Gli impedimenti al matrimonio canonico (prima parte)

Gli impedimenti al matrimonio canonico (prima parte)

Sommario: 1. Introduzione – 2. Gli impedimenti dirimenti in generale (cann. 1073-1074) – 2.1. Alcune premesse – 2.2. Il canone 1073 – 2.3. Il canone 1074 e le distinzioni degli impedimenti – 3. L’autorità della Chiesa sugli impedimenti (can. 1075) – 3.1. Il canone 1076 – 3.2. La  potestas  dell’Ordinario (can. 1077) – 4. La dispensa degli impedimenti: il caso generale – 4.1. Peculiarità della dispensa (cann. 1079-1080) – 4.2. Ulteriori disposizioni sulla dispensa (1081-1083)

 

1. Introduzione

Parlare di matrimonio, all’interno del Diritto canonico, non è cosa semplice. La molteplicità e la varietà delle fattispecie codificate richiede un’attenzione del tutto singolare complice altresì una fondata complessità della materia qui trattata  Ciò è dovuto dalla eterogeneità sostanziale dell’intero trattato matrimoniale e dalla rilevanza che questo assume nella vita della Chiesa, sia a motivo della sua natura sacramentale sia della sua rilevanza sociale. Proprio per tali accenni, il legislatore dedica diversi canoni sia sul matrimonio nella sua dimensione essenziale sia su alcuni elementi che godono di una particolare importanza per una maggiore comprensione dello stesso contratto matrimoniale ed è tra questi che spiccano gli impedimenti intorno ai quali si concentra il presente lavoro.La complessità di un simile studio, come si intuisce, postula un intervento capillare che sappia cogliere da un lato la ratio sottesa a ciascuno di essi e dall’altro la peculiarità di ogni singola disposizione codificata. Ciò comporta un’considerazione del tutto singolare la quale, seguendo l’impostazione codiciale, dovrà seguire un itinerario piuttosto esteso il quale, partendo da alcuni elementi generali previsti dal Codice, passerà per un’esposizione più sistematica delle disposizioni presenti fino ad occuparsi, in maniera più dettagliata ed approfondita, dei singoli impedimenti codificati a partire dal can.1083.

2. Gli impedimenti dirimenti in genere: (cann. 1073-1074)

2.1. Alcune premesse

Il punto di partenza di questa analisi è sicuramente rappresentato dal can. 1073 in cui il legislatore stabilisce che «Impedimentum dirimes personam inhabilem reddit ad matrimonium valide contrahendum». La disposizione, in parte diversa dalla norma del Codice del 1917[1] appare chiara e nello stesso tempo risulta del tutto unica poiché attribuisce all’impedimento la capacità di rendere inabile la persona a contrarre valido matrimonio.

Già da questa breve considerazione si può notare come l’impedimento risulta essere completamente  legato alla persona, assumendo così dei tratti del tutto antropologici[2] nonché alla stessa definizione di matrimonio . In effetti, prima di addentrarsi nell’analisi del can.1073, è del tutto opportuno sottolineare come la norma suddetta  non può essere compresa se non tenendo conto sia del can. 1057 sia del can.10. Per ciò che attiene al primo dei due canoni poc’anzi citati risulta chiaro il collegamento poiché uno dei requisiti essenziali per la celebrazione di un valido matrimonio è costituito dall’abilità dei contraenti ovvero dal possesso di una particolare capacità non solo prevista dal diritto naturale ma anche dal diritto positivo ovvero, in altre parole, dalla sussistenza di tutta una serie di requisiti stabiliti dalla legge che rendono possibile l’unione nunziale. Tale abilità presuppone certo la capacità ma si tratta di una proprietà della persona del tutto unica e peculiare perchè se è vero che una persona abile è anche capace non si può dire il contrario. Tuttavia, senza approfondire una questione di per sé del tutto ampia e non così semplice, è sufficiente richiamarsi alle tesi della dottrina maggioritaria che leggono nell’abilità matrimoniale l’insieme delle qualità richieste dalla legge per poter compiere un determinato atto ovvero essa è «una qualità specifica del soggetto necessariamente per poter porre validamente quell’atto giuridico concreto»[3]. In sintesi mentre la capacità si presenta come propria della persona umana indipendentemente dall’atto che si vuol compiere, l’abilità viene declinata verso un preciso oggetto giuridico dal quale promano certi effetti come accade, per esempio, nel contrarre matrimonio.

A tale aspetto ne va associato un altro il cui riferimento principale è il can.10. In questa seconda disposizione si coglie uno degli aspetti più tipici del diritto canonico ovvero la sussistenza delle cosiddette leggi inabilitanti. Anche in questo caso valga un rapido accenno dal momento che l’intero discorso, per poter essere ampiamente compreso, deve tener conto altresì delle leggi irritanti: qui basti richiamare come una legge si dice inabilitante nella misura in cui «la persona autrice dell’atto non riunisce in sé le condizioni richieste dalla legge affinché possa porlo in essere in modo valido»[4] ovvero, in parole più semplici, il carattere inabilitante di una disposizione normativa non si riferisce all’atto in sé considerato ma alla persona che è chiamata a compierlo provocando così la sua nullità[5].

L’ampio excursus qui richiamato permette di spiegare più da vicino la ratio sottesa ai canoni 1073 e seguenti. Gli impedimenti infatti costituiscono una limitazione del generico ius connubii di cui al can.1058 ovvero essi possono essere definiti come «una legge divino- positiva, naturale o ecclesiastica che dichiara o rende inabile una persona a contrarre validamente matrimonio»[6]. Entrando più nel dettaglio della definizione di impedimento qui proposta è opportuno sottolineare che la loro sussistenza non pregiudica né limita la libertà matrimoniale ma, al contrario, la rafforza poiché essa non si presenta affatto come uno ius absolutum ma ammette delle limitazioni a motivo delle implicazioni sociali e culturali che l’atto matrimoniale comporta[7].

Tale aspetto assume all’interno dell’ordinamento canonico una rilevanza ancora più stringente: infatti il matrimonio, ratione sacramentii, non può che essere posto in essere da persone dotate di una particolare abilità che permette da un lato di comprendere il quid specifico di tale sacramento e dall’altro permette a quest’ultimo di dispiegare, in modo puntuale, i suoi effetti sia tra gli sposi sia erga omnes.

In sintesi, attraverso la codificazione degli impedimenti, il legislatore non intende menomare il diritto a contrarre matrimonio né l’ampio favore  verso quest’ultimo ma mira ad inquadrare, in modo sistematico, tale istituto in termini di maggiore responsabilità ed integrità prevedendo, laddove sussistano, alcuni fatti o circostanze che, a causa del loro “peso” giuridico, lederebbero alla digintas matrimonii ovvero agli stessi sposi.

2.3. Il canone 1073

Come accennato in precedenza, il can. 1073 fornisce la chiave di lettura più rilevante per la giusta comprensione della natura degli impedimenti matrimoniali. La norma infatti va scandagliata nei suoi elementi essenziali poiché ognuno di essi gode di un’importanza notevole. Anzitutto si utilizza il participio presente dirimens il quale, ad una prima osservazione , potrebbe non costituire un elemento degno di nota. Al contrario, tale costrutto verbale rappresenta una delle principali novità rispetto alla precedente novella codiciale poiché definisce che l’unica species di impedimenti riconosciuti dal Codice è quella dirimente escludendo, in toto, quella impediente.

