Fondamento e struttura della responsabilità contrattuale

Fondamento e struttura della responsabilità contrattuale

Il debitore che non provveda ad eseguire esattamente la prestazione dovuta determina un inadempimento, il quale genera una responsabilità che – in posizione antitetica a quella “aquiliana” o extracontrattuale – si denomina, impropriamente, “contrattuale”[1].

Il primo fondamentale principio posto dal codice civile all’art. 1218 fa dell’inadempimento un fatto oggettivo: alla mancata o inesatta esecuzione della prestazione consegue la responsabilità del debitore[2]. Autorevole dottrina ha precisato che una regola idonea a ricondurre l’inadempimento ad una soluzione unitaria e circoscritta nell’ambito dell’art. 1218 c.c. sia difficilmente configurabile in ragione delle differenti fonti (negoziali o no), delle caratteristiche della prestazione o del suo oggetto, della qualità o veste professionale rivestita dai soggetti; la previsione delle clausole generali (artt. 1176 e 1218 c.c.) da parte dell’ordinamento ha consentito di adeguare la regola astratta alla peculiarità del caso di specie[3]. Finché permane l’oggettiva possibilità della prestazione, il debitore è comunque responsabile.

Con quest’ultimo principio, tuttavia, concorre quello per il quale il debitore è legittimato a provare che la mancata esecuzione della prestazione sia stata determinata da impossibilità sopravvenuta della prestazione e che quest’ultima derivi da causa a lui non imputabile[4].

L’art. 1218 c.c. dispone infatti: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

L’individuazione del limite della responsabilità debitoria nell’impossibilità della prestazione conferma che, con la disposizione in oggetto, il legislatore del 1942 intese codificare la linea dottrinale che, fin dalla vigenza del codice civile precedente, propugnava una teoria rigorosamente oggettiva della responsabilità per inadempimento[5]. Nel pensiero di Giuseppe Osti, infatti, l’impossibilità della prestazione era configurata come oggettiva e assoluta. Ad avviso dell’autore è oggettiva “l’impossibilità costituita da un impedimento inerente alla intrinseca entità di tale contenuto della prestazione”, che dunque assume rilevanza in relazione alla stretta correlazione tra la prestazione e l’impedimento[6]. L’altro requisito è rappresentato dalla assolutezza che si sostanzia nell’impedimento che “non può in nessun modo essere vinto dalle forze umane”; in questa manifestazione rileva il sacrificio, lo sforzo richiesto al debitore per superare l’impedimento[7]. La tesi di Osti può quindi essere racchiusa nella breve formula (da egli stesso elaborata): “finché la prestazione è in senso oggettivo e assoluto possibile il debitore è responsabile per il solo fatto dell’inadempienza; quando la prestazione divenuta oggettivamente e assolutamente impossibile, il debitore non è responsabile se non a condizione che possa essergli imputata a colpa quella sopravvenuta impossibilità”[8].

La recezione, da parte del Codice del 1942, di tale impostazione dottrinale è confermata, non solo dalla previsione dell’art. 1218 c.c., ma anche dalla Relazione al Codice n. 571, in base alla quale: “L’art. 1218 [..] subordinando l’esonero da responsabilità alla condizione che l’inadempimento o il ritardo siano stati determinati da impossibilità della prestazione, ha voluto mettere in evidenza che deve trattarsi di impossibilità della prestazione in sé e per sé considerata: di guisa che non può, agli effetti liberatori, essere presa in considerazione l’impossibilità di adempiere originata da cause inerenti al debitore o alla sua economia, che non siano obiettivamente collegate alla prestazione dovuta”[9]. L’articolo menzionato è ritenuto da molti una norma assai problematica[10], che prima di ogni altra deve essere coordinata con una norma parimenti oggetto di costante dibattito dottrinale: l’art. 1176 c.c.

Il primo comma dell’articolo  menzionato in precedenza, dispone che: “Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia”. Ciò permetterebbe di individuare anzitutto quale debba essere il comportamento del debitore nell’attuazione del rapporto obbligatorio e, in secondo luogo, di qualificare una impossibilità oggettiva di eseguire l’obbligazione in ragione del criterio della diligenza[11]. Il criterio della diligenza, però, non assurge a parametro generale di esonero della responsabilità da inadempimento: deve essere configurato invece come “regola tecnica che misura la qualità dello sforzo richiesto dal debitore nell’esecuzione della singola prestazione nonché nell’evitare, prevedere o prevenire le cause dell’impossibilità della prestazione”[12].

