Il danno e la problematica connessa al tema del “giuridicamente rilevante”

Il danno e la problematica connessa al tema del “giuridicamente rilevante”

La nozione di danno, quale istituto giuridico, non è presente nel codice civile italiano essendo, tuttavia, ricavabile dalle disposizioni in materia di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. L’assenza di una disposizione che delinei il concetto di danno con i suoi requisiti, caratteristiche e tipologie ha portato la giurisprudenza e la dottrina dominante a domandarsi in che misura si estende l’area di risarcibilità del danno e se questo fosse da intendere nella sua accezione generica ovvero in termini strettamente giuridici. Di qui l’esigenza di chiarire il significato di “giuridicamente rilevante”, che segna il punto di partenza di uno studio analitico e sistematico.

Il legislatore ha inserito nel libro delle obbligazioni (Libro IV del codice civile) il danno derivante da inadempimento o ritardo contrattuale (ex art. 1218  e ss c.c.), che legittima il titolare di una situazione giuridica soggettiva ad ottenere il risarcimento del danno nell’ipotesi in cui, in un rapporto obbligatorio, il debitore non abbia eseguito correttamente la prestazione cagionando pregiudizi economici nella sfera patrimoniale del creditore; e il danno da fatto illecito (art. 2043 codice civile) che ha natura tipica.

Secondo l’impostazione tradizionale bipartitica, il danno risarcibile è il solo danno patrimoniale dipeso da responsabilità contrattuale (art. 1218 e ss. codice civile) ed il danno non patrimoniale, quale pregiudizio subito nella sfera morale del soggetto, che è diretta conseguenza della violazione di un diritto soggettivo assoluto: di un diritto della personalità, di un diritto reale o di alcuni diritti concernenti i rapporti di famiglia.

Si parla di danno patrimoniale relativamente alla responsabilità contrattuale perché alla base del rapporto obbligatorio, tra debitore e creditore, vi è una prestazione suscettibile di valutazione economica (patrimonialità della prestazione art. 1176 codice civile) rimasta inadempiuta che legittima il soggetto leso a vedersi risarcire il danno. Infatti, come riferisce dottrina risalente, il danno patrimoniale è la lesione di un diritto soggettivo teso al conseguimento o mantenimento di un bene patrimoniale che comporta una riduzione significativa del patrimonio del soggetto leso. Detta in altri termini è la significativa differenza tra il patrimonio del soggetto leso dall’evento dannoso e quello che sarebbe stato in assenza del fatto lesivo[1]. A questa teoria si contrappone quella che ravvisa nel concetto giuridico di danno la lesione di un interesse, intenso come rapporto tra il soggetto e il bene[2].

Tuttavia, il codice non ne definisce la natura, limitandosi a chiarirne le componenti: “Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta” (art. 1223 codice civile). Il “danno emergente” è la significativa perdita patrimoniale quale diretta conseguenza dell’evento dannoso; mentre il “lucro cessante” corrisponde al mancato guadagno, sia in termini economici che di utilità, che si sarebbe verificato in assenza del danno.

Il danno non patrimoniale è, di contro, la conseguenza pregiudizievole di natura non economica scaturita dall’atto illecito.  Premesso che alla base del comportamento del soggetto vi è volitività, non sarebbe del tutto scorretto fondare la responsabilità extracontrattuale sulla teoria della imputabilità della colpevolezza, a titolo di dolo o di colpa a seconda della casistica. Tuttavia, secondo autorevole dottrina (BIANCA), ammettere ciò porterebbe ad ipotizzare anche altre forme di responsabilità da fatto illecito quale ad esempio: responsabilità oggettiva se il pericolo derivante dall’attività potenzialmente pericolosa realizzata da chi materialmente realizza l’illecito poteva essere evitato; o, ancora, una forma di responsabilità aggravata, ad esempio quella del genitore o dell’insegnante a titolo di culpa in vigilando ovvero di culpa in educando.

Dalla lettura dell’art. 2043 codice civile viene fatto riferimento alla locuzione danno ingiusto come condizione di procedibilità dell’azione risarcitoria. Negli anni ’60 del secolo scorso, il danno ingiusto è stato qualificato come lesione di un diritto soggettivo ma successivo orientamento, coerente con i cambiamenti della società e quindi del diritto, ha ravvisato nell’ingiustizia del danno una clausola generale attributiva di ampi poteri creativi dell’interprete, tale cioè da garantire l’ingresso di sempre nuove ipotesi di illecito extracontrattuale. Si consente, così, di allargare l’area di risarcibilità in concomitanza con le esigenze del momento.

Per evitare questo rischio sono state elaborate diverse teorie, tra cui quella del bilanciamento tra interesse leso dalla condotta e interesse sotteso all’attività lesiva e quella della tipicità dell’illecito: possono essere risarciti i soli danni non patrimoniali previsti dalla legge (art. 2059 codice civile), quando cioè l’illecito integra gli estremi di un reato (art. 185 codice procedura civile) o quando deve ammettersi sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata. Teorie che, però, non esauriscono la problematica sottesa e cioè quella di delineare cosa si intente per danno e se, ai fini della sua risarcibilità, la nozione sia o meno comprensivo di lesioni di situazioni di mero fatto oltre che di interessi tutelati dall’ordinamento.

