Gli strumenti di partecipazione popolare non impegnano l’amministrazione ad agire in autotutela

Gli strumenti di partecipazione popolare non impegnano l’amministrazione ad agire in autotutela

Nota a Cons. di Stato, sez. V, 23 marzo 2023, n. 2911

Sommario: 1. Premessa introduttiva – 2. Lo sfondo normativo su cui si muove la vicenda: gli strumenti di partecipazione popolare e l’intreccio con l’autotutela – 3. I fatti da cui ha origine la controversia – 4. Le doglianze sollevate dai ricorrenti davanti al TAR Liguria –  5. L’unico articolato motivo di diritto nel ricorso in appello contro la sentenza di primo grado – 6. La pronunzia del Consiglio di Stato: l’interessante motivazione fornita dai giudici di Palazzo Spada

 

1. Premessa introduttiva

La richiesta avanzata dai privati nei confronti della P.A. al fine di ottenerne un intervento in autotutela doverosa, deve giuridicamente qualificarsi quale semplice denuncia con funzione sollecitatoria, da cui non può derivare alcuna forma di silenzio inadempimento, impugnabile ritualmente ai sensi dell’art. 31 del Codice del processo amministrativo.

Sulla base di tali interessanti presupposti il Consiglio di Stato, sez. V, con sentenza del 22 marzo 2023 numero 2911 (Est. E. Quadri), si è pronunciato sull’assenza di un obbligo ex lege per l’Amministrazione di provvedere in autotutela rispetto agli istituti di partecipazione popolare democratica.

2. Lo sfondo normativo su cui si muove la vicenda: gli strumenti di partecipazione popolare e l’intreccio con l’autotutela

Ai fini della ricostruzione del caso di specie, nonché della comprensione successiva delle motivazioni utilizzate dai giudici di Palazzo Spada a seguito delle doglianze sollevate da parte appellante, risulta necessario ricostruire in breve lo sfondo normativo dal quale scaturiscono i fatti oggetto del contendere.

Le richieste sollevate dai consiglieri di minoranza, hanno ad oggetto gli strumenti della proposta e della petizione i quali, fanno parte di un particolare sistema di coinvolgimento della popolazione nel processo decisionale pubblico. Occorre ricordare sul punto che ogni Statuto comunale deve prevedere infatti procedure per l’ammissione di istanze, petizioni e proposte da parte dei cittadini in forma singola o associata volte a promuovere interventi per la migliore tutela degli interessi collettivi, prevedendo, inoltre, garanzie e modalità per il loro tempestivo esame.

Se la proposta rappresenta un’istanza alla quale si aggiunge un suggerimento sul contenuto del provvedimento da adottare, la petizione consiste in una richiesta diretta a porre all’attenzione del Consiglio o della Giunta Comunale questioni di interesse collettivo, sollecitando un intervento per la loro soluzione.  Ci si trova di fronte a un meccanismo di democrazia diretta che consente agli amministrati di interfacciarsi con le istituzioni locali al fine di rappresentare problematiche particolarmente sentite dalla collettività[1].

Ora, nell’ipotesi in cui tali strumenti di partecipazione democratica, come nella vicenda di cui si tratta, sono disciplinati all’interno di una fonte normativa quale è quella dello Statuto comunale e risultano quindi regolamentati da un particolare iter procedimentale per la loro istruzione e gestione, se ne ricava che gli stessi, devono trovare necessariamente istruzione e trattazione proprio da quell’organo dell’amministrazione cui sono indirizzati secondo il meccanismo di gestione procedimentale previsto, non potendo essere considerati come se non esistessero.

Ciò premesso, occorre dare atto del fatto che nel momento in cui la P.A. sia sollecitata da un privato al riesame di un atto non più impugnabile, il relativo obbligo di provvedere è lasciato a una scelta discrezionale della stessa. In sostanza non esiste (salvo ipotesi predeterminate dal sistema legislativo), un generalizzato obbligo di rivalutare un proprio provvedimento né tanto meno nell’ipotesi di eventuale presunto inadempimento, una legittimazione generale all’attivazione di meccanismi di tutela avverso inerzie o silenzi anti-giuridici.

3. I fatti da cui ha origine la controversia

Un’amministrazione comunale ligure, attraverso delibera del Consiglio Comunale, ha stabilito l’esternalizzazione del servizio idrico integrato, superando non senza difficoltà, il forte dissenso sollevato apertamente dalle opposizioni.

Alcuni consiglieri di minoranza, per tutta risposta, hanno ritenuto di utilizzare alcuni strumenti previsti nello Statuto Comunale per imporre al Consiglio di riaprire e ridiscutere nuovamente la questione e, eventualmente, giungere ad un nuovo provvedimento amministrativo (positivo o negativo che fosse).