Secondo taluni, l’inosservanza del criterio della diligenza costituirebbe la c.d. “colpa lieve”[13].

L’idea della necessaria correlazione tra colpa e responsabilità è stata criticata da una parte autorevole della dottrina. La ragione risiede nella “assoluta superfluità della colpa in seno al meccanismo della responsabilità contrattuale”[14]. La colpa, secondo questa impostazione dottrinale, funge da criterio di imputazione della responsabilità aquiliana, la quale non ha nulla di più solido su cui poggiare di una mera interferenza occasionale, mancando, dunque, una struttura corposa su cui innestare la responsabilità stessa; diversamente, nella responsabilità ex contractu, il fondamento solido c’è e risiede nell’instaurazione del rapporto obbligatorio, che peraltro permette la preventiva individuazione del soggetto cui attribuire la responsabilità derivante dal mancato o inesatto adempimento[15]. A tutto ciò va aggiunto l’errore sulla doppia valenza assunta dal concetto di diligenza, che ha generato un “groviglio di fraintendimenti” sul tema: nella prima accezione come criterio di imputazione e nella seconda proiezione come parametro di determinazione del contenuto dell’obbligazione[16]. Questa doppia rilevanza è stata evidenziata da Luigi Mengoni, il quale ne ha rintracciato un riferimento nell’art. 1176 c.c.: nel primo comma come diligenza in senso proprio; nel secondo comma come perizia, cioè come “criterio di determinazione per relationem del contenuto dei rapporti obbligatori”[17]. Sul tema la dottrina non è pacifica e per lo più la perizia viene equiparata alla diligenza e il secondo comma dell’art. 1176 c.c. viene considerato una specificazione del primo[18].

L’art. 1218 c.c. deve essere coordinato altresì con l’art. 1175 c.c. che impone il reciproco dovere di correttezza e determina ciò che il creditore può pretendere e ciò che il debitore deve eseguire[19]. Il ruolo sempre più rilevante assunto dal principio generale di buona fede ha inciso sul concetto di prestazione, determinandone una revisione critica che ha indotto la dottrina ad assimilare l’impossibilità sopravvenuta alla ineseguibilità della prestazione[20]. La questione alla quale la dottrina ha voluto dare una risposta si sostanzia nella possibilità che le norme, contenute nel libro delle obbligazioni e ispirate al principio di buona fede, siano idonee ad autorizzare una equiparazione tecnica tra impossibilità ed inesigibilità della prestazione[21]. La questione è stata affrontata precisando che “non si tratta [..] di equiparare alla impossibilità una difficoltà eccessiva di adempiere, ma di stabilire in quali casi il principio della buona fede svolga una funzione di integrazione del contenuto della prestazione, fondando obblighi di protezione e correttezza a carico di entrambe le parti nell’esecuzione del rapporto obbligatorio, sì da escludere l’esigibilità di prestazioni che potrebbero essere realizzate solo con mezzi che non possono dirsi connaturati alla prestazione stessa”[22].

Il criterio dell’inesigibilità secondo buona fede è stato veicolato in qualche modo come criterio di giudizio dell’abuso del diritto: il creditore che pretende una prestazione inesigibile alla stregua della buona fede, configura un esercizio abusivo del suo diritto[23].

Il secondo momento del giudizio di responsabilità contrattuale, ai sensi dell’art. 1218 c.c., è rappresentato dalla “impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore”. Il codice vigente ha abbandonato, in sede di disciplina generale della responsabilità da inadempimento i concetti di “caso fortuito”, “forza maggiore” e “causa estranea”; la precisa individuazione contenutistica delle nozioni di cui sopra, in relazione alla proiezione del concetto di causa imputabile, ha determinato una contrapposizione di opinioni sia in dottrina sia in giurisprudenza[24]. Come è stato osservato “il coordinamento tra la nozione di impossibilità liberatoria e la norma che impone al debitore di usare la diligenza del buon padre di famiglia nell’adempiere all’obbligazione [..] deve avvenire sulla base del principio che il debitore è diligente soltanto se fa quanto è possibile per adempiere e per opporsi agli eventuali fatti impeditivi, in maniera conforme al contenuto dell’obbligazione, ossia secondo la valutazione relativa ed oggettiva analizzata a proposito dell’impossibilità sopravvenuta”[25].

