Il contatto sociale: profili generali e applicazioni in materia di responsabilità precontrattuale, responsabilità da lesione di interessi legittimi e mediazione atipica

Il contatto sociale: profili generali e applicazioni in materia di responsabilità precontrattuale, responsabilità da lesione di interessi legittimi e mediazione atipica

Sommario: Introduzione – 1. L teoria del contatto sociale alla luce dell’impianto codicistico: la fattispecie dell’art.1173 c.c. e il ruolo della correttezza e della diligenza – 2. Due casistiche: responsabilità precontrattuale e responsabilità della p.a. per violazione degli interessi legittimi – 2.1. Il contatto sociale nelle procedure ad evidenza pubblica – 3. Il particolare settore della mediazione atipica o procacciamento d’affari

 

 

 

Introduzione

Il contatto sociale, o per meglio dire il “contatto sociale qualificato”, può essere definito come quella particolare relazione tra due soggetti priva dalla presenza di un formale negozio giuridico, ma che del pari è fonte  di un’obbligazione in senso tecnico, consistente nell’obbligo primario di protezione di una parte verso l’altra.

In virtù di tale qualificazione, l’istituto rappresenta a tutti gli effetti una fonte delle obbligazioni.

Una tale definizione, tuttavia, non esiste in termini positivi nel nostro ordinamento, ma trova ampia applicazione nella giurisprudenza di legittimità per la disciplina di particolari settori professionali, quale quello medico, ove l’assenza di un negozio tra le parti non è elemento sufficiente per poter invocare una responsabilità aquiliana da mero contatto occasionale.

Il contatto sociale presuppone un qualcosa in più rispetto al generico dovere di nemidem leadere e qualcosa in meno rispetto all’adempimento dell’obbligazione contrattuale, tanto da renderne difficoltosa l’individuazione della natura giuridica e la disciplina applicabile.

Dal punto di vista storico una tale atipica figura si afferma con forza nella dottrina tedesca, quale trasposizione, purtroppo, di un’ideologia nazionalsocialista, ove il “fatto sociale” doveva assurgere a fonte di obblighi inter-privati e prevalere sulla libertà negoziale.

I fatti socialmente tipici rappresentavano infatti l’espressione di un regime che aveva messo in crisi la concezione individualistica dell’ordinamento giuridico, tanto che ogni singolo aspetto dei rapporti tra cittadini doveva rappresentare la proiezione sociale e il potenziamento dell’economia nazionale.

Il declino di questa concezione si avverte con la scomparsa del nazionalismo, sebbene la sua struttura di base continua a permeare la letteratura tedesca, rivelandosi utile a giustificare quei sempre più frequenti rapporti commerciali produttivi di effetti obbligatori, ma privi di un previo contratto formale.

La teoria ha avuto grande apprezzamento anche nella dottrina italiana, ove tuttavia la mancanza di qualunque riferimento normativo nel codice ha posto numerosi interrogativi circa la sua ammissibilità, a cominciare da quello del suo collocamento nell’ambito del sistema delle fonti delle obbligazioni ex art.1173 c.c.

Da questo aspetto che si devono muovere le considerazioni, onde ricostruire l’istituto del contatto sociale nell’ordinamento italiano e individuarne la concreta applicazione.

1. L teoria del contatto sociale alla luce dell’impianto codicistico: la fattispecie dell’art.1173 c.c. e il ruolo della correttezza e della diligenza

Come noto l’art.1173 c.c. individua tre fonti delle obbligazioni: il contratto, il fatto illecito e qualunque altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico.

Le fonti impresse nel Codice vigente si ispirano alla tripartizione di Gaio, il quale collocava al terzo posto le così dette “varie causarum figurae”; inoltre, a differenza del Codice del 1865 ispirato alla quadripartizione giustinianea, il legislatore del ’42 decide di epurate dall’elenco la “legge”, i “quasi contratti” e i “quasi delitti”.

In particolare l’eliminazione della fonte legale rappresenta un indizio di quella necessità del legislatore di ridimensionare la primazia della volontà privata nella creazione e soprattutto nella conservazione delle fonti, evidentemente dimostrata dal fatto che la legge veniva relegata a fonte residuale ed eccezionale.