Più precisamente ai sensi dell’art. 33 dello Statuto, dedicato alle cd. petizioni, è stato sollecitato l’intervento dell’Amministrazione Comunale al fine di “garantire la gestione pubblica e partecipata del servizio idrico integrato attraverso la continuità nell’affidamento del servizio o la reinternalizzazione delle funzioni”. In aggiunta ex art. 34 dello Statuto è stata proposta l’adozione di una nuova delibera del Consiglio attraverso la quale: “1) si revochi la delibera del Consiglio Comunale n. 26 del 29 giugno 2021; 2) venga costituita una commissione civica partecipata con rappresentanti dei cittadini; 3) insieme a questa, venga effettuata una valutazione su precisi parametri tecnici sull’efficienza del S.I.I. a mente dell’art. 147, comma 2 bis, lett. b, d.lgs. 152/2006”.

Il Comune, nonostante le sollecitazioni e le richieste rivolte dai consiglieri di minoranza, non ha però ritenuto di attivare alcun iter procedurale previsto dallo Statuto comunale per l’esame di entrambe le iniziative democratiche, limitandosi a inviare ad alcuni dei firmatari una semplice nota di risposta firmata dal Sindaco, peraltro priva di protocollo.

4. Le doglianze sollevate dai ricorrenti di fronte al TAR Liguria

I consiglieri di minoranza allora, hanno ritenuto di proporre ricorso ai sensi dell’art. 31, comma 1, del c.p.a. innanzi il T.AR. Liguria, chiedendo preliminarmente l’accertamento del silenzio inadempimento e contestualmente la condanna dell’Amministrazione comunale a percorrere il corretto iter procedimentale, affinchè fossero opportunamente adottati dal Comune i provvedimenti di competenza. E in caso contrario, la sostituzione dell’amministrazione inadempiente con contestuale nomina di un Commissario ad acta che provvedesse in luogo della stessa.

Il giudice amministrativo di primo grado dal canto suo con sentenza n. 408/2022, tuttavia, ha ritenuto manifestamente infondata la domanda dei consiglieri, respingendola.

5. L’unico articolato motivo di diritto nel ricorso in appello contro la sentenza di primo grado

Parte appellante ha impugnato la sentenza del Tribunale Amministrativo ligure, articolando un unico motivo di diritto, sostenendo  preliminarmente “l’erroneità della sentenza per mancata rilevazione della violazione e/o falsa applicazione degli artt. 33 e 34 dello Statuto Comunale del comune di Varese Ligure; violazione del principio di buon andamento e imparzialità dell’attività amministrativa, di cui all’art. 97 della Costituzione; violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione”.

Per gli appellanti, il dettagliato iter procedurale dettato per gli strumenti della petizione e della proposta, è stato integralmente disatteso, non potendo la lettera, peraltro neanche protocollata del Sindaco, essere qualificata quale vero e proprio provvedimento.

Più specificatamente, gli stessi portano all’attenzione del collegio giudicante il fatto che in senso contrario all’art. 33 dello Statuto Comunalela petizione non è stata assegnata da parte del Sindaco all’esame dell’organo competente entro trenta giorni, né inoltrata ai gruppi consiliari, e pertanto l’organo competente non si è potuto pronunciare nel termine previsto”. Ed ancora, in contrasto poi con l’art. 34 dello stesso Statuto rilevano come “il Sindaco non ha acquisito il parere dei Responsabili dei Servizi interessati, né del Segretario Comunale, né ha trasmesso l’atto all’organo competente e ai gruppi consiliari entro il termine di venti giorni previsto dalla disposizione di specie, e l’organo competente non ha adottato, nel successivo termine di trenta giorni dal – mai avvenuto – ricevimento alcun provvedimento”.

Secondo le doglianze di parte appellante infatti, la fondatezza di una pretesa doveva essere correttamente sottoposta all’attenzione e ad attenta valutazione esclusivamente di quell’organo che è competente ex lege a soddisfare la stessa, il quale, può alternativamente rigettare l’istanza espressamente o tacitamente. Parte appellante nel rimarcare le proprie ragioni, insiste nel sottolineare come un’iniziativa popolare, per la quale ogni Statuto comunale prevede specifici destinatari “non può essere sottratta all’esame di questi ultimi, in quanto, in questo modo, si configura inequivocabilmente il silenzio inadempimento dell’amministrazione, che sussiste non solo laddove essa non abbia provveduto espressamente, ma, ancor prima, laddove essa neppure abbia avviato l’iter procedimentale normativamente previsto”.