Volendo chiarire meglio bisogna sottolineare che il can. 1036 del Codex del 1917 disciplinava entrambe le tipologie le quali si differenziavano a causa dei loro effetti: mentre l’impedimento impediente comportava solo una proibizione a contrarre matrimonio senza che questa, tuttavia, pregiudicasse la validità dello stesso, quello dirimente comportava la totale invalidità dell’unione matrimoniale. Tale differenza, per quanto storicamente attendibile[8], fu oggetto di un interessante dibattito in sede di revisione codiciale sottolineando, in particolare, la natura prettamente morale degli impedimenti impedienti volendo favorire al contrario una linea più consona e antropologicamente fondata recependo così altresì le linee tracciate dal Concilio Vaticano II e più nel dettaglio da Gaudium et Spes 48-52[9].

Di conseguenza, nell’attuale quadro legislativo, gli unici impedimenti riconosciuti solo quelli dirimenti cioè quelli che comportano l’invalidità del contratto matrimoniale superando così alcune difficoltà tra l’ambito morale e quello giuridico e limitandosi a coglierne il secondo aspetto favorendo così una lettura più giuridica e dunque più accertabile e verificabile giudizialmente.

Infine, sempre con riguardo al suddetto canone, è opportuno sottolineare la natura coattiva che anima la presente disposizione dal momento che la presenza di uno di essi rende effettiva l’inabilità della persona a contrarre matrimonio per il solo fatto della loro esistenza[10]. Ciò comporta alcune ripercussioni del tutto singolari a motivo del raccordo (evidente) tra il can. 1073 e le norme generali in particolare i canoni 10, 14 e 18.

Più specificamente, come evidenziato, gli impedimenti matrimoniali sono leggi inabilitanti per cui appare del tutto manifesta l’applicazione dell’effetto del can. 10 in questo caso rivolto unicamente a proteggere l’istituzione matrimoniale limitando il già ricordato ius connubi[11] mentre risulta più complesso il rimando can. 14 in relazione cioè al dubbio. In questo secondo caso è necessario distinguere tra il dubbio di diritto e quello di fatto: con riguardo alla prima tipologia vale l’antico brocardo impedimentum dubium, impedimentum nullum per cui la celebrazione di un matrimonio in presenza di un impedimento non conosciuto non pregiudica la validità dello stesso mentre nel caso del dubbio di fatto la disciplina appare più blanda potendo applicarsi, all’uopo, il can. 87 §2 ovvero rimandando all’Ordinario del luogo la possibilità di dispensare da tutti gli impedimenti anche se riservati[12].

Infine, essendo norme limitati il diritto di contrarre matrimonio, essi ricadono sotto il raggio di applicazione del can. 18 ovvero si obbliga l’autorità di riferimento ad un’interpretazione stretta rispetto al significato codiciale[13].

2.4. Il canone 1074 e le classificazioni degli impedimenti

Definita la ratio degli impedimenti, il can. 1074 postula la prima e più rilevante distinzione di quest’ultimi riproducendo, in maniera del tutto uniforme, la disposizione del can. 1036 §2 del Codice Pio- Benedettino. In particolare, secondo il can. 1074, l’impedimento si ritiene pubblico se può essere provato in foro esterno: altrimenti è occulto.

Ad un primo rapido esame la norma sembra postulare una forma di tautologia dal momento che l’elemento principale per il distinguo è rappresentato dalla possibilità della sua prova: nondimeno la questione è più complessa ruotando intorno al concetto di pubblicità ovvero alla sua rilevanza in sede processuale. In effetti, un impedimento si dice pubblico se può essere provato in foro esterno mediante prove come  le dichiarazioni delle parti (can.1536), deposizioni di testimoni (can.1573), perizie o documenti di altro genere[14] ovvero, come nota la dottrina, è sempre necessario, ai fini della qualificazione in termini “pubblici” la prova della loro sussistenza in sede processuale[15]. Di conseguenza, ma sul punto si ritornerà più avanti, tutte le volte in cui l’impedimento non può essere provato secondo quanto detto in precedenza, si dice occulto.

A questa prima summa distinctio se ne affiancano altre che appartengono alla tradizione giuridica della Chiesa e che possono essere considerate, ancora oggi, valide e degne di nota.

In particolare si suole distinguere tra impedimenti dispensabili e non dispensabili il cui potere è attribuito o al Romano Pontefice o all’Ordinario del luogo. A questa se ne associa un’altra che fa riferimento alla loro origine: infatti vi sono impedimenti di diritto divino o di diritto umano[16] a cui, per i primi, sono soggetti tutti gli uomini mentre verso i secondi, in combinato disposto con il can. 11 e 1059, solo i battezzati nella Chiesa.

In rapporto alla durata si parla di impedimenti perpetui o temporanei. I primi durano per tutta la vita, i secondi possono cessare venendo meno la causa che li provoca ovvero per il mutamento delle circostanze.

In rapporto al grado di conoscenza la dottrina suole distinguere tra impedimenti dubbi o certi tenendo conto altresì di quanto previsto dalle norme generali e più nel dettaglio dal can. 1014. Infatti il dubbio se è diritto verte sulla legge ovvero sui suoi elementi mentre quello di fatto concerne il fatto; tale ripartizione assume un suo particolare significato in sede processuale dal momento che nel primo caso la rilevanza è maggiore concernendo gli elementi formali e sostanziali della legge e dunque inerisce alla certezza morale di cui al can.1608 mentre, nel caso del dubium facti la questione richiede un approfondimento processuale maggiore.

Infine gli impedimenti si distinguono tra assoluti o relativi. In questo ultimo caso l’elemento determinante è rappresentato dalla loro estensione poiché un impedimento è assoluto quando impedisce, in ogni caso, la celebrazione del matrimonio con qualsiasi persona come ad esempio di cui al can. 1086; si dice invece relativo se esclude il matrimonio con una determinata persona, come per esempio per il can. 1084[17].

3. L’ autorità della Chiesa sugli impedimenti (can. 1075)

Dispone il can. 1075:«Supremae tantum Ecclesiae autoritatis est authentice declarare quandoman ius divinum matrimonium prohibeat vel dirimat. Uni quoque supraemae auctoritati ius est alia impedimenta pro baptizatis constituere». La norma, ampia nella sua formulazione, risulta essere del tutto simile alla precedente codificazione sebbene presenti qualche innovazione soprattutto in relazione alla sua portata giuridico- normativa e dal suo maggiore apparato antropologico di riferimento.

In questo senso il disposto del can. 1075 cerca di operare una sintesi tra diverse tendenze entrambe legate alla natura stessa degli impedimenti e specialmente alla loro origine poiché se da un lato essi appaiono come limitazioni del più ampio ius connubii dall’altro rispondono ad una esigenza di natura “politica” vòlta così a regolare, in termini puntuali, l’istituto nuziale. In questo senso il suddetto canone coglie la complessa natura del foedus sponsale cercando così di salvaguardare la necessità degli impedimenti ma anche di evitare come quest’ultimi possano, in qualche modo, superare i giusti confini di competenza apparendo così veri e propri limiti assoluti del già menzionato diritto al matrimonio di cui al can. 1058.

Dunque, in parole più semplici, il sensus plenior del can. 1075 è proprio quello di “contenere” nei giusti binari la portata coercitiva degli impedimenti specificando il soggetto competente chiamato a regolare la loro efficacia.

Analizzando con attenzione la norma si nota l’esistenza di una vera e propria riserva di legge in capo all’autorità della Chiesa la quale è l’unico[18] soggetto a poter dichiarare o stabilire altri impedimenti. Tale riserva nasce dalla consapevolezza che la Suprema Autorità della Chiesa, in quanto titolare del depositum fidei affidato da Cristo agli Apostoli, può dichiarare o stabilire quali circostanze o fatti possano inficiare la validità del matrimonio[19]. In questo senso la disposizione qui esaminata, per quanto rivolta a disciplinare gli aspetti esteriori del matrimonio, si riveste di una caratura del tutto teologica così da sottolineare l’eccezionalità della disciplina escludendo da tale facoltà qualsiasi altra autorità.

