i delitti di violenza sessuale, in un titolo autonomo, che avrebbe potuto rubricarsi “tutela della riservatezza sessuale” ed essere inserito dopo i delitti di violenza sessuale e prima dell’attuale Sezione III del Titolo XII. In tal senso, si veda il documento “Integrazione dell’Unione delle Camere Penali Italiane” al disegno di legge n. 1200 (Bonafede, Salvini, Trenta, bongiorno, Tria), all’esito dell’audizione dinanzi alla Commissione di Giustizia del Senato in data 11 giugno 2019.
[6] A giudizio di alcuni, per la sua intrinseca genericità potrebbe essere potenzialmente lesiva dei principi di riserva di legge e tassatività di cui all’art. 25 Cost.
[7] L’aggettivo esplicito sembra suggerire però che non ricadano nell’ambito applicativo della norma le immagini e i video nudi privi di alcun significato sessuale.
[8] Non assume rilevanza penale il trasferimento di materiale che sia già stato diffuso ad incertam personam dal soggetto rappresentato. Nel caso in cui, invece, il materiale sia stato inviato ad una cerchia ristretta di persone determinate, il materiale deve considerarsi destinato a rimanere privato, salvo il consenso alla diffusione da parte della persona rappresentata.
[9] È importante rilevare che il Legislatore richiede il consenso e non il dissenso da parte della vittima: laddove, infatti, avesse richiesto il dissenso, sarebbe stato sufficiente il silenzio della vittima per legittimare l’agente a trasmettere il materiale, senza incorrere in alcuna sanzione penale.
[10] Anche se non si esclude che il soggetto possa avere ricevuto le immagini e i video a contenuto sessualmente esplicito dalla stessa persona rappresentata: è il caso del c.d. sexting. Quest’ultimo consiste nello scambio di messaggi, testi o immagini a sfondo sessuale, tramite il cellulare o altri mezzi informatici: il termine deriva dalla fusione di sex (sesso) con texting (invio di messaggi elettronici).
[11] Suscita perplessità il fatto che le condotte di cui al secondo comma vengano ritenute penalmente rilevanti solo se viene perseguita la finalità di recare nocumento alla vittima. Sembra infatti che anche questa fattispecie si contraddistingua per il medesimo disvalore della prima, ma è stata disciplinata in modo difforme dalla legge penale, sulla base di ragioni difficilmente comprensibili. Sul punto, Valsecchi A., Codice rosso e diritto penale sostanziale: le principali novità, in Diritto Penale e Processo, 2020, 2, 163. Peraltro, la previsione del dolo specifico restringe fortemente l’area del penalmente rilevante di tali condotte, con il rischio di lasciare incensurate le condotte, non meno irrilevanti, di chi diffonde i materiali a contenuto sessualmente esplicito per farsene vanto o per ragioni ludiche. Sul punto, Relazione su novità normativa n. 62 del 27 ottobre 2019 dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo, Servizio Penale, della Corte di Cassazione.
[12] Ha sollevato diverse critiche il fatto che tra le circostanze aggravanti non si faccia riferimento al minore. Ciò probabilmente perché il Legislatore ha pensato che, nel caso in cui venisse diffuso materiale sessualmente esplicito relativo ad un minore, a rilevare fosse il diverso reato di diffusione di materiale pedopornografico, di cui al co. 3 dell’art. 600-ter c.p. Tuttavia, tenuto conto della clausola di salvezza prevista all’incipit dell’art. 612­-ter c.p., il revenge porn prevale rispetto al reato di pedopornografia, avendo una pena più grave. Peraltro, la stessa Corte di Cassazione (Cass. Pen. III Sez., 18 febbraio 2016, n. 11675) ha avuto modo di chiarire che la divulgazione di immagini autoprodotte da minori non può integrare in alcun caso la fattispecie di divulgazione, diffusione e pubblicizzazione di materiale pedopornografico. Da ciò discende che nel caso in cui il materiale sessualmente esplicito diffuso riguardi un minorenne verrà applicato l’art. 612-ter c.p. nella sua forma non aggravata.

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Elena Avenia

Nata ad Agrigento nel 1994. Laureata con pieni voti e lode nel luglio del 2018, presso l'Università degli studi di Enna Kore, con una tesi in diritto processuale penale dal titolo "L'ascolto del minore nel processo penale". Diplomata nel luglio 2020 presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università degli studi di Catania. Abilitata alla professione forense il 21 settembre 2020.

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