L’attuale impostazione, diversamente, va a creare un sistema che, sebbene aperto all’atipicità, garantisce la conservazione del vincolo obbligatorio anche a prescindere dalla ricorrenza di un fondamento volontaristico e determina un rinvio incondizionato all’ordinamento giuridico e ai suoi limiti.

Sulla struttura dell’art.1173 c.c., si può affermare che l’opinione maggioritaria riconduce i rapporti obbligatori di fatto, e quindi il contatto sociale qualificato, tra gli atti o fatti idonei a produrre obbligazioni, presupponendo una lettura dell’ultimo inciso della norma secondo la stessa atipicità che caratterizza i contratti e i fatti illeciti ex art.2043 c.c.

L’atipicità di detta fonte, nel rispetto dei limiti ordinamentali, è tanto maggiore se si ritiene che anche gli atti unilaterali leciti, pacificamente inquadrabili in questo settore, non sono circoscritti entro la tassatività dell’art.1987 c.c., ma soggiacciono alla disciplina del contratto, all’art.1322 comma 2 e all’art.1324 c.c., mediante il ricorso alla figura del “contratto con obbligazioni del solo proponente” di cui all’art.1333 c.c.

Alla luce di ciò la vexata quaestio grava intorno al tipo di responsabilità cui incorre colui che viola il contatto sociale qualificato e soprattutto come può un fatto sociale assumere le caratteristiche di un’obbligazione in senso tecnico.

La risposta a questi interrogativi deve essere ricercata nella scomposizione analitica dell’obbligazione, da cui emerge che la stessa si presenta come un rapporto complesso, che non si esaurisce nel mero adempimento di una prestazione principale. Invero, accanto alla prestazione volta a realizzare il programma obbligatorio, la valorizzazione dei principi di correttezza, buona fede e diligenza (artt.1175-1176 c.c.) rappresentano degli obblighi ancillari, ma altrettanto importanti, affinché si possa parlare di corretto adempimento ovvero, in difetto, di inadempimento.

La diligenza, in particolare, viene qualificata come la misura del comportamento tenuto dal debitore nell’esecuzione della prestazione, imponendo che egli agisca con competenza, probità, professionalità, protezione e correttezza nelle informazioni.

Nelle così dette obbligazioni di mezzi, addirittura, la diligenza si identifica con la prestazione in quanto tale.

Ciò fa sì che una prestazione eseguita senza diligenza comporti egualmente l’inadempimento, così come la mancata esecuzione della prestazione dovuta a causa non imputabile al debitore diligente esclude la responsabilità da inadempimento.

Nell’ambito dei rapporti di fatto, la particolare relazione non occasionale che intercorre tra debitore e creditore segue la stessa struttura che si avrebbe in presenza di un negozio formale, con la particolarità che lo scopo perseguito dal creditore, la prestazione, è subordinata all’adempimento da parte del debitore dell’obbligo di protezione ed affidamento che diviene quindi l’obbligo primario.

Il contatto sociale qualificato è dunque fonte dell’obbligo di protezione, assumendo così il carattere di un’obbligazione in senso tecnico, come tale soggetta alla responsabilità ex art.1218 c.c.

È ovvio che, dal punto di vista probatorio, il creditore non potrà provare il titolo negoziale, bensì il fatto sociale da cui scaturisce l’obbligo, nel rispetto del criterio generale sancito dall’art.2697 c.c. e confermato dalle Sezioni Unite del 2001.

Una delle applicazioni più importanti che si è fatta del contatto sociale qualificato ha certamente investito il settore medico, in tutti quei casi in cui è necessario scindere tra la responsabilità della struttura ospedaliera, fondata sul contratto di spedalità, e quella del medico da essa dipendente, verso cui il paziente e privo di un rapporto formale.

La giurisprudenza della Cassazione con l’importante sentenza Cass. Sez. III, n.589/1999 ha riconosciuto la sussistenza di un contatto sociale qualificato tra medico e paziente improntato all’osservanza dell’obbligo di protezione, informazione e affidamento, il quale è stato definitivamente soppresso con la Legge Gelli-Bianco L. 24/2017 che ha qualificato la responsabilità del medico in termini extracontrattuali.

Analoga casistica la si trova nella responsabilità dell’insegnante a seguito delle auto-lesioni inflitte dall’allievo (Cass. n. 3612/2014 e n.19158/2012), la quale non potrebbe inquadrarsi nel fenomeno dell’art.2048 c.c. quale forma di responsabilità oggettiva del precettore per il danno dell’allievo verso terzi.