Scendendo ancora più nel dettaglio è opportuno sottolineare come tale riserva di legge si biforca a seconda dell’origine dell’impedimento. Nel caso in cui questi sia di diritto divino l’efficacia del provvedimento sarà soltanto dichiarativa per una ragione del tutto semplice: la Chiesa infatti si limita a tradurre, in senso legislativo, ciò che è da sempre iscritto nella natura stessa del matrimonio cosicché la portata normativa di un simile provvedimento riguarderà tutti, poiché è «[…] la loro stessa natura che ne impone l’obbligo universale nella sua generalità: sicché la precisazione positiva ripete da tale rilevanza giuridica universale e non dall’atto di promulgazione positiva della sua specificazione la propria via cogens, così  come ha in essa i propri limiti»[20].

Fattispecie diversa e per certi versi anche specifica è rappresentata dal secondo paragrafo il quale ribadisce l’attribuzione della riserva di legge alla sola autorità suprema per ciò che riguarda alia impedimenta. Ovviamente la disposizione si riferisce agli  impedimenti di diritto ecclesiastico che riguardano i soli battezzati esprimendosi così come una riserva nella riserva ovvero limitando il proprio raggio d’azione a soggetti definiti senza avere una portata universale come previsto nella prima parte.

In questo senso risulta essere utile concentrarsi su questo canone poiché esclude qualsiasi altro soggetto ecclesiale dal poter stabilire nuovi impedimenti riservandoli, come suggerito, alla sola autorità suprema. In verità tale munus, nel corso della storia, si è manifestato anche in capo ai Vescovi diocesani e più peculiarmente da parte dei Concili provinciali che disciplinavano, in modo piuttosto particolareggiato, diverse tipologie di impedimenti. Ciò comportò una normativa piuttosto ampia, frutto molto spesso di motivazioni politiche, radicate all’interno di un determinato territorio con la conseguenza di un panorama eterogeneo dalla non facile applicazione. Solo intorno al XIII secolo si avvertì l’esigenza – poi confermata – di una concentrazione di tale munus in capo al Romano Pontefice, elemento questo confermato dal Concilio di Trento e dai successivi codici[21]. Va precisato comunque che in sede di codificazione non mancarono proposte per un possibile riconoscimento di uno ius da parte dei Vescovi di emanare impedimenta prohibentia sive dirimentia[22] ma tale norma fu espunta per espressa menzione di numerose Conferenze Episcopali e di singoli Vescovi [23]fautori – a ragione– di una normativa comune sine particularitatibus.

3.1. Il canone 1076

Tra le disposizioni più rilevanti di questo insieme di canoni spicca il can. 1076 in cui si vieta espressamente che la consuetudine possa erigersi a fonte normativa per gli impedimenti riproducendo, in questo senso, quanto previsto dal can. 1041 del Codice Pio- Benedettino.

Di per sé la consuetudine può assurgere, a determinate condizioni, a fonte di diritto come risulta essere previsto dai canoni 23- 28 delle norme generali. In questo senso una consuetudine risulta essere caratterizzata da due elementi ben definiti ovvero la diuturnitas intesa come ripetizione costante di un determinato comportamento e dalla opinio iuris caratterizzata dalla convinzione dell’obbligatorietà dello stesso[24].

Tali considerazioni trovano un loro limite proprio nel suddetto canone i cui motivi, come nota la dottrina[25], non solo del tutto chiari volendo, molto probabilmente, evitare che una fonte del diritto così peculiare come la consuetudine possa ledere alla certezza e alla chiarezza rispetto agli impedimenti al matrimonio.

Dunque la ragione più specifica connessa al divieto, ben espresso dall’uso del verbo reprobatur, è da rinvenirsi nell’esigenza di attribuire alla sola legge il compito e la funzione di regolare la materia degli impedimenti cercando di evitare, in ogni modo, che un certo comportamento, spesso legato a delle mere convinzioni o comunque ad un certo territorio, possa dirsi universale e come tale porre in essere convinzioni del tutto inesatte circa il matrimonio e le sue funzioni.

Approfondendo ancora un dettaglio, è opportuno notare che la fraseologia utilizzata nel can. 1076 si proietta più verso il futuro che verso il passato. In altre parole si evita la possibile recezione di possibili nuovi impedimenti nati in contesti  locali peculiari in particolare rispetto a quelli vigenti nelle tradizioni sociali di popolazioni di recente convertitesi alla fede cristiana e cattolica[26].

3.2. La potestas dell’Ordinario (can. 1077)

Dopo aver riservato alla Suprema Autorità della Chiesa il compito o di dichiarare o di stabilire alia impedimenta e aver escluso dalle fonti normative la consuetudine, il legislatore allarga la sua riflessione concentrandosi, nel can. 1077, intorno alla figura dell’Ordinario del luogo al quale è concesso, stante alcune circostanze peculiari, la possibilità di apporre un vetitum rispetto alle nozze dei suoi sudditi ovvero verso coloro che dimorano o vivono abitualmente nel suo territorio.

La disposizione, a motivo della sua complessità, richiede qualche approfondimento in merito vòlto a ricercare gli elementi di maggiore specificità che l’accompagnano. Anzitutto valga il rimando alla precedente codificazione che, in maniera del tutto speculare, riproduce, al can. 1039, l’esatto contenuto del canone de quo con qualche differenza che pure esamineremo nel dettaglio. Per prima cosa è bene sottolineare che tale disposizione non lede quanto già previsto dal can.1075 non essendo, in ogni caso, concesso all’Ordinario del luogo, di poter legiferare in materia di impedimenti matrimoniali: qui infatti il munus dell’Ordinario si limita ad assumere il volto di un precetto singolare ovvero appare del tutto circoscritto[27], come nota la disposizione, in casu peculiari.

Entrando nel dettaglio della fattispecie normativa, soggetto attivo è l’Ordinarius loci ovvero il Romano Pontefice, il Vescovo diocesano e le figure equiparate ad esclusione dei Concili particolari ovvero del parroco e del vicario giudiziale[28].

Soggetto passivo del canone in esame è il suddito ovvero coloro che dimorano o che vivono abitualmente nel territorio di sua competenza. Più particolarmente il suddito è colui che è nato e battezzato nella diocesi di riferimento mentre qualche problema maggiore può sorgere nei confronti di coloro dei commorantes. In assenza di una puntuale definizione normativa, si può ritenere che il carattere dell’abitualità possa essere rappresentato da una dimora continuata o comunque non interrottasi per un certo periodo accompagnata dall’intenzione di rimanervi applicandosi, in questo caso, quanto previsto dai canoni 102 e seguenti[29] per cui il raggio d’estensione del presente divieto è de facto da leggersi secondo il criterio della competenza territoriale e in combinato disposto con le norme del Libro II concernenti il munus episcopale.

Chiariti i soggetti di riferimento, approfondiamo meglio i contenuti del canone.

In primo luogo, ci si soffermi sull’espressione in casu peculiari la quale, stante la natura della disposizione, richiede qualche cautela in più essendo definibile come un caso «definibile e conosciuto nella sua fattispecie concreta»[30] ovvero la determinazione dello stesso necessita di un’attenzione del tutto singolare dovendo essere riferito a determinate persone o casi precisi escludendo qualsiasi interpretazione di natura estensiva e come tale dotata di carattere generale[31].

Seconda condizione prevista dal canone è quella costituita dall’espressione sed ad tempus tantum. Dalla lettura del disposto emerge come l’apposizione del divieto non può avere natura perpetua ma va commisurato alla particolare circostanza in cui quest’ultimo è stato apposto per cui vanno escluse tutte quelle interpretazioni che hanno cercato, nel corso degli anni, di vedere nel canone de quo natura indeterminata[32]. Perciò nell’apposizione del divieto l’Ordinario del luogo dovrà determinare l’entità e la durata di quest’ultimo specificando le ragioni in facto e in iure che hanno determinato tale apposizione[33].