Secondo la prospettazione sollevata dagli appellanti, gli istituti giuridici della proposta e della petizione, nascono come atti aventi natura partecipativa e rappresentano entrambi importanti meccanismi di democrazia diretta, “che consentono ai cittadini di interloquire con le Istituzioni al fine di rappresentare, nell’auspicio di risolvere, problematiche particolarmente sentite dalla collettività”. Nel caso di specie il silenzio illegittimo serbato dal Comune, sarebbe evocativo di una grave e manifesta violazione del diritto costituzionale di difesa e di contestuale azione in giudizio dei sottoscrittori della proposta-petizione, i quali, in relazione alla richiesta legittima di attivarsi affinchè l’amministrazione facesse ulteriori controlli concernenti la procedura di conferimento della gestione del S.I.I al gestore unico “si sono visti negare qualsivoglia determinazione espressa dell’amministrazione, con ciò vedendosi impedita ogni possibilità di sottoporre la questione al competente giudice amministrativo. Per gli stessi, invero, sussistevano i presupposti di cui alla lettera b) dell’art. 147, comma 2-bis, lett. b), del d.lgs. n. 152 del 2006.”

L’amministrazione Comunale dal canto suo, nel presupposto della convinzione di aver agito legittimamente, facendo leva sul ragionamento argomentativo della sentenza di primo grado, ha ribadito che la lettera del Sindaco, (in ogni caso preceduta da un parere negativo del Segretario Comunale), esplicitava “l’insussistenza dei presupposti giuridici per poter accogliere nel merito la petizione presentata dai ricorrenti”,  e come tale, avrebbe potuto qualificarsi materialmente come atto conclusivo del procedimento. Aggiungono i legali del Comune che in ogni caso “non sussisterebbe un obbligo di provvedere in relazione ad istanze manifestamente infondate” essendosi sul punto già espresso l’Ente competente vale a dire l’Ente di governo (e non certo il Comune, che ha solo preso atto della decisione di altra Amministrazione).

6. La pronunzia del Consiglio di Stato: l’interessante motivazione fornita dai giudici di Palazzo Spada

Il Consesso amministrativo preliminarmente chiarisce che l’appello proposto dalle opposizioni, risulta infondato ma per motivi diversi da quelli espressi nella sentenza impugnata.

Ciò posto, i giudici amministrativi ritengono che la ratio che permea gli strumenti di partecipazione popolare quali la petizione e la proposta (inoltrate all’amministrazione con l’obbligo di provvedere ai sensi dell’articolo 33 e 34 dello Statuto comunale), debba ancorarsi e legarsi a doppio filo con i princìpi generali del procedimento amministrativo contenuti nella L. n. 241/990, non certo derogabili da una fonte subordinata quale è in particolare lo Statuto comunale. Fra questi, “è principio generale che l’autotutela non sia obbligatoria, salvo eccezioni espressamente previste dalla legge”. Nel caso di specie, l’oggetto dello strumento popolare non è tanto una proposta qualunque da parte dei cittadini “ma la revoca di una delibera già adottata, ossia l’adozione di un atto di autotutela”.

La pronuncia dei giudici amministrativi si rafforza nel momento in cui evidenzia che “non essendo l’autotutela doverosa, non può essere ravvisato un obbligo di provvedere in capo al Comune in ordine alla richiesta della stessa, né può considerarsi, dunque, formato alcun silenzio inadempimento”. Pertanto le istanze di autotutela come quelle trattate nel caso specifico, fuoriescono dal perimetro di applicazione degli istituti di partecipazione popolare e democratica previsti dallo Statuto comunale agli art. 33 e 34.

Secondo i giudici di Palazzo Spada, il giudizio contro il silenzio inadempimento, per come disegnato dal legislatore nell’articolo 31 c.p.a., deve prevedere alla base il fatto che l’amministrazione abbia violato l’obbligo di provvedere e cioè “il dovere di iniziare e concludere il procedimento nel termine fissato dalla legge: pertanto occorre accertare se tale dovere sussista”.