Altra ipotesi è quella della responsabilità del banchiere per aver pagato un assegno non trasferibile a soggetto non titolare (SS.UU. 14712/2007). In questo caso si ravvisa il contatto sociale tra il titolare effettivo del pagamento e la banca trattaria, il cui impiegato si presume dotato di quelle necessarie competenze tecniche che gli impongono di accertare la legittimazione del soggetto che si presenta per l’incasso, ai sensi dell’art.1176 comma 2 c.c.

2. Due casistiche: responsabilità precontrattuale e responsabilità della p.a. per violazione degli interessi legittimi

In disparte l’ampia casistica elaborata dalla giurisprudenza sul tema, vi sono due settori in cui la teoria del contatto sociale qualificato ha trovato ampio spazio: la responsabilità precontrattuale ex art.1337 c.c. e la responsabilità della pubblica amministrazione per violazione degli interessi legittimi.

Per quanto riguarda la responsabilità precontrattuale è noto che l’art.1337 c.c. è una norma che disciplina un ambito in cui il negozio non è ancora sorto tra le parti, le quali sono in fase di trattativa.

Ciò non di meno, tra le stesse si è instaurata una relazione che, secondo la norma, deve essere improntata alla buona fede reciproca, tale da impedire comportamenti scorretti o recessi ingiustificati da trattative prossime alla certa conclusione.

La disciplina della responsabilità precontrattuale si compone di una parte generale che è data dall’art.1337 c.c. e di una speciale data dall’art.1338 c.c., ove viene individuata una specifica causa di responsabilità nella conoscenza o conoscibilità di una causa di invalidità del contratto non comunicata all’altra parte.

Quest’ultima ipotesi, secondo la dottrina più moderna, non si limita soltanto ai classici casi di invalidità (annullabilità, nullità, rescissione), ma coinvolge anche quelle situazioni definite di vizio incompleto della volontà in cui il contratto, anche se valido, si sarebbe concluso in condizioni diverse se una parte fosse stata adeguatamente informata di talune circostanze. La correttezza dell’informazione, non a caso, è espressione della correttezza e dell’affidamento reciproco nelle trattative.

Questa fattispecie, che prende il nome di dolo incidentale e trova disciplina nell’art.1440 c.c., dimostra il rafforzamento del differente ruolo della buona fede oggettiva nelle trattative, la cui presenza è sufficiente a rendere “l’affidamento” della parte un vero e proprio vincolo obbligatorio.

Una concezione siffatta della buona fede, non più mero parametro di comportamento, ma norma precettiva, rappresenta il criterio interpretativo di quella teoria che inquadra la responsabilità precontrattuale nell’ambito del contatto sociale qualificato e quindi dell’art.1218 c.c.

Secondo la teoria de qua infatti l’espresso richiamo alla buona fede oggettiva operato dall’art.1337 c.c. è elemento sufficiente per elevare la responsabilità precontrattuale ad obbligazione in senso tecnico, il cui inadempimento è quindi risarcibile secondo le regole dell’art.1218 c.c.

Questa posizione è stata contrastata dai sostenitori della teoria extra contrattuale, secondo cui la responsabilità precontrattuale deve essere invece ricondotta alle regole, anche probatorie, dell’art.2043 c.c.

Si eccepisce che parlare di “obbligazione senza prestazione” è un’antinomia, poiché l’art.1174 c.c. sostiene limpidamente che l’elemento identificativo dell’obbligazione in senso tecnico è “la prestazione suscettibile di valutazione economica”, il che equivale a dire che un’obbligazione senza prestazione non è un’obbligazione.

Alla luce di ciò si ritiene che la responsabilità che sorge nel corso delle trattative, ove non è ancora sorto il vincolo negoziale, sia fonte di un danno “occasionale” che non è preceduto dal alcun fatto o contatto giuridicamente rilevante.

L’implicazione pratica di questa differente ricostruzione è significativa, soprattutto dal punto di vista probatorio, poiché se si considera prevalente la teoria aquiliana avremo un termine di prescrizione quinquennale, una prova complessa ove il danneggiato dovrà dimostrare il danno ingiusto e l’elemento psicologico del danneggiante e la mancata applicazione dell’art.1225 c.c.