La giurisprudenza al riguardo sembra aver adottato il contemperamento tra elementi oggettivi e soggettivi dell’inadempimento, il quale avviene sotto la formula “causa non imputabile”, che racchiude l’impossibilità liberatoria ex art. 1218 c.c. e il parametro della diligenza del debitore ex art. 1176 c.c.[26]

In caso di adempimento inesatto o ritardato ovvero di inadempimento definitivo, l’ordinamento giuridico attribuisce, secondo autorevole dottrina, preminente rilievo all’obbligo di risarcimento del danno ex art. 1218 c.c.[27]

Sul debitore inadempiente quindi grava una responsabilità “personale” che si differenzia da quella c.d. “patrimoniale” in quanto quest’ultima entra in funzione allorché il debitore non adempia nemmeno l’obbligo del risarcimento[28].

Ai sensi dell’art. 1223 c.c., il risarcimento del danno derivante dall’inadempimento o dal ritardo deve comprendere sia la perdita subita dal creditore (c.d. danno emergente) che il mancato guadagno (c.d. lucro cessante), in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta (è necessario il nesso di causalità tra l’inadempimento e il danno). Se l’inadempimento o il ritardo non abbiano natura dolosa, il risarcimento è limitato soltanto al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l’obbligazione (art. 1225 c.c.). All’illecito contrattuale si applica l’art. 2946 c.c. che prevede il termine ordinario di decorrenza decennale, fermo restando i tempi più brevi previsti per alcune tipologie di contratti.


[1] A. TORRENTE-P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Giuffrè, Milano 1994, cit., p. 412.

[2] F. GALGANO, Diritto privato, CEDAM, Padova 1992, cit., p. 197.

[3] P. PERLINGIERI, Manuale di diritto civile, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2005, cit., p. 281.

[4] F. GALGANO, Op. cit., p. 198.

[5] G. SANTORO, La responsabilità contrattuale, in I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale, Collana diretta da F. Galgano, CEDAM, Padova, 1992, cit., p. 7 ss.; G. OSTI, La revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, in Riv. Dir. Civ., 1918.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] G. VISINTINI, La responsabilità contrattuale, Jovene, Napoli, 1979, cit., p. 17-18; G. OSTI, Op. cit.

[9] G. SANTORO, Op. cit., p. 10.

[10] C.A. CANNATA, Le obbligazioni in generale, in Tratt. Dir. Priv., diretto da P. RESCIGNO, 9, Obbligazioni e contratti, Torino, 1999, cit., p. 56.

[11] P.G. MONATERI, La responsabilità contrattuale e precontrattuale, UTET, Torino, 1998, cit., p. 5; L. MENGONI, Responsabilità contrattuale, in Enc. Dir., vol. XXXIX, Milano, 1988, p. 120.

[12] P. PERLINGIERI, Op. cit., p. 283.

[13] P.G. MONATERI, Ibidem; M. GIORGIANNI, Buon padre di famiglia, in Noviss. Dig. It., II, Torino, 1958.

[14] S. MAZZAMUTO, La responsabilità contrattuale nella prospettiva europea, in La didattica del diritto civile a cura di S. MAZZAMUTO e E. MOSCATI, Giappichelli, Torino, 2015, cit., p. 35.

[15] Ibidem.

[16] S. MAZZAMUTO, Op. cit., p. 42.

[17] Ibidem, nota 93: L. MENGONI, Obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi”, cit., p. 193 ss.

[18] Ibidem, nota 94: C. M. BIANCA, Diritto civile. 4. L’obbligazione, Milano, 1993, p. 90 ss; Id., Diritto civile. 5. La responsabilità, cit., p. 33 ss; DI MAJO, Delle obbligazioni in generale, cit., p. 430 ss.

[19] P. PERLINGIERI, Op. cit., p. 282.

[20] P.G. MONATERI, Op. cit., p. 11, nota 39: L. MENGONI, Responsabilità contrattuale, 1986, cit., p. 87.

[21] G. VISINTINI, Op. cit., p. 81.

[22] G. VISINTINI, Op. cit., p. 82.

[23] G. VISINTINI, Op. cit., p. 89.

[24] G. SANTORO, Op. cit., p. 32-33.

[25] P.G. MONATERI, Op. cit., p. 18-19, nota 77: U. BRECCIA, Le obbligazioni, cit., p. 469.

[26] P.G. MONATERI, Op. cit., p. 19.

[27] M. GIORGIANNI, L’inadempimento, Corso di diritto civile, Terza edizione riveduta, Giuffrè, 1975, cit., p. 187.

[28] Ibidem.


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