Ebbene i giudici amministrativi a supporto del proprio percorso argomentativo, sul punto, richiamano il pensiero espresso dalla giurisprudenza amministrativa del Consiglio di Stato secondo il quale “va escluso l’obbligo di provvedere nel caso in cui l’istanza del privato sia volta a sollecitare il riesame di un atto divenuto inoppugnabile, atteso che l’affermazione di un generalizzato obbligo, in capo all’amministrazione, di rivalutare un proprio provvedimento, anche quando rispetto ad esso siano decorsi i termini per proporre ricorso, sarebbe vulnerata l’esigenza di certezza e stabilità dei rapporti che hanno titolo in atti autoritativi, con elusione del regime di decadenza dei termini di impugnazione (Cons. Stato, sez. VI, 25 maggio 2020, n. 3277)”. Le coordinate interpretative fornite dai giudici amministrativi trovano ulteriore conferma in altra decisione dei giudici di Palazzo Spada (Cons. di Stato, V, 19 aprile 2018, n. 2380) il quale sul punto si sono così espressi: “Il potere di autotutela soggiace alla più ampia valutazione discrezionale dell’amministrazione competente e non si esercita in base ad un’istanza di parte, avviene al più portata meramente sollecitatoria e inidonea, come tale, ad imporre alcun obbligo giuridico di provvedere con la conseguente inutilizzabilità del rimedio processuale previsto avverso il silenzio inadempimento della P.A”.

Alla luce di quanto evidenziato, deve pertanto escludersi a monte la previsione di un obbligo generalizzato per la P.A. di attivarsi affinché la stessa provveda sulle istanze di autotutela. Conseguentemente non si può certo obbligare il Comune a provvedere sulla richiesta dei consiglieri né tanto meno, si può affermare che sia formata una situazione giuridica sussumibile al silenzio – inadempimento.

In tal senso il Collegio amministrativo, ricorda puntualmente come la revoca va inquadrata come strumento di autotutela decisoria finalizzato alla rimozione di un provvedimento con efficacia ex nunc, in seguito a una nuova valutazione dell’interesse pubblico alla sua conservazione. In tal senso “i presupposti del valido esercizio delle ius poenitendi sono definiti dall’articolo 21 quinques, l. 241/1990 n. 241, e consistono nella sopravvenienza di motivi di interesse pubblico , nel mutamento della situazione di fatto e in una rinnovata valutazione dell’interesse pubblico originario”. Il potere di revoca adottabile da ogni amministrazione, è dunque permeato dalla massima discrezionalità dal momento che, a differenza del potere di annullamento (che prevede necessariamente l’illegittimità dell’atto da rimuovere), richiede per volontà legislativa solo una semplice valutazione di opportunità seppur legata a presupposti legittimanti che trovano fondamento nella norma indicata, “sicché il valido esercizio dello stesso resta comunque rimesso a un apprezzamento ampiamente discrezionale dell’amministrazione procedente, rispetto al quale l’istanza del privato assume solo valenza sollecitatoria”.

Sulla base di tali presupposti per il Consesso amministrativo, la richiesta avanzata dai privati finalizzata all’ottenimento di un intervento di autotutela da parte dell’amministrazione comunale, può al massimo essere intesa solo come una “mera denuncia dalla funzione sollecitatoria che non fa sorgere in capo all’amministrazione alcun obbligo di provvedere” (Cons Stato, sez. VI, 15 maggio 2012, n. 2774). Ciò che dunque deve concretamente verificarsi affinché la P.A. possa giustificare ex lege l’attivazione dell’autotutela, è una situazione giuridicamente valida. In vero, secondo la giurisprudenza amministrativa (ed in particolare Cons. Stato, sez. IV, 16 settembre 2008, n. 4362)i provvedimenti di autotutela sono manifestazioni dell’esercizio di un potere tipicamente discrezionale dell’amministrazione che non ha alcun obbligo di attivarlo e qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un interesse che giustifichi la rimozione dell’atto, valutazione della quale essa sola è titolare”.

Alla luce delle motivazioni espresse nella decisione in commento, il Consiglio di Stato ha respinto l’appello, confermando la sentenza di primo grado impugnata, ma con diversa motivazione.

 

 

 

 

 


[1] La partecipazione “dal basso” della collettività locale alle iniziative intraprese dall’ente amministrante, ricalca per grandi linee l’istituto del dibattito pubblico allocato dal recente D. Lgs. n. 36/2023 (e cioè il Nuovo Codice Appalti) all’articolo 40. Adottato in Francia oltre vent’anni fa, esso era già presente nel precedente D. Lgs. n. 163/2006. Giuridicamente si tratta di un processo di informazione, partecipazione e confronto pubblico su opere di interesse nazionale e si svolge nella fase iniziale di progettazione, quando le alternative sono ancora aperte e la decisione, se e come realizzare l’opera, deve essere ancora presa. Il dibattito pubblico rappresenta lo strumento individuato dal legislatore per anticipare i possibili conflitti che spesso accompagnano la realizzazione delle grandi opere, prevedendo una metodologia strutturata di confronto con le comunità locali da realizzarsi in tempi certi.

Istituti di partecipazione popolare, autotutela amministrativa e obbligo di provvedere | Scuderi Motta e Avvocati

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