Se invece si assume la teoria contrattualistica, oltre al termine di prescrizione decennale, l’attore si limiterà a provare il titolo del rapporto ed allegare l’inadempimento, mentre il convenuto sarà agevolato dall’applicazione dell’art.1225 c.c., dovendo risarcire solo i danni che erano prevedibili al momento dell’istaurazione del “contatto”, salva l’ipotesi di dolo.

Tra i sostenitori della teoria contrattuale si colloca quella dottrina minoritaria che qualifica secondo tale accezione anche la responsabilità della pubblica amministrazione.

In questa ipotesi è necessario, tuttavia, scindere due situazioni: da un lato il comportamento tenuto dalla p.a., quale ente autoritativo, nel corso del procedimento amministrativo e il rispetto delle garanzie ad esso sottese indicate dalla L.241/90, dall’altro il comportamento della p.a. che agisce iure privatorum durante le trattative per la conclusione di un contratto, all’esito di una procedura ad evidenza pubblica.

Nel primo caso, una voce minoritaria, nell’inquadrare la responsabilità della p.a. da provvedimento illegittimo, sostiene che la fase procedimentale abbia le stesse caratteristiche di un contatto sociale qualificato. Il rapporto che vene in essere è  scandito da una serie di obblighi posti a garanzia della partecipazione del cittadino al procedimento e al suo contradditorio: la comunicazione di avvio del procedimento, la comunicazione del nominativo del responsabile del procedimento, la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza (o motivazione anticipata) ed altri.

La violazione delle garanzie in questione è lesiva dell’affidamento risposto dal cittadino nel comportamento corretto della p.a. e impedisce di considerare le due parti del rapporto come “estranei”, al pari di quanto accade nella responsabilità aquilana.

Il fondamento risiede in una differente considerazione del ruolo assunto dalla p.a., la quale, in casi siffatti, non viene ad essere censurata per una responsabilità da provvedimento illegittimo, che in realtà illegittimo non è, ma per un comportamento illegittimo in quanto contrario ai canoni di correttezza e buona fede che dovrebbero scandire la fase delle trattative e la formazione della volontà.

Tra gli argomenti a sostegno della tesi si richiama anche l’art.117 CPA che disciplina un procedimento speciale contro il silenzio inadempimento della pubblica amministrazione ex art.2 L.241/90: la dottrina in questione concepisce il silenzio rigetto come l’espressione dell’interesse del cittadino a ricevere dalla p.a. un comportamento pregresso al provvedimento che sia corretto, e dal punto di vista delle garanzie partecipative, e dal punto di vista dei termini d’adozione.

Questa ricostruzione resta sopraffatta dallo storico intervento delle Sezioni Unite sentenza n.500/99, il quale ha elevato l’interesse legittimo al medesimo rango dei diritti soggettivi in termini qualitativi, operando una equiparazione anche dal punto di vista risarcitorio. In tale senso si è qualificata la responsabilità della p.a. in termini extra contrattuali, riconducibili nello schema dell’art.2043 c.c.

L’adesione a l’una o l’altra tesi comporta le necessarie implicazioni cui si è fatto pocanzi riferimento circa la prescrizione e il riparto dell’onere della prova, ma soprattutto conduce a una differente considerazione del giudizio di spettanza sul bene della vita.

Invero, in conformità dell’insegnamento delle SS.UU. n.500/99, il risarcimento del danno da violazione dell’interesse legittimo deve necessariamente passare attraverso una positiva valutazione del giudizio di spettanza del bene della vita a cui l’interesse è correlato. La situazione giuridica soggettiva protetta dalla riparazione economica è quindi identificata con l’interesse del privato al conseguimento di quel bene specifico, del quale se ne deve prima accertare la spettanza in capo all’istante.

Differentemente, con l’accoglimento della tesi contrattuale “da contatto sociale” si dà rilevanza solo al legittimo comportamento tenuto dalla p.a. nel corso del procedimento amministrativo a prescindere da una spettanza o meno del bene in capo al privato, il cui interesse legittimo viene piuttosto ad essere violato da un comportamento procedimentale scorretto.

