Il delitto di infedeltà patrimoniale e la teoria dei c.d. vantaggi compensativi

Il delitto di infedeltà patrimoniale e la teoria dei c.d. vantaggi compensativi

Il D.lgs 61/2002, in un’ottica di riforma complessiva dei reati societari intesi in senso stretto, ha introdotto, tra gli altri, anche il delitto di infedeltà patrimoniale ex art. 2634 c.c.. Le ragioni sottese alla riforma furono sostanzialmente due: la prima, spiegata nella relazione ministeriale di accompagnamento, faceva riferimento alla incapacità della fattispecie della normativa previgente di fornire adeguate risposte alle esigenze di tutela del patrimonio sociale da condotte di mala gestio. La seconda ragione stava nel peso del dato comparatistico visto che la maggior parte degli ordinamenti europei prevedevano modelli repressivi più adeguati e completi.

Passiamo ora in rassegna la struttura normativa della fattispecie de quo. L’art. 2634 c.c. è strutturato in quattro commi. Il primo comma ne delinea i tratti essenziali, definendo l’ipotesi delittuosa come un atto grave di mala gestio a condotta viziata da conflitto di interessi. Già da subito è possibile ravvisare alcune differenze con il delitto di appropriazione indebita, infatti, quest’ultimo, è connotato dal comportamento uti dominus da parte dell’agente, mentre nell’ipotesi delittuosa ex art. 2634 c.c., non vi è una vanificazione assoluta delle ragioni del patrimonio sociale, ma vi è un’incidenza, decisiva, del conflitto di interessi in capo al soggetto agente. Il bene giuridico tutelato dalla norma è l’integrità del patrimonio sociale. I soggetti attivi sono gli amministratori, direttore generale e liquidatori in quanto uniche figure titolari di poteri dispositivi sociali. Il presupposto obiettivo della condotta infedele è l’esistenza di una situazione di conflitto di interesse che funge da criterio propedeutico di preselezione dei comportamenti tipici. Il conflitto rimanda ad una concezione di obiettivo antagonismo tra amministratore e società e deve essere valutabile, effettivo e reale, attuale[1].

La condotta esecutiva assume due modalità alternative: il compimento di atti di disposizione dei beni sociali e la partecipazione alla deliberazione relativa ai medesimi atti dispositivi. La descrizione di due tipi di condotta alternativa è stata intesa dal legislatore al fine di includere nello spettro di rilevanza penale atti gestori sia singoli sia collegiali, escludendo atti organizzativi privi di contenuto patrimoniale. Un primo scostamento tra elaborazione dottrinale ed elaborazione giurisprudenziale si è avuto riguardo la possibilità di ricomprendere o meno le condotte omissive nel novero delle condotte tipiche della fattispecie. La dottrina ha sempre sostenuto che la formulazione della norma non era riferibile a tali condotte, mentre la giurisprudenza ha inteso includere nella condotta tipica anche l’inerzia dell’amministratore[2]. L’infedeltà patrimoniale è un delitto di evento dove l’evento funge da elemento di verifica ex post ed il danno patrimoniale può assumere la forma sia del pregiudizio emergente sia del lucro cessante. L’elemento soggettivo è rappresentato da un dolo articolato, contrassegnato sia dalla intenzionalità di cagionare il danno sia dal procurare, a sé o ad altri, un ingiusto profitto o altro vantaggio, quest’ultimo inteso anche come finalità di altro genere rispetto all’arricchimento personale.

Prima di passare all’analisi della teoria dei vantaggi compensativi, è opportuno richiamare la disciplina dettata dal quarto comma, ovvero la procedibilità a querela da parte della persona offesa. Questa previsione è stata sottoposta a diverse critiche in quanto comporta il rischio dell’ineffettività della fattispecie determinando la possibilità di un “mercanteggiamento” della proposizione della querela tra società (parte offesa) e amministratore. Inoltre, anche su questo punto, vi è stata frattura tra dottrina e giurisprudenza in quanto, mentre la prima indica quale titolare del diritto di querela solo la società, con potere deliberativo in capo all’assemblea dei soci, la giurisprudenza ha inteso estendere la titolarità del diritto di querela anche in capo al singolo socio[3].

Ritornando brevemente al rapporto tra i delitti di infedeltà patrimoniale e appropriazione indebita, anche alla luce della disamina fin qui svolta, si può affermare che tra le due fattispecie vi è un rapporto di specialità reciproca[4] così, mentre nel delitto ex art. 2634 c.c. l’amministratore si avvale degli schemi negoziali tipici della gestione di impresa, nel delitto ex art. 646 c.p. l’amministratore si muove al di fuori dell’attività negoziale. La riprova di quanto appena detto la possiamo trovare nella disciplina, riguardante il conflitto di interessi, dettata dall’ art. 2391 c.c.. