Giustizia riparativa: un’evoluzione effettiva o soltanto apparente?

Giustizia riparativa: un’evoluzione effettiva o soltanto apparente?

Con l’incredibilmente discussa riforma Cartabia è stato introdotto il nuovo sistema di giustizia riparativa, che promette di decongestionare il carico di fascicoli che affollano quotidianamente le scrivanie di giudici (e con loro, dietro le quinte, tirocinanti ex art. 73, D.L. 69/2013 e addetti all’ufficio del processo). Ma non è tutto: la ratio che si cela dietro tale innovazione apportata dalla novella legislativa vuole essere ancor più ampia e profonda, strettamente ancorata a ragioni di politica criminale. Rendere possibile un confronto tra vittima e autore del reato, permettendo di capire l’uno le ragioni dell’altro, avrebbe il fine, per un verso, di umanizzare il reo dando la possibilità alla persona offesa di ascoltare le ragioni sottese alla sua condotta illecita, così da non “demonizzarlo”; per altro verso, di fargli comprendere a fondo, attraverso lo sfogo della vittima, il danno che ha causato, con un chiaro intento rieducativo e – è il caso di dirlo – riparativo. Tutto ciò mira ad una maggiore consapevolezza e vicinanza tra le due parti e, con uno sguardo – forse eccessivamente – ampio e ottimistico, tra le persone in generale, con positive ripercussioni in termini di tutela della società, di contrasto, controllo e contenimento del crimine e di riduzione dei conflitti sociali.

La giustizia riparativa come percorso parallelo ed alternativo al procedimento penale ordinario è una novità per il sistema processualpenalistico italiano, ma non lo è di certo a livello europeo – basti pensare che in diversi Paesi, in tema di restorative justice, sta prendendo piede il c.d. conferencing, che affonda le sue radici nella cultura anglosassone. Inoltre, tale riforma nasce grazie ad una forte spinta internazionale ed europea, che da tempo individuano e promuovono forme di deflazione processuale e mediazione penale quale soluzione contro il sovraffollamento carcerario, l’irragionevole durata dei processi e l’enorme quantità di procedimenti per reati bagatellari, col nobile scopo di un cammino dell’Italia verso una giustizia più efficace e concreta.

Entriamo adesso nei meandri della novella, attraverso l’analisi di alcune delle criticità più o meno apparenti delle norme che disciplinano il nuovo sistema di giustizia riparativa, dando un quadro delle novità che da qui a poco dovremo affrontare noi operatori del diritto, sia pure senza alcuna pretesa di completezza.

Nell’art. 42 del d.lgs. del 10 ottobre 2022, n. 150 troviamo le principali definizioni necessarie ai fini della corretta interpretazione del titolo IV, rubricato “disciplina organica della giustizia riparativa”. Ciò che spicca immediatamente è l’ampiezza del termine di persona indicata come autore dell’offesa, dal momento che ricomprende al suo interno non soltanto l’imputato, ma anche l’indagato, la persona sottoposta a misura di sicurezza personale, la persona condannata con pronuncia irrevocabile, la persona nei cui confronti è stata emessa una sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere, per difetto della condizione di procedibilità, anche ai sensi dell’articolo 344-bis del codice di procedura penale, o per intervenuta causa estintiva del reato e, persino, la persona indicata come tale dalla vittima, anche prima della proposizione della querela (fatto che, a mio parere,  rasenta l’illogico soprattutto se il caso di specie riguarda un reato avente procedibilità a querela).

Inoltre, all’art 45 del predetto decreto tra i partecipanti ai programmi di giustizia riparativa vengono elencati, insieme alla vittima del reato e alla persona indicata come autore dell’offesa, “altri soggetti appartenenti alla comunità, quali familiari della vittima del reato e della persona indicata come autore dell’offesa, persone di supporto segnalate dalla vittima del reato e dalla persona indicata come autore dell’offesa, enti ed associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato, rappresentanti o delegati di Stato, Regioni, enti locali o di altri enti pubblici, autorità di pubblica sicurezza, servizi sociali” (lettera c) e “chiunque altro vi abbia interesse” (lettera d).

È facile intuire che l’utopistico dialogo costruttivo, l’incontro “faccia a faccia” tra l’autore del reato e la vittima, alla base dell’idea originale e rivoluzionaria della restorative justice, è qualcosa di ben lontano da ciò che concretamente avverrà quando i Centri di giustizia riparativa saranno operativi, poiché l’intervento di numerosi altri soggetti non può far altro che confondere, alimentare quel groviglio di risentimenti, paure, sensi di colpa e angosce della persona offesa e del responsabile che originano dal reato, rendendolo inestricabile. E, come se non bastasse, non è previsto alcun limite di tempo per lo svolgimento degli incontri prodromici all’accordo riparativo, la cui durata è rimessa alla totale discrezionalità dei mediatori, i quali valuteranno in base alle necessità del caso.

Un ulteriore aspetto che suscita perplessità è il fatto che se è vero che all’art 48 del d.lgs. n. 150 del 2022 si afferma che il consenso alla partecipazione ai programmi di giustizia riparativa è personale, libero, consapevole, informato ed espresso in forma scritta; è anche vero che il nuovo comma 1 dell’art 129 bis c.p.p., inserito dall’art. 7, comma 1, lett. c), della riforma Cartabia, prevede che “in ogni stato e stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria può disporre, anche d’ufficio, l’invio dell’imputato e della vittima del reato di cui all’articolo 42, comma 1, lettera b), del decreto legislativo attuativo della legge 27 settembre 2021, n. 134, al Centro per la giustizia riparativa di riferimento, per l’avvio di un programma di giustizia riparativa.”.

La necessità di un consenso libero e personale dei partecipanti mal si concilia con la possibilità che il giudice disponga d’ufficio l’invio dell’imputato e della persona offesa in un Centro per la giustizia riparativa. E sul punto è inevitabile chiedersi: lo stesso giudice che dispone d’ufficio l’avvio di un percorso di giustizia riparativa, qualora poi questo dovesse avere esito negativo e dunque il procedimento penale ordinario dovesse riprendere regolarmente il suo corso, sarà effettivamente terzo e imparziale? Non si tratterebbe nei fatti di una nuova ipotesi di incompatibilità ex art. 34 c.p.p.?

E, ancora, qualora l’imputato, personalmente o a mezzo procuratore speciale, decida di accedere al programma di giustizia riparativa, ma poi quest’ultimo avesse esito negativo, e quindi, ancora una volta, il processo ordinario riprendesse regolarmente, l’organo giudicante sarebbe comunque scevro da pregiudizi? Quanto nei fatti tale iniziativa potrebbe sottendere un’ammissione di colpa e pregiudicare la possibilità di un’assoluzione? Quanto tutto ciò riesce a non pestare i piedi al principio cardine, costituzionalmente garantito dall’art. 27, della presunzione di innocenza fino alla condanna definitiva?

E, infine, quale sarà il ruolo del difensore nella giustizia riparativa? Quanto il consenso alla partecipazione delle parti verosimilmente vorrà essere orientato da una preventiva consulenza legale? E quanto la mancanza di una previsione di tabelle per la liquidazione giudiziale dei compensi per avvocati e studi legali basate su parametri ministeriali forensi in ordine a tale consulenza potrà influire sul parere dato da molti professionisti poco ligi alle regole deontologiche?


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