Ciò significa che ai fini del risarcimento del danno il giudizio dovrà passare per il filtro valutativo della spettanza del bene, non essendo sufficiente l’allegazione dell’inadempimento degli obblighi da “contatto” stabiliti dalla L.241/90 che gravano sulla p.a., ai sensi e per gli effetti dell’art.1218 c.c.

In tal caso l’onere della prova in capo al privato risulterà assai meno gravoso rispetto al danno aquiliano, non essendo necessario provare il danno, l’evento e l’elemento psicologico dell’ente.

Oggi, tuttavia, il dibattito sulla natura giuridica del danno da provvedimento illegittimo risulta pressoché obsoleto, poiché il Codice del processo amministrativo D.lgs. 104/2010 ha positivizzato attraverso l’art.30 l’insegnamento della Suprema Corte e della dottrina maggioritaria, richiamando espressamente l’istituto della responsabilità extra contrattuale di cui all’art.2043 c.c.

Dove la teoria della responsabilità da contatto sociale ha continuato a trovare terreno fertile è nell’ambito della contrattazione della p.a. all’esito delle procedure ad evidenza pubblica.

2.1. Il contatto sociale nelle procedure ad evidenza pubblica

Se fino agli anni ’60 si escludeva categoricamente l’ipotesi di una culpa in contrahendo della p.a. in virtù del principio dell’infallibilità dell’azione amministrativa, successivamente iniziò ad avanzare l’idea che nelle contrattazioni il soggetto pubblico non dovesse agire da buon amministratore, bensì da buon contraente, al pari di un qualunque soggetto di diritto privato.

L’idea che la p.a. potesse avere anche una capacità giuridica di diritto privato si impressa su espliciti riferimenti normativi, quali ad esempio l’art.1 comma 1 bis e 21 sexies L.241/90, rispettivamente richiamanti la soggezione alle regole di diritto privato e la disciplina del recesso, nonché l’art. 30 comma 8 d.lgs.50/2016 che sancisce l’applicazione delle norme di diritto privato alla fase successiva all’aggiudicazione della gara.

Ebbene, parte della dottrina e della giurisprudenza ha ritenuto che con l’aggiudicazione definitiva la p.a., che senza giustificato motivo recede dalle trattative o revoca il bando di gara, è tenuta a risarcire il danno precontrattuale. Nel secondo caso in particolare la revoca del bando, sebbene possa legittimamente costituire una forma di autotutela per un sopravvenuto motivo di pubblico interesse, quale ad esempio la carenza dei fondi, deve ritenersi soccombente rispetto all’affidamento ingenerato sul contraente aggiudicatario circa la buona riuscita dell’affare.

Il principio dell’affidamento presuppone, prima ancora di un ripristino della legalità mediante la revoca, che la p.a. tenga un comportamento corretto nei confronti del privato in buona fede, anche dal punto di vista informativo, affinché questi non possa essere colto di sorpresa dalla differente presa di posizione. Ecco dunque che il momento in cui può configurarsi una responsabilità precontrattuale viene individuato dalla giurisprudenza nell’aggiudicazione definita, atto questo idoneo a far insorgere l’affidamento tutelabile in capo al privato.

Anche in questo caso, come già osservato per la responsabilità da provvedimento illegittimo, la dottrina prevalente coadiuvata dal dettato normativo dell’art.30 CPA, ritiene che debba parlarsi di una responsabilità da contatto sociale in termini extracontrattuali, posto che non si è ancora pervenuti alla fase di conclusione del negozio.

3. Il particolare settore della mediazione atipica o procacciamento d’affari

Un altro ambito settoriale in cui si è discusso sul ruolo assunto dalla responsabilità da contatto sociale concerne l’istituto della mediazione e in particolare di quella sua forma eccentrica che prende il nome di mediazione atipica o procacciamento d’affari.

Per dare soluzione al quesito è imprescindibile passare per un confronto tra le due figure mettendo in risalto il tipo di natura giuridica che caratterizza il legame tra mediatore e parti nell’una e nell’altra fattispecie.

Il codice non ci da una definizione di mediazione ordinaria, bensì di “mediatore”, qualificando come tale colui che mette in relazione due parti per la conclusione di un affare, senza essere legato alle stesse da alcun rapporto di collaborazione, dipendenza o mandato.

La conclusione dell’affare, anche nella forma di preliminare o di contratto sottoposto a condizione risolutiva, conferisce al mediatore il diritto ad ottenere la provvigione da entrambe le parti.

