Il confine tra danno da ritardo e da mero ritardo

Il confine tra danno da ritardo e da mero ritardo

La l. 241/90 sul procedimento amministrativo ha senza dubbio inaugurato una nuova stagione dei rapporti tra Pubblica Amministrazione e cittadini in un’ottica di sempre maggiore trasparenza dell’agire degli enti pubblici, chiamati ad esercitare il loro potere autoritativo nel rispetto non solo dei principi generali di adeguatezza, proporzionalità, correttezza e giustizia sostanziale, ma anche delle situazioni giuridiche sostanziali dei singoli.

La storica sentenza delle SS. UU. n. 500/99 ha, per un verso, sancito in modo definitivo la risarcibilità del danno ingiusto da lesione dolosa o colposa dell’interesse legittimo sia oppositivo sia pretensivo e, per l’altro, ha ascritto tale responsabilità della P.A. alla violazione del principio del naeminem laedere ex art. 2043 c.c., stabilendone così la natura aquiliana.

Se a fronte della lesione di un interesse oppositivo, ossia alla conservazione di un bene della vita già acquisito, sussiste un mero danno da disturbo alla sfera giuridico – patrimoniale del privato, si configura, invece, un danno da ritardo, se l’agere della P.A. ha inciso su un interesse pretensivo o all’acquisizione ex novo di una certa utilità sostanziale.

A tal proposito, l’omessa o tardiva emanazione del provvedimento che conclude il procedimento amministrativo, a mente dell’art. 2-bis, co. 1 l. 241/90, obbliga al risarcimento del danno conseguente all’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento stesso.

Si é al cospetto di un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale che presuppone – oltre l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, il fatto, il danno e il nesso di causalità – l’ingiustizia di tale danno, ragion per cui, ai fini dell’accoglimento della pretesa risarcitoria, non si può prescindere da un giudizio prognostico circa l’effettiva spettanza al ricorrente del bene della vita cui egli anela.

Nettamente distinta é la fattispecie descritta dal comma 1-bis che dà diritto al privato istante a ricevere un indennizzo, dovuto per il fatto oggettivo del mero ritardo, quindi per la mancata conclusione dell’iter procedimentale nei termini di legge, indipendentemente dall’elemento soggettivo e dal giudizio prognostico di cui sopra.

Tale indennizzo, peraltro, deve essere detratto dal risarcimento alla luce del principio della compensatio  lucri  cum damno,  avendo  le  due  poste  economiche  uguale  causa  ed espletando la medesima funzione che é quella risarcitoria e, segnatamente, compensativa.

Invero, vi é un terzo scenario, non meno importante, che merita di essere analizzato, tenendo conto dell’obiter dictum contenuto nella sentenza del Cons. St., A.P., 4 maggio 2018, n. 5 e del più recente pronunciamento delle SS. UU. del 28 aprile 2020, n. 8236 sulla risarcibilità del danno da mero ritardo.

La norma di riferimento per comprendere la portata di queste statuizioni é l’art. 1173 c.c. che tripartisce le fonti delle obbligazioni in contratti, illeciti aquiliani e varie causarum figurae.

Queste ultime costituiscono una categoria residuale di atti e fatti che, pur non essendo contratti né illeciti extracontrattuali, sono comunque idonei a produrre obbligazioni in conformità all’ordinamento giuridico.

Vi si possono annoverare il pagamento di indebito, le promesse unilaterali, l’arricchimento senza causa e, in particolare, il contatto sociale qualificato che attiene alla fase delle trattative le quali precedono la stipula del contratto negli affari più complessi.

Perciò, un’eventuale violazione del principio di buona fede determinerebbe una responsabilità giustappunto precontrattuale ex art. 1337 c.c.

Tale responsabilità discende dalla violazione di regole di comportamento che sostanziano la buona fede oggettiva quale obbligo di lealtà e correttezza che, nella fase di formazione del contratto stesso, vieta di suscitare intenzionalmente falsi affidamenti nella controparte, di speculare su di essi, nonché soprattutto di ledere affidamenti ragionevoli ed incolpevoli.

Non si é mai dubitato che la P.A. potesse violare l’art. 1337 c.c. quando agisce iure privatorum, perseguendo scopi pubblicistici, ma in osservanza delle norme di diritto comune, ponendosi sullo stesso piano degli amministrati.

Viceversa, solo in tempi recenti la giurisprudenza ha ammesso che la P.A., quando agisce iure imperii o autoritativamente, possa incorrere da una parte nella responsabilità aquiliana o da provvedimento illegittimo e, dall’altra, in quella precontrattuale o da comportamento violativo della buona fede pubblicistica.

Quest’ultima ha una portata decisamente più ampia della correttezza richiesta a dei privati e, difatti, si basa sul combinato disposto degli artt. 2 e 97, co. 2 Cost. aventi ad oggetto l’uno il principio di solidarietà e l’altro quelli di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa.

Alla luce delle predette considerazioni, avviato un procedimento amministrativo si instaura tra l’Amministrazione procedente ed il soggetto istante un contatto sociale qualificato che pone a carico della prima obblighi di buona fede come pure di informazione e di protezione, disattesi i quali il privato ha diritto al risarcimento del danno da lesione del legittimo affidamento, dunque della fiducia che egli riponeva nella correttezza dell’azione amministrativa, posto che sussistano anche gli altri presupposti del dolo o della colpa e del nesso di causalità tra il fatto e il danno.

L’affidamento del privato, allora, può venire leso non solo nei casi di caducazione d’ufficio di un provvedimento favorevole al destinatario ma illegittimo ovvero di atti di gara a tutela dell’interesse pubblico, ma anche qualora vi sia una mera condotta ondivaga che induce il privato a compiere talune scelte negoziali pregiudizievoli che non sarebbero mai state compiute, se solo la P.A. avesse agito tempestivamente e in ossequio al principio di buona fede.

Pertanto, non può non radicarsi la giurisdizione in capo al Giudice Ordinario inteso quale giudice naturale dei diritti soggettivi lesi che, nel caso di specie, sono il diritto all’autodeterminazione negoziale al riparo da illecite interferenze esterne e il diritto all’integrità patrimoniale ex art. 2043 c.c.

Da ultimo, alla luce della sentenza della C. Cost. n. 204/2004 e dell’art. 7 c.p.a., è escluso che la controversia in oggetto sia attribuibile al Giudice Amministrativo, atteso che non deriva da atti, accordi o provvedimenti, ma da un mero comportamento materiale, neppure indirettamente riconducibile all’esercizio del potere autoritativo, pubblicistico, funzionale e procedimentalizzato della Pubblica Amministrazione.


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Jacopo Bracciale

Dopo aver conseguito la maturità classica con una votazione finale di 100/100, mi sono laureato cum laude in Giurisprudenza presso l'Università degli studi di Teramo con una tesi in Teoria generale del diritto dal titolo "Il problema dei principi generali del diritto nella filosofia giuridica italiana". In seguito, ho svolto con esito positivo presso il Tribunale di Teramo il tirocinio formativo teorico - pratico di 18 mesi ex art. 73 D.L. 69/2013 : per un anno nella Sezione Penale e, nei restanti sei mesi, in quella Civile. Parallelamente ho frequentato e, ancora oggi, frequento il corso di Rocco Galli per la preparazione al concorso in magistratura. Dal mese di novembre del 2020 collaboro con la rivista scientifica Salvis Juribus come autore di articoli di diritto civile, penale ed amministrativo.

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