Terzo requisito richiesto dalla legge è la sussistenza di una causa grave e perdurante. Il punto, come si intuisce, è uno dei più problematici ruotando intorno ad un concetto – quello di causa– di per sé complesso come del resto appaiono gli attribuiti ad essa applicati.

Anzitutto la causa deve essere grave, modificando l’inciso codiciale del 1917 secondo cui essa doveva essere semplicemente iuxta . Il punto non è pacifico ma qui basti semplicemente sottolineare che il passaggio da una causa giusta a grave ha il merito di sottolineare, ancora una volta, la portata marcatamente restrittiva ed eccezionale che deve essere associata a questo canone. In tal senso spetta all’Ordinario del luogo individuare quali circostanze rispetto alla sua realtà territoriale possano integrare la presenza di una causa grave: si tratta, come si intuisce, di un compito questo, di per sé non facile, ma comunque necessario affinché il canone riceva un’applicazione ordinaria senza derive interpretative.

In assenza di una puntuale descrizione dei casi in cui sussiste una causa grave, è stata la dottrina ad individuarli: li richiamiamo brevemente limitandoci a qualche considerazione generale.

In primis il divieto in esame può sorgere in presenza di casi di nullità matrimoniale a condizione che essa non raggiunga la certezza morale in merito alla suddetta nullità[34]. L’ipotesi, pur condivisibile nei suoi rilievi sostanziali, può creare qualche problema in merito alla sua applicazione sia in merito alla definizione, in questo caso, di causa grave sia per la natura temporanea del divieto che mal si concilia con la presenza di elementi oggettivi tali da indurre la nullità del contratto matrimoniale.

In secundis si ritiene che il vetitum possa applicarsi in casi eccezionali non previsti dalla normativa vigente ma comunque possibili soprattutto in merito ad un possibile scandalo rispetto al bene pubblico. Anche in questa seconda tipologia possono sorgere diverse questioni in particolare sulla determinazione, in forma oggettiva, di una compromissione del bene pubblico richiedendo, in tal senso, un notevole sforzo interpretativo in merito all’Ordinario.

Al di là di queste due ipotesi ve ne sono state formulate altre come ad esempio nel caso di malattie particolarmente gravi o a in presenza di fattispecie integranti i vizi del consenso: tuttavia il punto non è pacifico e suscita ancora un ampio dibattito in dottrina[35]. Altre questioni intorno all’entità del vetitum si rinvengono rispettivamente in casi di illeceità delle nozze in combinato disposto con il can.1071[36] o situazioni di pericolo per la salvezza delle anime[37].

Chiarita, seppur in maniera sommaria, la natura della gravis causa , riprendiamo il commento al canone soffermandoci su alcune questioni di riferimento.

Da sottolineare, anzitutto, la natura del presente decreto: esso infatti si configura come un atto singolare[38] applicandosi, in toto, quanto previsto dalla normativa vigente di cui ai canoni 49- 58. Di conseguenza, nell’adozione del decreto, l’Ordinario dovrà servirsi della forma scritta nonché dell’obbligo di motivazione indicando tutte le circostanze che hanno portato alla sua adozione. La sua natura sembra essere di diritto pubblico sebbene non si escluda altresì una portata amministrativa mentre è da escludersi perentoriamente carattere giudiziale non essendo tale provvedimento qualificabile, in nessun modo, come una sanzione né come un precetto penale[39] configurandosi invece come un decreto singolare apposto da parte dell’Ordinario verso i suoi sudditi pur nell’eccezionalità del caso in esame.

Detto ciò è altresì importante sottolineare il valore del vetitum dal momento che esso non si riferisce alla validità ma alla liceità del contratto matrimoniale. Infatti dalla lettura del canone in esame è il secondo paragrafo a suggerire detta interpretazione poiché si riserva alla sola Suprema Autorità della Chiesa la possibilità di apporre una clausola dirimente. Questo comporta che la natura giuridica del vetitum non determina, di per sé l’invalidità delle nozze dal momento che ciò può essere tale a condizione che tale previsione venga prevista dal Romano Pontefice o dal Collegio dei Vescovi, ipotesi questa di per sé non remota ma comunque poco praticabile[40].

Chiarito anche questo punto, analizziamo un altro aspetto questa volta relativo all’imposizione del divieto il quale, avendo natura personale, non potrà che essere adottato, come già detto, nella forma di un decreto singolare in cui l’Ordinario del luogo dovrà indicare, in maniera piuttosto dettagliata, le ragioni inerenti allo stesso. Pertanto, prima della sua adozione, occorrerà condurre un’indagine capillare, atta a verificare la sussistenza di elementi integranti tali ipotesi[41]ovvero dovrà indicare, al meglio, la causa grave giustificativa di un simile divieto[42] per cui è necessario che tale decreto sia adottato per iscritto con obbligo di motivazione. Circa l’efficacia, il vetitum produce i suoi effetti immediatamente pur essendo normalmente previsto che esso cominci ad urgere tramite la consegna dello stesso al ricevente ovvero, nei casi di estrema gravità, tramite sottoscrizione di un verbale con due testimoni ed un notaio.

Nulla viene invece detto per ciò che concerne la forma di pubblicità con cui il vetitum si manifesta. Condivisibile è la tesi di coloro che sostengono, a causa dell’urgenza del decreto, di dover adottare forme “visibili” di pubblicità escludendo, pertanto, interpretazioni che vorrebbero operativo il vetitum solo nella coscienza del nubendo. Pertanto può essere utile l’annotazione di quest’ultimo sui registri matrimoniali ovvero garantire forme di comunicazioni tra i soggetti interessati al fine di rendere più operativa e più efficace tale disposizione[43].

L’urgenza e l’eccezionalità di un simile provvedimento assumono dei tratti specifici in relazione alla sua durata complice il fatto che la misura in esame, come accennato, non può avere carattere perpetuo ma solo temporaneo.

La revoca infatti, può avvenire ab extrinseco o ab intrinseco. La prima si ottiene attraverso la soppressione formale da parte dell’Ordinario del luogo ovvero del suo Superiore gerarchico[44] o da un suo delegato a condizione che il decreto sia dato per iscritto e in forma esplicita.

L’effetto si produce quando la revoca viene comunicata all’interessato applicandosi quanto previsto dal can.47.

L’altra ipotesi si verifica, in verità, in diverse circostanze prima fra tutti il venir meno della causa che ha comportato l’adozione di tale divieto ovvero quando cessa la potestà dell’Ordinario di riferimento. La disposizione più interessante è sicuramente rappresentata dal presupposto dell’eccezionalità per cui la rimozione può essere fatta valere anche dall’interessato il quale, trovandosi in una condizione di limitazione del suo ius nubendi, può far valere le proprie ragioni presso l’Ordinario di riferimento il quale, analizzata la fattispecie, rimuoverà il divieto: tale rimozione dovrà comunque essere resa nota all’interessato e registrata presso i registri di battesimo mentre, nel caso di diniego, sono ammessi i mezzi di impugnazione previsti dalla legge contro tale tipologia di atti[45].

4. La dispensa dagli impedimenti: il caso generale

Tra le disposizioni più rilevanti presenti in questa sezione dedicata al diritto matrimoniale vi è sicuramente il can. 1078 che introduce la questione relativa alla dispensa rispetto agli impedimenti matrimoniali.

Tale canone risulta, in verità, peculiare poiché risulta essere del tutto dissimile rispetto al suo analogo del 1917 che limitava al solo Romano Pontefice la dispensa di qualsiasi impedimento anche quelli ordinari poiché allarga i soggetti competenti in tal senso, fornendo una chiave di lettura del tutto favorevole all’Ordinario del luogo e le figure ad esso equiparate.

Più da vicino il canone recepisce le linee tracciate sia dal Motu Proprio Episcoporum munerbius sia quanto previsto nel decreto conciliare Christus Dominus n. 8 che, per la prima volta, attribuirono  ai singoli Vescovi il munus di dispensare rispetto alle leggi di diritto ecclesiastico così come oggi previsto dal can.87 §2 del vigente Codice[46]. Proprio il sopraindicato canone appare come una delle fonti preferenziali per la retta comprensione di quanto previsto nel disposto normativo qui commentato poiché stabilisce che la motivazione specifica per l’ottenimento della dispensa è il riconoscimento del bene spirituale – nozione questa piuttosto ampia ma che può essere racchiusa nel potere di vigilanza e di attenzione che ogni singolo Vescovo deve manifestare nei confronti del suo popolo di Dio.

Proprio il riferimento a ciò ci aiuta ad entrare meglio nel canone suddetto: anzitutto si evidenzia il raggio d’azione di tale munus che appare in verità duplice in perfetta corrispondenza con il canone 1077 poc’anzi commentato dal momento che interseca sia un criterio materiale rappresentato dal territorio sia uno di carattere personale costituito dai subditos  ubique commorantes et omens in proprio territorio.

Si intuisce facilmente il perché di questo aspetto: da un lato infatti si vuole tutelare lo ius connubii inteso come un diritto personale a cui tutti, in linea teorica possono accedere, dall’altro si vuole regolare la materia degli impedimenti secondo un criterio oggettivo manifestando nei confronti dell’Ordinario del luogo l’unica auctoritas capace di provvedere in tal senso[47]. Egli infatti, come pastore della porzione del popolo di Dio a lui affidata, sarà particolarmente attento nel provvedere in forma adeguata anche per quanto riguarda la concessione di una dispensa se ciò giova al bene della sua comunità.

Si tratta, in altri termini, di un canone che declina, in un ambito estremamente importante come è il diritto matrimoniale, il principio di sussidiarietà[48] ben evidenziato a partire da Vaticano II e che trova applicazione in più ambiti della vita della Chiesa.

Tale principio, applicato in specie al matrimonio, permette all’Ordinario[49] di poter concedere la dispensa cosicché gli effetti degli impedimenti vengano meno e permettendo di conseguenza, la valida e lecita celebrazione delle nozze.

Va da sé che il raggio d’applicazione del can.1078 è circoscritto unicamente agli impedimenti di diritto ecclesiastico secondo quanto già previsto dal can.1075. Ciò è particolarmente evidente poiché nessuna autorità umana può intervenire su disposizioni dettate dall’ordine naturale o se si vuole dal diritto divino. Solo per ciò che riguarda impedimenti la cui origine è “umana” si può intervenire concedendo la rimozione di un divieto che – lo ribadiamo– è posto pro matrimonio et pro nubendis.

Questo munus tuttavia non è assoluto; può sembrare, a prima vista, del tutto sconveniente la fraseologia contenuta alla fine del primo paragrafo e nel secondo ma ad un più attento esame si intuisce la ratio sottostante  Infatti la riserva di legge di cui al §2 risponde ad esigenze di particolare gravità e pertanto abbisogna dell’intervento della suprema autorità che, avocando a sé il potere di dispensare, vuole adottare una normativa uniforme ed universale a motivo della gravità del caso concreto[50].

Tre sono gli impedimenti riservati alla S. Sede: a) l’impedimento derivante dagli ordini sacri (can.1087): b)l’impedimento derivante dal voto pubblico e perpetuo di castità emesso in un Istituto religioso di diritto pontificio (can. 1088): c) l’impedimento del crimine di coniugicidio (can. 1090): la gravità, facilmente intuibile, dai casi suddetti autorizza e giustifica la riserva apostolica[51].

Infine il terzo paragrafo esclude da qualsiasi forma di dispensa l’impedimento di consanguineità in linea retta o nel secondo grado della linea collaterale. In questo ultimo caso il potere dell’Ordinario non può essere invocato a motivo del carattere cogente che anima i suddetti impedimenti né può essere invocato, per la linea retta, l’intervento della S. Sede.

Nel caso di dubbio sulla parentela si deve ritenere impossibile la concessione della dispensa[52].

4.1. Peculiarità della dispensa (canoni 1079-1080)

Analizzata la disposizione generale in merito alla dispensa, occorre porre attenzione ai due canoni seguenti che, invero, tipizzano dei casi peculiari intorno ai quali si manifesta quella particolare cura personae propria di tutto il Diritto canonico.

La prima di esse concerne il pericolo di morte offrendo una disposizione singolare e particolare mutuata, seppur in parte, dal can. 1043 del Codice Pio Benedettino. La difficoltà del canone richiede, come si intuisce, qualche attenzione particolare concernente i singoli sintagmi in esso presenti.

Per prima cosa,  occorre precisare che cosa si intende per urgente mortis periculo dal momento che l’attributo “urgente” permette di considerare tale disposizione come un unicum; più dettagliatamente il pericolo di morte “significat illud rerum discrimen,in quo cum quis constitutus est,ipsum et superesse et occumbere posse, utrumque est vere graviterque probabile[53] ovvero si tratta di una particolare circostanza in cui quella persona si trova nella vera e grave probabilità di sopravvivere o di soccombere[54]. Detto altrimenti, il pericolo di morte trova la sua collocazione in situazioni fondate in facto e in iure dove la morte può essere imminente potendo, allo stesso tempo, sussistere la possibilità che essa non si verifichi a favore cioè della vita.

Chiarito il punto, bisogna sottolineare come il disposto del canone in esame preveda la presenza, come accennato, di un pericolo urgente- Ciò è importante dal momento che rappresenta un dettaglio di non poco conto complice altresì il fatto che, in diverse disposizioni codiciali, si prevede una normativa peculiare nei casi in cui – per l’appunto– si manifesta tale fondato pericolo[55].

Più da vicino sembra qualificabile come urgente  quella situazione giuridicamente fondata in cui versa anche uno solo dei nubendi in cui se ne può prevedere prossima la morte benché non sia sul punto imminente di morire[56] per cui il rimando alla gravità permette di fare riferimento non a casi in cui la morte è inevitabile ma, al contrario, laddove il pericolo può essere fondato come ad esempio in presenza di una malattia grave o di una condanna a morte, di una incursione area o in caso di guerra.

E’ da notare, in ogni caso, che la determinazione dell’urgenza non va tanto commisurata alla situazione in sé considerata ma al nubende ovvero, in un’ultima analisi al matrimonio stesso: ciò permette di considerare come la sua determinazione richieda un’analisi approfondita che interseca in sé sia un profilo prettamente empirico sia, come oggi si ritiene, uno di carattere medico- sanitario in cui l’ampio (e ovvio) margine di discrezionalità suscita – in forma condivisibile– qualche dubbio ed obiezione di sorta.

Nel caso de quo il legislatore concede la possibilità all’Ordinario di dispensare sia dalla forma prescritta sia dagli impedimenti di diritto ecclesiastico pubblici ed occulti con la sola eccezione dell’impedimento che proviene dall’ordine del presbiterato.

La norma, come si intuisce, va letta nel solco già tracciato dai precedenti canoni sottolineando, ancora una volta, il munus dell’autorità in esame. legato, a stretto giro, con la situazione del territorio di sua competenza unitamente al bonum fidelium come dimostra l’estensione del disposto concernente non solo i suoi sudditi ma anche coloro che vivono attualmente[57] nel suo territorio.