Inoltre, le parti poste in relazione possono recedere dal rapporto ad nutum, anche senza giusta causa e senza incorrere nella responsabilità precontrattuale ex art.1337 c.c., fino alla conclusione dell’affare, termine oltre il quale scatta l’obbligo di pagamento della provvigione in favore del mediatore.

Tale diritto è subordinato ad un’apposita iscrizione al ruolo nel registro delle imprese presso la Camera di commercio ai sensi dell’art. 2 L. 39/89, oggi sostituito dalla presentazione di una SCIA corredata dalle dichiarazioni sostitutive.

Dalla norma è possibile trarre alcuni elementi utili per qualificare il tipo di legame tra mediatore e parti, i quali, secondo l’orientamento maggioritario avallato anche da Cass. 2009 e SS.UU. 2017, consentono di qualificare la mediazione ordinaria come un atto giuridico in senso stretto, foriero di obblighi inquadrabili nell’ultimo inciso di cui all’art.1173 c.c.

Invero, l’elemento che caratterizza il mediatore e che lo distingue dal procacciatore d’affari risiede nel fatto che egli è soggetto terzo ed imparziale rispetto alle parti dell’affare, non essendo legato ad esse dal alcun incarico che lo obbligherebbe a mettere le stesse in relazione. Le parti, quindi, si limitano ad usufruire dell’atto giuridico di messa in relazione compiuto dal mediatore e usufruendone saranno obbligate a corrispondergli la provvigione.

Nell’ambito della sua attività il mediatore è tuttavia investito da determinati obblighi nei confronti delle parti, in particolare di informazione, correttezza, comunicazione delle condizioni dell’affare, tali da incidere sulla buona riuscita del contratto stesso e sulla corretta formazione della volontà.

Per tale ragione si può ritenere che l’atto giuridico determini un contatto sociale qualificato tra le parti e eventualmente una responsabilità del mediatore per violazione dell’art.1337 c.c., qualora non abbia fornito le corrette informazioni ovvero abbia ingenerato in una delle parti l’affidamento circa la buona riuscita di un affare che poi non si è concluso.

La mediazione atipica, secondo le SS.UU. 2017, lungi dall’esonerare il procacciatore dalla presentazione della SCIA, rappresenta una fattispecie eccentrica rispetto alla mediazione tipica, ma avente la medesima funzionalità poiché si caratterizza per il conferimento dell’incarico da parte del proponente che desidera concludere affari per il tramite del mediatore.

In tal senso, il rapporto del procacciatore non può ritenersi terzo ed imparziale rispetto alle parti poiché egli agisce solo nell’interesse di una di esse, quale collaboratore, privo di stabilità che è deputato a segnalare potenziali clienti.

L’incarico nei confronti del mediatore atipico, secondo taluni assimilabile al mandato, non consente di dar luogo ad un contatto sociale qualificato come invece previsto nella mediazione tipica, poiché nel primo caso caso si è già in presenza di un rapporto negoziale tra proponente e incaricato, a causa del quale il procacciatore non è libero di mettere in relazione o meno le parti, ma vi è tenuto in forza dell’incarico.

La disciplina in materia di responsabilità, sulla base di questa differenziazione, sarà quindi la seguente: nella mediazione tipica trova applicazione la responsabilità contrattuale ex art.1218 c.c. per violazione degli obblighi da contatto sociale da parte del mediatore, nei confronti di entrambe le parti; invece, nella mediazione atipica il procacciatore risponderà sempre a titolo contrattuale ex art.1218 c.c. per inadempimento degli obblighi negoziali nei confronti del proponente e da contatto sociale qualificato nei confronti del terzo destinatario della sua attività.

Alcuni ritengono che il procacciatore risponda nei confronti del terzo a titolo extracontrattuale ex art.2043 c.c., ma tale conclusione può essere superata dalla considerazione secondo cui l’istituto de quo presuppone la violazione di un generico dovere di nemidem leadere tra soggetti che entrano in contatto “occasionalmente” al momento della lesione.

Evidentemente così non è in un contesto ove il procacciatore entra in contatto con il terzo al fine di procurare la conclusione di un affare, nel rispetto di quegli obblighi informativi posti a base dell’affidamento e della buona fede nelle trattative.


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