Il confine tra reati di opinione e libertà di espressione

Il confine tra reati di opinione e libertà di espressione

Sommario: 1. Introduzione – 2. Struttura dei reati di opinione – 3. Apologia e istigazione a delinquere nell’art. 414 c.p. – 4. I reati di opinione nell’attività ermeneutica – 5. Conclusione

 

1. Introduzione

Fissare i limiti alla trasgressione ideologica e trovare il punto di equilibrio fra la libertà di espressione e altri valori collidenti costituzionalmente protetti, costituisce ardua impresa. L’incertezza sulla reale portata della libertà di espressione e sulla definizione dei reati d’opinione riscopre un’antica ambiguità di fondo, insita nella società democratica, che legittima questa libertà come condizione essenziale di sopravvivenza della società e al contempo, come potenziale pericolo per la stabilità dei valori su cui si fonda. Si assiste, quindi, all’affermazione di una legislazione penale di controllo e repressione del pensiero[1] dal perimetro d’azione incerto, che si dilata o restringe in base ai criteri adottati nel caso concreto.  La persistenza nel nostro ordinamento di una tale categoria di reati, tanto ampia quanto indefinita, desta non poche perplessità in ordine alla carica di offensività di un reato che incrimina la manifestazione, l’espressione di un’idea, un contenuto di pensiero non meramente narrativo o informativo, ma critico, valutativo in relazione ad un certo oggetto[2], veicolato attraverso qualsiasi mezzo, anche non verbale.

La criminalizzazione di tali condotte si misura non solo in relazione alla libertà di parola, ma anche alla possibilità che queste fungano da attività preparatoria di reati.

2. Struttura dei reati di opinione

I reati di opinione si configurano come delitti contro la personalità dello Stato e si estrinsecano in una condotta di manifestazione di un’opinione non rispettosa dei parametri costituzionali previsti in tema di libertà di pensiero, con la quale spesso entra in conflitto. Questi reati costituiscono retaggio di un periodo storico di strumentalizzazione e repressione della manifestazione del pensiero e sono espressione di una concezione sociale e politica da tempo superata, incompatibile con il nuovo assetto di valori delineato dalla Costituzione.

I reati d’opinione presentano molteplici criticità che coinvolgono aspetti differenti. Nello specifico, sono stati sollevati dubbi circa la reale capacità offensiva delle condotte incriminate e l’individuazione dei beni giuridici che mirano a tutelare. Perplessità sorgono in relazione all’indeterminatezza della formulazione, la sproporzione delle sanzioni, l’incerta compatibilità con i principi di offensività e materialità.

Procedendo con ordine, uno dei punti più controversi riguarda la definizione di reato di opinione. Secondo una prima impostazione, se rientrasse nella condotta un qualsiasi atto di pensiero, si punirebbe chiunque ha una precisa idea a proposito di un argomento. Una definizione così accolta sarebbe del tutto priva di rilievo, per contrasto con il principio di materialità cui si ispira il nostro sistema penale, che non vieta puri atti di pensiero. Se si adottassero criteri troppo stringenti basato sull’uno o sull’altro criterio, si finirebbero per escludere determinati reati. Ad esempio, si potrebbero incriminare tutti i reati che consistono in un dicere[3], ma solo alcuni reati di opinione si configurano attraverso la parola; si potrebbe adottare la teoria della contrapposizione tra pensiero dinamico e statico, che riconduce solo quest’ultimo – non volto a sollecitare adesioni nei destinatari – nella garanzia costituzionale. Ne deriverebbe così l’esclusione di istigazione, apologia e propaganda.

La soluzione migliore che si possa prospettare è una definizione ampia, comprensiva di tutte le fattispecie che si sostanziano nella manifestazione di un pensiero, comprendendo, pertanto, i reati di opinione politici, inclusi nel codice penale (delitti di apologia, istigazione, vilipendio e propaganda) e tutti quelli caratterizzati da un punto di frizione con l’art. 21 riconoscendone i profili differenti che coinvolgono i limiti di legittimazione della tutela penale[4].