La concessione di tale dispensa richiede l’intervento dell’Ordinario del luogo il quale dovrà, tuttavia, verificare, in concreto, la sussistenza dell’urgenza del pericolo di morte cosicché sembra utile, come già accennato, ricorrere a medici o professionisti di vario genere i quali, attraverso i loro consilia, coadiuvano l’autorità ecclesiastica nel concedere tale provvedimento

Come accennato, l’oggetto della dispensa è duplice ovvero da un lato la forma canonica e dall’altro gli impedimenti di diritto ecclesiastico pubblici od occulti. Per ciò che riguarda la forma canonica è evidente la ratio sottesa: la forma canonica infatti, prevede, in sintesi, l’assistenza del ministro sacro e la presenza di testimoni per cui, nel caso di urgenza, possono essere omesse entrambe manifestandosi così, a chiare note, un vero e proprio favor matrimonii di cui la legge canonica è testimone[58]. Sul secondo oggetto della dispensa esso concerne tutti gli impedimenti pubblici o occulti purché di diritto ecclesiastico: da sottolineare come il can. 1079 risulti essere piuttosto ampio rispetto al canone precedente rimanendo escluso solo quello relativo al sacro ordine del presbiterato e dell’episcopato[59].

Degna di nota è sicuramente la previsione del secondo comma in cui, con una fraseologia piuttosto articolata, il legislatore concede tale possibilità anche al parroco ovvero al ministro delegato ma solo se non sia stato possibile ricorrere all’Ordinario del luogo. Tale previsione, in altre parole, allarga il novero delle eccezioni rispetto al già ampio potere di dispensa di cui al can. 1078 estendendo ai soggetti sopracitati tale eventualità a condizione, il punto va chiarito, che il ministro sia sacro derogando, in questo senso, rispetto alla previsione normativa di cui al can. 1112. La norma si presenta piuttosto residuale soprattutto in relazione alla sua adozione poiché il quarto paragrafo ricorda come l’impossibilità del ricorso all’Ordinario sia data solo se ciò può essere fatto per telegrafo o per telefono. Scendendo nel dettaglio del disposto normativo bisogna sottolineare che, in forma speculare con quanto previsto nel primo §, il munus del ministro sacro si estende ai suoi sudditi ovunque dimoranti ma anche nei confronti di coloro che attualmente si trovano nel suo territorio trovando applicazione il disposto del can.91.

Circa il disposto del §4 è da evidenziare come la misura piuttosto restrittiva è da intendersi pro bono volendo, in questo senso, mantenersi il segreto ed evitare una possibile divulgazione dell’impedimento[60]. Va da sé che il presente disposto non è esente da rilievi problematici in particolare in relazione ai moderni mezzi di comunicazione sociale: si pensi, giusto per un esempio, all’invio di un messaggio da parte di un parroco al proprio Ordinario. In questo caso potrà applicarsi il disposto del can. 1079. §4? Non è questa la sede per approfondire un simile argomento ma ci limitiamo a sottolineare come, in tale eventualità, sia da preferire un approccio personale e diretto favorendo così il dialogo con l’autorità episcopale di riferimento[61].

Infine la previsione del §3 contempla, tra i soggetti capaci di dispensare, anche il confessore a condizione che l’impedimento sia occulto e che la sua efficacia riguardi il foro interno sia durante sia fuori la medesima confessione.  La norma va interpretata in senso limitativo poiché il caso da essa contemplato è singolare e concerne unicamente il pericolo di morte il quale, a differenza di quanto già analizzato in precedenza, non deve risultare urgente: questo dimostra, ad un più attento esame, che il munus del confessore è in realtà più ampio ma viene immediatamente ristretto poiché tale impedimento deve essere occulto a condizione che lo si intenda secondo quanto previsto dal già citato can. 1074[62]. Tale dispensa, per quanto concernente il foro interno, non produce i suoi effetti unitamente ad esso poiché – ed è questa una delle principali novità del disposto codiciale– essa può essere concessa anche al di fuori della confessione equiparandosi, in questa eventualità, allo stesso potere riferito all’Ordinario del luogo ovvero agli ministri purché tale impedimento sia, come suggerito, occulto. Ciò determina come il potere del confessore possa altresì riguardare dalla forma canonica sebbene il rilievo codiciale non lo preveda espressamente: in effetti il confessore può concedere questa dispensa non in quanto tale – essendo evidente che la forma attiene al foro esterno– ma come sacerdote presente alla celebrazione secondo il can.1116[63].

Definiti i contorni del complesso can.1079, occorre soffermarsi sul canone successivo che disciplina il cosiddetto “caso perplesso” che si verifica in presenza di tre circostanze:

a) tutto è oramai prossimo alle nozze essendosi adempiuti tutti i requisiti stabiliti dalla legge;

b) si viene a scoprire l’esistenza di un impedimento;

c) il differimento delle nozze per l’ottenimento della possibile dispensa, comporta un grave male.

Le tre circostanze poc’anzi elencate sono tassative e solo la loro concomitanza giustifica l’adozione del canone qui commentato[64]

Entrando nel dettaglio del canone, la prima espressione sulla quale concentrarsi è la seguente: “cum iam omnia sunt parata ad nuptias”. Questa espressione, mutuata dal can. 1045 del Codice del 1917, è stata oggetto di diversi commenti in dottrina tra coloro che sostenevano come essa fosse una condictio sine qua non ovvero se valesse un’interpretazione diversa che vede nell’espressione utilizzata una circostanza indicativa in cui si verifica una grave e fondata necessità di concedere la dispensa[65].

Più specificamente tale necessità va commisurata non solo alla persona del nubende ma anche alla sua condizione economico – sociale così da favorire una lettura più ampia ma allo stesso tempo ricordando come tale disposto debba essere sempre interpretato come eccezionale e non già ordinario.

L’altra condizione concerne la scoperta dell’impedimento: in assenza di una puntuale descrizione normativa si può ritenere come quest’ultima può avvenire o in forma diretta da parte dei soggetti competenti ma anche in forma indiretta ovvero in tutte quelle situazioni in cui l’Ordinario o il parroco non siano gli unici a conoscere la presenza dell’impedimento nel caso di specie.

Terza condizione concerne il differimento delle nozze a motivo che la concessione della dispensa richiede, di norma, un certo tempo. Occorre precisare tuttavia che tale previsione normativa può presentarsi oggi piuttosto poco praticabile dal momento che si può ipotizzare come tale richiesta possa essere inviata tramite email ed ottenere, in tempi piuttosto rapidi, il suo eventuale ottenimento. Nondimeno, a motivo della situazione qui descritta, si deve ritenere come sia opportuno deferire la richiesta brevi manu ottenendo, allo stesso modo, il decreto di concessione della dispensa.

Al di là delle fattispecie previste, il legislatore sottolinea che hanno facoltà di dispensare l’Ordinario del luogo e purché il caso sia occulto, tutti quelli di cui al canone precedente alle condizioni ivi elencate. Sui soggetti legittimati nulla quaestio poiché valgono le stesse motivazioni precedentemente esposte mentre qualche problema sorge in relazione alla corretta declinazione dell’espressione caso occulto.

In effetti il can. 1080 parla non già di impedimento occulto come nel can. 1074 ma di caso occulto con la conseguenza che le due figure non vanno confuse richiedendo un’interpretazione distinta. In particolare si ritengono giuridicamente vincolati le osservazioni di un Responso del 1927 in cui per i Consultores affinché un caso sia occulto non è necessario che gli impedimenti lo siano per loro natura ma solo de facto[66] per cui «un caso può essere occulto anche se l’impedimento è pubblico per sua natura. La ragione sta nel fatto che […] (il caso occulto) il criterio della pubblicità è la divulgatio e non la possibilitas probandi»[67].

Oggetto della dispensa sono tutti gli impedimenti previsti eccetto quelli riservati alla S. Apostolica mentre è da escludere dal novero degli elementi dispensabili la forma canonica[68].

Soggetti legittimati sono ovviamente l’Ordinario del luogo che può dispensare da tutti gli impedimenti pubblici od occulti con la sola limitazione prevista dal can. 1078 §1 n.1 così come gli altri ministri sacri purché però l’impedimento in esame sia occulto.

