I rapporti tra diritto e scienza nella definizione di infermità mentale. Il vizio di mente e l’esclusione dell’imputabilità

I rapporti tra diritto e scienza nella definizione di infermità mentale. Il vizio di mente e l’esclusione dell’imputabilità

Gli elementi dell’imputabilità e della colpevolezza nell’ambito del diritto penale incontrano delle significative ripercussioni nella scienza e in particolare nella psichiatria, per quel che concerne la tematica del vizio di mente, che rappresenta una significativa deroga al principio di imputabilità, con conseguente esclusione dell’applicazione di una pena.

Nell’ottica appena prospettata, è bene sottolineare che, secondo parte della dottrina, il requisito dell’imputabilità costituisce un presupposto, e non un elemento costitutivo, del fatto di reato, anche se non mancano voci discordanti, che considerano l’imputabilità un requisito strutturale di una fattispecie delittuosa.

L’ art.88 c.p. prevede che ” non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e volere”. L’articolo in questione pone in relazione l’assenza di imputabilità con la sussistenza in origine di una situazione patologica che compromette la capacità di intendere e volere. Infatti si parla di infermità, intesa come malattia psichica, che nel corso degli anni è stata definita in modi differenti.

Per comprenderne il valore, bisogna innanzitutto capire se l’infermità mentale sia da associarsi esclusivamente alla malattia mentale propriamente detta, ovvero bisogna attribuirle un significato più ampio, fino a ricomprendervi anche i disturbi della personalità e le molteplici psicopatie, così come bisogna comprendere se nel concetto di malattia possa farsi rientrare anche quella di malattia fisica.

Alla luce delle precedenti considerazioni, l’analisi degli articoli 88 e 89 c.p. permette di risolvere tutta una serie di questioni attinenti al rapporto tra infermità e malattia mentale e all’origine del vizio di mente, che si ritrova nell’infermità mentale e che riguarda sia il vizio di mente totale sia il vizio di mente parziale, che vede scemare grandemente la capacità di intendere e volere, come disciplinato dall’art. 89  c.p..

L’ art. 85 c.p. prevede che ” Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intendere  e volere“. Dunque la capacità di intendere e volere deve sussistere al momento della commissione del fatto; da qui è opportuno sottolineare il significato di tale capacità: la capacità di intendere è la capacità di comprendere il significato sociale e le conseguenze dei propri atti, mentre la capacità di volere è la capacità di autodeterminarsi liberamente, e di valutare a priori il rapporto sussistente tra l’azione che si intende realizzare e le conseguenze che si ripercuotono nel mondo esterno.

Il vizio di mente incide in senso negativo sull’esplicazione della capacità di intendere  e volere, perché ne compromette la funzionalità, totalmente o parzialmente, e incide anche sull’imputabilità. Dunque capacità di intendere e volere e imputabilità sono concetti strettamente connessi, in quanto la seconda sussiste solo in presenza delle prime.

L’imputabilità, nell’ambito del diritto penale, è la capacità di agire, l’idoneità a rispondere penalmente per un fatto commesso, senza interferenze di alcun tipo, che ne compromettano la libertà di espressione, come invece accade in presenza del vizio di mente, che altera il normale funzionamento della capacità di intendere e volere. La sussistenza di un vizio di mente, totale o parziale, evita al soggetto agente di subire l’applicazione di  una pena, ma è necessario procedere al suo accertamento, attraverso una perizia psichiatrica. Qualora la perizia abbia esito positivo, per il soggetto agente viene meno la previsione dell’applicazione di un regime punitivo, tuttavia sussistono le conseguenze sociali del comportamento, nel senso che il soggetto può essere sottoposto, se ritenuto pericoloso, a una misura di sicurezza come la libertà vigilata, ovvero può essere condotto in un ospedale psichiatrico giudiziario. Come già evidenziato, il vizio di mente può essere totale o parziale: la differenza tra queste due tipologie di vizio risiede nel diverso apporto quantitativo e nel grado che interessa il disturbo psichico, per cui in termini qualitativi non sussistono differenze.

Il disturbo psichico, nel corso degli anni, è stato analizzato sotto diversi punti di vista, e ha incontrato differenti definizioni a seconda dell’approccio seguito. Infatti, è possibile inquadrare tre tipologie di approcci all’analisi del disturbo psichico: medico, giuridico e integrato.

Secondo l’approccio medico, l’infermità mentale è associata esclusivamente a malattie mentali, con l’esclusione di tutte le anomalie psichiche e i disturbi della personalità. Dunque l’approccio medico rispetta in toto il principio della certezza del diritto, dal momento che fonda l’accertamento dell’infermità mentale su parametri certi e oggettivi. L’esclusione delle nevrosi, delle psicopatie e dei disturbi della personalità è giustificata dalla visione che ne ha la scienza medica, in quanto li considera come alterazioni caratteriali, dunque privi di rilevanza giuridica, al pari degli stati emotivi e passionali.

Un secondo approccio è quello giuridico, in voga agli inizi del 1900. Secondo questo approccio, ciò che rileva non è tanto il substrato organico o biologico, ma l’incidenza della capacità di intendere e volere. Dunque il giurista vuole sapere se il soggetto imputato, al momento del fatto, sia capace di comprendere il significato della sua condotta, e di agire di conseguenza. L’approccio giuridico risente del pensiero freudiano, della concezione psicologica di infermità mentale, secondo cui i disturbi psichici sono aspetti disarmonici dell’apparato psichico.

L’approccio integrato, invece, di recente formulazione, ha una visione più larga dell’infermità psichica, nel senso che non la riduce alla sola malattia mentale, ma ritiene che sia il risultato di una serie di fattori casuali, che possono avere natura biologica, psicologica e sociale. Dunque il vizio di mente può derivare sia da malattie mentali sia da malattie fisiche, e possono essere contemplate anche le varie anomalie psichiche, come le psicopatie, le nevrosi e i disturbi della personalità, che non hanno base organica.

Il concetto di malattia come base per la sussistenza del vizio di mente ricomprende non solo le ipotesi precedentemente esaminate, ma anche l’ipotesi di intossicazione cronica dovuta all’assunzione di sostanze psicotrope e alcol. Infatti l’ art. 88 c.p. nel disciplinare il vizio di mente parla di infermità e più propriamente di malattia, che esclude la punibilità e l’applicazione della pena, e tiene conto di ogni situazione in cui sussiste una malattia cronica, quando le alterazioni psicologiche sono permanenti. In caso di assunzione di droghe e alcol il vizio di mente sussiste solo quando si accerta un uso prolungato nel tempo, non rilevando l’assunzione contestuale delle sostanze (Cassazione penale, sez. IV, n. 13721/2022). L’intossicazione da alcol e da sostanze stupefacenti può influire sulla capacità di intendere e volere soltanto qualora, per l’impossibilità di guarigione, provochi alterazioni psicologiche permanenti configurabili come malattia vera e propria, per cui si escludono dal vizio di mente di cui agli artt. 88 e 89 c.p. le anomalie che non conseguono ad uno stato patologico.


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Emanuela Fico

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