Incerto è il bene tutelato dall’ordinamento penale che i reati di opinione danneggerebbero. Secondo una prima ipotesi, ormai superata, era individuato in un’idea, un sentimento, un valore morale o spirituale sovra-individuale, una sensibilità collettiva. È chiaro che la portata offensiva si rivela inconsistente e insufficiente se l’offesa è diretta a beni intangibili come il prestigio dello Stato, delle istituzioni, il rispetto della legge penale, che non possono subire un pregiudizio dall’espressione di un’opinione, per la oggettiva impossibilità di recare un pregiudizio concreto a ciò che per natura è impalpabile. Finora la scelta più frequente è stata quella di ancorare l’incriminazione all’offesa dell’ordine pubblico, inteso nell’accezione materiale come mantenimento delle condizioni della pacifica e sicura convivenza.

Ciononostante, commettere reati attraverso la veicolazione dei messaggi, opinioni, idee punibili in virtù di meri effetti psicologici pone seri problemi in relazione all’accertabilità nella pratica di un comportamento materiale, sensibilmente percettibile.

Al fine di recuperare la compatibilità con i principi di materialità e offensività, dopo un’intensa attività ermeneutica si è giunti a collocarli tra le forme di anticipazione della tutela penale, in particolar modo tra i reati di pericolo. La struttura di reati di pericolo è concepita nella prospettiva di tutela del bene dal pericolo di nocumento, astratto o concreto che sia. Pur essendo strutturati come reati di pericolo astratto, la Corte costituzionale li ha reinterpretati nell’ottica di reati di pericolo concreto in cui giudice valuta di volta in volta, in base a un giudizio ex ante, la concreta pericolosità della condotta incriminata verso il bene giuridico tutelato, cioè la concreta idoneità della condotta descritta della manifestazione di un’opinione a ledere il bene giuridico previamente individuato.

3. Apologia e istigazione a delinquere nell’art. 414 c.p.

I reati politici di opinione che destano maggiori perplessità sono l’apologia e l’istigazione a delinquere, entrambi disciplinati dall’art. 414 c.p.

L’apologia di reato non è la mera manifestazione pubblica di un’opinione di critica positiva di un reato o l’apprezzamento nei confronti del suo autore. È necessario infatti che l’esaltazione pubblica sia idonea a provocare la concreta possibilità di commissione di reati in un futuro più o meno prossimo da parte dei destinatari dell’apologia. L’idoneità così intesa è sufficiente a determinare la sanzionabilità dell’autore dell’apologia. Non è rilevante l’effettiva e successiva commissione del crimine, essendo l’apologia un reato di mera condotta. L’elemento psicologico che richiede è il dolo generico, cioè la cosciente volontà di commettere un reato senza un fine specifico.

Un altro elemento costitutivo importante è la pubblicità, non essendo configurabile il delitto di apologia allorché l’esaltazione rimanga privata. Rileva, infatti, a questo proposito la capacità di provocare il rischio di adesione al modello criminoso proposto da parte di destinatari.

L’istigazione a delinquere si estrinseca nella duplice modalità della “determinazione” e della “istigazione”: nel primo caso, rileva la condotta di chi fa nascere nel destinatario un intento criminoso prima inesistente; la seconda si risolve nel comportamento di chi rafforza l’altrui volontà di delinquere preesistente. Il reato si configura indipendentemente dall’accoglimento dell’istigazione da parte del soggetto passivo, essendo un reato di mera condotta a dolo generico.

4. I reati di opinione nell’attività ermeneutica

L’apologia e l’istigazione a delinquere determinano l’arretramento della tutela penale ad uno stadio incluso tra la mera espressione di un’idea e la sua esecuzione materiale, nel tentativo di impedire la commissione di un reato. Il rischio di spingere la punibilità fino all’area protetta della mera incubazione di un pensiero, privo di conseguenze pratiche, è elevato. In questa prospettiva la sopravvivenza dei reati di opinione è subordinata alla compatibilità con i principi democratici e costituzionali del nostro ordinamento, in particolare la libertà di espressione. L’art. 21 contempla un diritto fondamentale, comprimibile solo all’esito di un giudizio di bilanciamento con altrettanti diritti fondamentali. Il contemperamento suscita molte criticità e intacca il profilo dei confini penali della punibilità del dissenso, che non può spingersi a sanzionare meri pensieri, opinioni arbitrariamente senza individuare previamente criteri da adottare nel giudizio. È proprio l’individuazione di tali criteri che ha caratterizzato l’attività ermeneutica degli ultimi anni al fine di individuarne le caratteristiche e tracciare una linea di demarcazione, non essendo possibile fornire una definizione di “apologia” valida ed efficace, una volta per tutte[5].