Particolare rilievo assume il secondo paragrafo del suddetto canone che riferisce di un caso del tutto singolare ovvero quella della convalida del matrimonio. Tale istituto, disciplinato dal Codice nei canoni 1156 e seguenti, fa riferimento alla rimozione della causa invalidante il matrimonio con la rinnovo da parte dei nubendi del consenso[69]: nel caso in esame si può ritenere che esso consista in un’applicazione estensiva del cosiddetto caso perplesso la cui radice principale è offerta dal primo § all’interno di una situazione di per sé giuridicamente efficace concernente, come detto, la convalida del matrimonio.

In assenza di un puntuale richiamo legislativo, la dottrina ritiene opportunamente che l’applicazione del secondo paragrafo sia da circoscrivere alla sola convalida semplice escludendo così la sanatio in radice che è, invece, riservata, in via ordinaria alla sola S. Apostolica potendo gli Ordinari ottenerla solo mediante apposito mandato speciale come ricorda il can.134 §3[70] .

Ovviamente, a titolo conclusivo, il raggio d’applicazione del can. 1080 §2 è da circoscrivere ai casi stabiliti in precedenza poiché i suoi effetti sono da circoscrivere alla presenza di un pericolo nell’attesa dell’ottenimento della dispensa e che manchi il tempo di ricorrere alla S. Apostolica o all’Ordinario del luogo.

Anche su questo punto valga una breve considerazione concernente più dettagliatamente il tempo del ricorso alle autorità competenti. Nulla infatti viene detto a proposito delle modalità con cui può essere esperito il suddetto ricorso soprattutto se confrontato, ancora una volta, con l’immediatezza e la semplicità che gli attuali mezzi informatici permettono di ottenere: anche in questa eventualità, di per sé non remota, si può sottolineare la necessità che l’intera procedura va compiuta secondo un criterio di tutela della persona e dell’istituto matrimoniale. Di conseguenza, qualora le condizioni prescritte dal canone di riferimento si verifichino, è necessario che l’autorità competente cerchi di contattare il proprio Ordinario e in misura eventuale la S. Apostolica per poter fissare un incontro vertente sulla questione al fine di ottenere, in tempi piuttosto rapidi, l’eventuale ottenimento della dispensa. Va da sé che nella richiesta di incontro bisognerà evitare, in ogni modo, la divulgazione del caso offrendo pochi ma comunque significativi dettagli sulla vicenda. Solo nel caso in cui le difficoltà siano talmente gravi e manifeste sarà possibile servirsi del canone suddetto: con ciò vogliamo confermare, in sintonia con la dottrina maggioritaria, il carattere di eccezionalità con il quale vanno interpretati i suddetti canoni così da evitare, come più volte sottolineato, letture estensive che non solo cozzano con la natura stessa degli impedimenti e dell’istituto della dispensa ma, in un’ultima analisi, ledono ai nubendi e allo stesso matrimonio.

4.2. Ulteriori disposizioni sulla dispensa (canoni 1081-1082)

A completamento delle disposizioni relative agli impedimenti in genere, i canoni 1081 e 1082 offrono alcuni dettagli interessati concernenti il modus applicandi della dispensa. Tali canoni possono essere definiti prettamente esplicativi poiché stabiliscono in concreto il che cosa fare nei casi precedentemente analizzati.

Incominciando dal can. 1081, è fatto obbligo al parroco o al sacerdote o al ministro di cui al can. 1079 par.2 di informare subito l’Ordinario del luogo della dispensa da essi concessa con l’obbligo ulteriore dell’annotazione sul registro dei matrimoni.

La disposizione va interpretata a stretto giro con quanto previsto dal can. 1079 risultando evidente la fondata preoccupazione che, dinnanzi ad una situazione così complessa, si producano conseguenze più gravi dai contorni incerti[71]. Per tali ragioni – da intendersi in forma ampia– si dispone l’immediata informativa da parte dei ministri sopracitati al proprio Ordinario in quanto garante dell’ordine pubblico del territorio di sua competenza.

Tale obbligo ha natura personale e non può essere adempiuto se non dai soggetti indicati nel canone 1079 escludendo, in ogni caso, qualsiasi esercizio di delega.

Interessante è l’inciso statim utilizzato dal legislatore a ragion veduta dal momento che si ritiene che l’adempimento di tale obbligo debba essere compiuto uno massimo due giorni dopo la concessione della dispensa in foro esterno e non già, come si intuisce, in foro interno.

Infine il can. 1082 concerne il caso di dispense ottenute in foro interno non sacramentale in presenza di un impedimento occulto. Soggetto attivo della norma è la Penitenzieria Apostolica che in tal caso concede la dispensa per un impedimento occulto ma solo di fatto e quindi passibili di un eventuale trasformazione in pubblici[72]. In questa eventualità il canone dispone che tale dispensa venga annotata in un particolare libro che deve conservarsi nell’archivio segreto della Curia[73]: tale annotazione permette altresì di evitare – nel caso in cui tale impedimento diventi pubblico– di dover ottenere un’altra dispensa bastando semplicemente rendere nota la suddetta annotazione.

Nulla viene detto a proposito dei casi particolari di cui al can. 1079 §3 e 1080. In assenza di puntuale normativa, si può ritenere che il confessore informi la Penitenzieria che può agire secondo il canone qui analizzato a condizione che il penitente non si opponga.

 

 

 

 

 

 