La giurisprudenza ha segnato un punto di svolta nel ricercare il significato di giuridicamente rilevante. La Cassazione[3], infatti, in ordine al tema della tutela risarcitoria del danno alla persona, poi ripreso altresì dalla Corte Costituzionale, ha incluso nell’area del “giuridicamente rilevante” ogni lesione di valori inerenti la persona (come anche il trattamento illecito di dati personali), da intendersi come d. non patrimoniali. Ne consegue che il danno per essere giuridicamente rilevante deve riguardare una lesione di un interesse protetto dall’ordinamento aldilà della natura del pregiudizio e della perdita subita[4]. È sulla base di questa interpretazione che la Corte Costituzionale riconosce la natura bipolare del danno alla persona: sia patrimoniale che non patrimoniale.

Tuttavia, il problema permane perché a differenza del danno patrimoniale che è atipico e quindi sempre risarcibile purché provato, il d. non patrimoniale ha natura tipica e può essere risarcito solo dove è la legge a prevederlo.

L’intensificarsi dell’esigenza di delineare il confine del “giuridicamente rilevante”, ha portato dottrina e giurisprudenza ad interpretare il danno come interesse protetto e tutelato dall’ordinamento giuridico e cioè la lesione di una situazione giuridica soggettiva e non di una situazione meramente fattuale.

Affermando ciò si è ridotto il rischio di allargare la zona di tutela e di risarcibilità di qualsiasi danno che ne avrebbe svilito il concetto e la natura. Allo stato sono considerati non patrimoniali il d. biologico, il d. da morte, d. esistenziale, d. morale, d. ecologico-ambientale, assistendo ad una evoluzione della giurisprudenza costituzionale che nella sentenza n. 184/1986 riconosceva soltanto tre voci di danno: patrimoniale, non patrimoniale e biologico inteso come danno-evento. A questi si aggiungono danni relativi ad interessi non economici del soggetto ma riguardanti la sfera individuale a cui la legge riconosce una forma di tutela: onore, riservatezza, immagine. Tale categoria di danno non patrimoniale è quasi sempre liquidato dal giudice in via equitativa essendo attività complessa la valutazione a priori del suo ammontare.

Il danno biologico riconducibile alla lesione all’integrità psico-fisica indipendentemente dalle ripercussioni di carattere patrimoniale, è liquidabile in via equitativa. All’interno di questa categoria, vi rientrano il danno psichico, quello estetico e da vita di relazione, tutti da intendersi come menomazione della salute in senso lato.

Il danno esistenziale è la ripercussione esistenziale negativa che discende dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva protetta dall’ordinamento. Il danno morale è invece il turbamento, lo stato di ansia o di angoscia quale diretta conseguenza dell’illecito ed è sottoposto al limite ex art. 2059 codice civile  mentre tutti gli altri tipi di danno (immagine, salute, lesioni di interessi costituzionalmente tutelati) devono essere risarciti secondo il disposto di cui all’art. 2043 codice civile.

La tutela che l’ordinamento giuridico riconosce in capo al titolare che ha subito il pregiudizio è l’azione risarcitoria che ha funzione riparatoria, tesa a ristabilire la situazione precedente, e non una funzione punitiva (i c.d. punite damages) così come elaborata dalle dottrine anglosassoni.

Il risarcimento in forma specifica consiste nella reintegrazione della sfera giuridico-patrimoniale del soggetto leso ricostruendo la situazione antecedente il danno e facendogli conseguire la stessa utilità perduta, mentre quello per equivalente si realizza mediante la prestazione di una somma di denaro a titolo di ristoro per il pregiudizio subito.

Onere probatorio grava su colui che ha subito il danno con la differenza che nella responsabilità extracontrattuale egli deve dimostrare un quid pluris: i fatti costitutivi della sua pretesa, il danno ingiusto e la riconducibilità del fatto-evento al comportamento dell’altra parte, dimostrando il c.d. nesso di causalità[5], tra il fallo doloso o colposo e il conseguente danno ingiusto. La giurisprudenza ha elaborato, a tal proposito, la teoria della causalità adeguata per far fronte al rischio di ottenere soluzioni estreme come quelle offerte dalla teoria della causalità materiale (o della condicio sine qua non) che allargherebbero il margine di risarcibilità del danno. Così una condotta si considera causa di un evento dannoso, in senso giuridico, se, sulla base di un giudizio ex ante, detto evento ne risultava la conseguenza prevedibile ed evitabile (teoria della prevedibilità).

Su queste premesse e sulla base dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità ovvero dagli studi approfonditi di autorevole dottrina, può affermarsi che il danno assurge a pregiudizio subito dal titolare di un interesse giuridicamente rilevante e tutelato dall’ordinamento che lo legittima a richiedere tutela risarcitoria, rimanendo esclusa dall’area di risarcibilità del danno la lesione di mere situazioni di fatto che snaturerebbero il significato attribuito, fino ad oggi, alla voce di “danno” quale istituto giuridico.

 

 

 

 

 


[1] SALVI, La responsabilità civile cit. 44 ss
[2] CARNELUTTI, Il danno e il reato 12 ss
[3] Cassazione Sez. Unite sentt. n. 8827-8828 del 2003
[4] Corte Costituzionale Sentenza n. 223 del 30 giugno 2003 in https://www.giurcost.org/decisioni/2003/0233s-03.html
[5] Cass. n. 191/1996; Cass. n. 17152/2002; Cass. n. 390/2008; Cass. n. 11946/2013

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