Nella sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 18 novembre 1958 si afferma che l’apologia non è assimilabile a una forma di istigazione indiretta, dato che l’istigazione è finalizzata a suscitare nel destinatario uno specifico comportamento, mentre l’apologia uno specifico pensiero. L’apologia mirerebbe solo a influenzare la mente del destinatario, non le sue azioni, fermo restando l’eventuale consumazione del reato propugnato dall’apologeta, che non rientra tra gli elementi costitutivi. Secondo quest’orientamento, per aversi apologia «non occorre né la rievocazione esaltatrice di un fatto né la sua glorificazione – essendo sufficiente – per contro, la formulazione di un giudizio favorevole che implichi l’approvazione convinta dell’episodio verificatosi e, per conseguenza, l’adesione spirituale ad esso da parte del dichiarante, che lo considera come proprio»[6].

Sentenza cardine della giurisprudenza in materia di reati d’opinione è la n. 65 del 1970 della Corte costituzionale in cui viene sollevata la questione di costituzionalità dell’art. 414, rigettata sulla base della considerazione che «L’apologia punibile ai sensi dell’art. 414, ultimo comma, del Codice penale non è, dunque, la manifestazione di pensiero pura e semplice, ma quella che per le sue modalità integri comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti».

I reati d’opinione recuperano così il coefficiente di pericolosità concreta per evitare eccessive compressioni dell’art. 21[7].

Configurando l’apologia come istigazione a delinquere indiretta, la Corte ha provocato una confusione tra le due fattispecie, rendendone estremamente difficile la distinzione normativa nei casi concreti.  La Corte costituzionale ha poi acclarato che, per la punibilità dell’apologia, occorre che questa, per le modalità con cui viene realizzata, integri un comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti, trascendendo la pura e semplice manifestazione del pensiero[8]. Infatti, se la condotta si risolve nella semplice celebrazione di un fatto di reato, incapace di stimolare nei destinatari un proposito criminoso, non può essere sanzionata; al contrario, se l’apologia è tale da influenzare la formazione della volontà altrui fino alla commissione del delitto esaltato, allora si integrano gli estremi del reato. L’idoneità della condotta a comportare il pericolo di commissione di reati, quindi, è sufficiente per la punibilità dell’autore dell’apologia, a prescindere dal concreto accertamento della situazione lesiva.

Il reato si perfeziona nel momento stesso in cui si verifica “pubblicamente” l’esaltazione del delitto che, con la sua forza suggestiva e persuasiva, solleva il pericolo presunto che i destinatari possano dare attuazione a quel proposito, anche se non dovesse mai verificarsi concretamente.

L’istigazione a delinquere, invece, si configura come un’attività di sollecitazione, di stimolo, di persuasione, al fine di incitare i destinatari a una risoluzione criminosa prima inesistente, oppure a rafforzarne una preesistente[9]. Rispetto all’apologia, è sicuramente caratterizzata «da una più diretta e immediata attitudine a influenzare l’altrui volontà, al fine di sollecitare una specifica risposta comportamentale»[10]. La formula “pubblicamente”, indicata dalla norma, va intesa nel senso che l’istigazione deve avvenire in un luogo pubblico o aperto al pubblico e rivolgersi a una pluralità indeterminata di persone, soddisfatta anche dalla presenza di sole due persone[11]. Il requisito della pubblicità è da considerarsi come elemento costitutivo della fattispecie[12] dell’istigazione, vincolata a estrinsecarsi attraverso questa modalità, che ne connota l’offensività. Infine, l’interprete deve verificare che la condotta incriminata sia assistita dal cd. dolo generico di tipo “istigatorio”, che consiste nella coscienza e volontà di turbare l’ordine pubblico e di suscitare con la propria condotta il pericolo concreto e attuale di adesione al programma illecito[13]. La valutazione del pericolo concreto va svolta valutando l’idoneità della condotta a provocare l’esecuzione dei reati istigati, sulla base di un giudizio prognostico, ex ante ed in concreto[14], sulla base di vari fattori come il contesto in cui la condotta si estrinseca, la sensibilità dei destinatari alla sollecitazione ricevuta, la capacità critica del cittadino medio[15], l’intervallo di tempo intercorrente tra la condotta e la commissione del reato, gli elementi oggettivi e il dolo generico.