NOTE
[1] Cfr. can. 1036 CIC 17.
[2] Cfr. A.M. ABATE, Gli impedimenti matrimoniali nel nuovo Codice di Diritto canonico, in Apollinaris, 3 -4, 1987, 452 e ss.
[3] Cfr. F.J. URRITIA, Le norme generali, Parigi, 1994,  182.
[4] Così E. VITALI – S. BERLINGO’, Il matrimonio canonico, Torino, 2007, 28.
[5] Il discorso può essere così sintetizzato: sia una legge irritante sia una inabilitante producono la stessa conseguenza ovvero la nullità dell’atto ma, mentre nel primo caso ciò è provocato dall’atto stesso, nel secondo dipende dal soggetto che lo compie. Per maggiori approfondimenti
[6] Così G.P. MONTINI, Gli impedimenti dirimenti in genere (cann. 1073-1076), in P.A. BONNET – C. GULLO (a cura di), Diritto matrimoniale canonico, I,  Città del Vaticano, 2005, 353.
[7] Sia concesso il riferimento a G. RUGGIERO,  Gli impedimenti al matrimonio civile (prima parte): analisi degli articoli 84- 86 c.c, disponibile in http://www.salvisjuribus.it/gli-impedimenti-al-matrimonio-civile-prima-parte-analisi-degli-articoli-84-86-c-c/.
[8] Amplissima la letteratura in merito ma su tutti si ricorda. Cfr. F. CAPPELLO, Tractatus Canonico- Moralis, III, De matrimonio, Torino, 1923..90.
[9] Cfr. F.R. AZNAR GIL, El nuevo derecho matrimonial canonico, Salamanca, 1985,  187.
[10] Cfr. L. SABBARESE,  Il matrimonio canonico nell’ordine della natura e della grazia. Commento  al Codice di Diritto Canonico, Libro IV, Parte i, Titolo VII, Città del Vaticano, 2016,  189.
[11] Cfr. G. P. MONTINI, Gli impedimenti dirimenti, 355-356.
[12] Ibidem, 356.
[13] Ibidem, 357.
[14] Cfr. L. CHIAPPETTA,  Il Codice di Diritto Canonico: commento giuridico – pastorale, 2, Bologna, 2011,  302.
[15] Cfr. G. P. MONTINI, Gli impedimenti dirimenti, 358.
[16] Secondo parte della dottrina si distingueva anche tra impedimenti di grado maggiore e o minore a seconda  della maggiore o minore facilità circa la concessione della dispensa. Cfr. E. VITALI -S. BERLINGO’,  Il matrimonio canonico, 34.
[17] Ibidem, 35 – 36 dove gli autori offrono una panoramica piuttosto ampia circa l’estensione e la natura dei distinguo sugli impedimenti. Per una sintesi L. CHIAPPETTA, Il Codice di Diritto Canonico, 302-303.
[18] Si noti l’uso dell’avverbio  tantum.
[19] Cfr. L. SABBARESE, Il matrimonio canonico, 190-191.
[20]  Ibidem, 191.
[21] Cfr. F.M. CAPPELLO,  De matrimonio, 62.
[22] Cfr. Communicationes 9 (1977), 80.
[23] Cfr.  Communicationes 10 (1978), 126-
[24] Sulla consuetudine in ambito canonico. V. DE PAOLIS- A. D’AURIA, Le norme generali: commento al Codice di Diritto canonico, Città del Vaticano, 2015, 60 e ss.
[25] Cfr. G.P. MONTINI, Gli impedimenti dirimenti, 358.
[26] Cfr. L. SABBARESE,  Il matrimonio canonico, 192.
[27] Cfr. M.F. POMPEDDA, Studi di diritto matrimoniale canonico, II,  Roma, 1993, 332-333.
[28] Si potrebbe discutere a proposito del Vicario generale. Secondo l’opinione dello scrivente, per quanto il can. 1077 descriva la figura dell’ Ordinario del luogo, va comunque sempre inteso in forma restrittiva e di conseguenza si ritiene che il Vicario generale non possa provvedere all’apposizione del vetitum. Sulle altre figure citate, la risposta è pacifica. Cfr. P. SCOPONI,  I divieti matrimoniali nei casi singoli, Roma, 2011,  99.
[29] Cfr. A. GIRAUDO,  Il divieto alle nozze: tutela del diritto al matrimonio (canone 1077§1),  in Quaderni di Diritto ecclesiale, 18 (2005), 289-298.
[30] Ibidem, 290
[31]Ibidem, 291.
[32] Per un esame più dettagliato  cfr. P. SCOPONI,  I divieti matrimoniali, 101 e ss.
[33] Ibidem, 102.
[34] Cfr. A. GIRAUDO, Il divieto alle nozze, 293.
[35] Per una panoramica più specifica cfr.  P. SCOPONI,  I divieti matrimoniali, 102 e ss.
[36] Ibidem, 109.
[37] Ibidem, 110.
[38]  Ibidem, 111.
[39] Ibidem, 113. Sulla natura amministrativa si può discutere secondo l’interpretazione di  Lambaderia mentre la dottrina è unanime nel sottolineare la sua portata non penale.
[40]  Ibidem, 113.
[41] E’ quindi utile soffermarsi non su un semplice sospetto, quand’anche fondato, ma su approfondimento più dettagliato condotto anche da soggetti distinti dall’Ordinario a cui però, in ogni caso, è demandato il compito dell’emanazione del decreto.
[42] Cfr. A.  GIRAUDO, Il divieto alle nozze, 294.
[43] Ibidem, 294-296.
[44] O anche da parte dell’Ordinario del luogo in cui attualmente si trova il suddito. Cfr. Ibidem, 296.
[45] Non approfondiamo questo punto. Cfr. P. SCOPONI,  I divieti matrimoniali, 122 e ss.
[46] Sul concetto di dispensa cfr. per tutti P. MONETA, introduzione al Diritto canonico, Torino, 2016, 40 e ss.
[47] Cfr. L. SABBARESE, Il matrimonio, 104.
[48] Cfr. A. KOMONCHAK, La sussidiarietà nella Chiesa: stato della questione , in H. LEGRAND ED ALTRI (a cura di), Natura e futuro delle Conferenze Episcopali, Bologna,1988, 321-369.
[49] Si potrebbe discutere se, a motivo di quanto previsto dal can.87, non fosse meglio parlare di Vescovo complice altresì l’interpretazione restrittiva dei canoni di riferimento.
[50] Cfr. L. CHIAPPETTA,  Il Codice di Diritto canonico, 207.
[51] A tali impedimenti sarà dedicato, più avanti, un commento più articolato.
[52] Cfr. L. CHIAPPETTA,  Il Codice di Diritto canonico, 208.
[53] Così F.M. CAPPELLO, De matrimonio, 227.
[54] Ibidem, 228.
[55] Tutta la materia sacramentale, ad esempio, è costellata da disposizioni ad hoc concernenti possibili deroghe rispetto alla normativa generale pro bono fidelium.
[56] Cfr. L. SABBARESE,  Il matrimonio, 198.
[57] Ciò esclude pertanto il rimando alla residenza o al domicilio poiché è il solo essere commorantes a giustificare l’adozione di un simile provvedimento.
[58] Cfr. L. CHIAPPETTA,  Il Codice di Diritto canonico, 309.
[59] Pertanto possono essere dispensati anche l’impedimento derivate dall’ordine del diaconato o dal voto pubblico di castità di cui al can. 1088. Rimane ovviamente escluso l’impedimento di consanguineità così come occorre escludere dal novero degli impedimenti dispensabili quello relativo all’ episcopato nonostante, in dottrina, la questione risulti essere dibattuta.
[60] Cfr. L. SABBARESE, Il matrimonio, 199.
[61] Su alcune criticità cfr. L. CHIAPPETTA,  Il Codice di Diritto canonico, 309- 310.
[62] Si tratta di una questione complessa complice altresì il rimando al can. 1080 su cui torneremo più avanti.
[63] Così L. CHIAPPETTA,  Il Codice di Diritto canonico, 310.
[64] Sul punto la dottrina concorda cfr. L. SABBARESE, Il matrimonio, 200.
[65] Cfr. F. M. CAPPELLO,  De matrimonio, 232-234. Si veda altresì PONTIFICIA COMMISSIO AD CODICIS CANONES AUTHETICE INTERPRENTANDOS, Responsum an vi canonis 81, de dispensationibus matrimonialibus, 27 iulii 1942, in AAS 34 (1942), 241.
[66] Cfr. PONTIFICIA COMMISSIO AD CODICIS CANONES AUTHENTICE INTERPRETANDOS, Responsum. An verba de dispensationibus matrimonialibus , 28 decembris 1927, in AAS 20 (1928), 61.
[67] Così J.F. M. CASTAÑO, Gli impedimenti matrimoniali, in AA.VV, Il matrimonio canonico tra tradizione e rinnovamento, Roma, 1985,  400.
[68] Ibidem, 401.
[69] Non possiamo approfondire l’istituto della convalida del matrimonio. Cfr. L. SABBARESE,  Il matrimonio, 397 e ss.
[70] Ibidem,302. Cfr. L. CHIAPPETTA,  Il Codice di Diritto canonico, 202.
[71] Cfr. L. CHIAPPETTA,  Il Codice di Diritto canonico, 312.
[72] Cfr. L. SABBARESE, Il matrimonio, 203.
[73] Sul punto G. MARCHETTI, Gli archivi ecclesiastici diocesani e parrocchiali, in Quaderni del Diritto Ecclesiastico, 28 (2015) 65-87.

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Giancarlo Ruggiero

Nato a Ceccano (Fr) il 9 febbraio 1993, ho conseguito la laurea magistrale in Giurisprudenza il 21 aprile 2017 presso l'Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Il 17 giugno 2020 ho terminato gli studi presso la Pontificia Università Lateranense Summa cum Laude: attualmente sono dottorando in Diritto Canonico presso la Pontificia Università Gregoriana, studente dello Studio Rotale. Difensore del Vincolo ad acta presso il Tribunale diocesano di Frosinone

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