La novella del Codice penale n. 85 del 2006 interviene sui reati di opinione modificando la comminatoria edittale e abrogando fattispecie obsolete, ma non risolve il problema della compatibilità con i principi di materialità e offensività. Da sottolineare l’introduzione dell’aggravante speciale ad effetto speciale di cui all’art. 15 comma 1 bis del d.l. 27.7.2005, n. 144[16] che prevede un aumento della pena della metà, qualora l’istigazione pubblica riguardi delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità. Il recente art. 2, comma 1, lett. b) D.L. 18 febbraio 2015, n. 7[17], inoltre, ha previsto un aggravamento di pena nelle ipotesi criminose di cui ai commi 3 e 4 art. 414 c.p. «se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici», per dare copertura normativa ai nuovi crimini perpetrati via web.

5. Conclusione

La natura fluida di questi reati apre la strada a un intervento giurisprudenziale correttivo, che supplisca alle lacune del legislatore e si orienti verso l’adozione di strumenti idonei di prevenzione, controllo e repressione, salvaguardando i principi democratici fondamentali.

Senza dubbio, l’ampiezza e l’indefinitezza della formulazione normativa creano nodi difficilmente districabili, con gravi ripercussioni sull’applicazione pratica. Il punto più controverso riguarda il confine tra il diritto alla libertà di espressione e la manifestazione di idee o opinioni pericolose, sfuggente e controverso. Il tentativo di ancorare l’applicazione pratica della normativa a criteri solidi ha dato esito deludente, disorientando l’interprete nell’individuazione del requisito dell’idoneità lesiva della condotta nei casi concreti. Non c’è dubbio che siamo di fronte a una figura che spesso punisce condotte molto lontane dal procurare un’effettiva e reale messa in pericolo dei beni giuridici tutelati, che presentano una scarsa lesività rispetto a questi valori, soprattutto se posti in relazione alla libertà di espressione.

In conclusione, laddove il fatto si incentri sulla manifestazione di un pensiero sarebbe opportuno valutare accuratamente, caso per caso, il requisito dell’idoneità concreta per contenere il pericolo di una limitazione sproporzionata e incostituzionale della libertà di opinione. Il controllo penale, inevitabilmente, è più incisivo nei settori lambiti dalla libertà di espressione e assume una forte valenza simbolica di controllo autoritario dell’opinione dissenziente.

 

 

 


[1] Si attribuisce al termine “pensiero” un significato comprensivo di manifestazioni a carattere teleologico ed emotivo, oltre che logico e astratto.
[2] A. SPENA, Libertà di espressione e reati di opinione, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2/3, 2007, 689-738.
[3] F. MANTOVANI, I reati di opinione, Il Ponte, 1971, pp. 206-219
[4] L. ALESIANI, I reati di opinione. Una rilettura in chiave costituzionale, Milano, 2006.
[5] In questo senso P. DI VICO, Il delitto di apologia, in Annali dir. Proc. Pen, 1936, p. 787.
[6] Cass., sentenza 18 novembre 1958, in Riv. It. dir. proc. pen, 1960, 189.
[7] Corte Cost. 1973, n. 15.
[8] Corte Cost. 1970, n. 65.
[9] L’art. 414 c.p. stabilisce un differente trattamento sanzionatorio a seconda che si tratti di istigazione a commettere delitti o contravvenzioni.
[10] G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale parte speciale, Vol I, 5 ediz.
[11] Cass., Sez. VI, 1998, n. 8850.
[12] E. CONTIERI, I delitti contro l’ordine pubblico, Milano, 1961.
[13] Cass., Sez. I, 1997, n. 10641.
[14] F. SCHIAFFO, Istigazione e ordine pubblico, Napoli, 2004, pp. 216 ss.
[15] Cass. pen., 2001, n. 26907, in Riv. pen., 2001, p. 820.
[16] Convertito con modificazioni nella Legge 31 luglio del 2005, n. 155.
[17] Convertito con modificazioni nella Legge 17 aprile del 2015, n. 43.

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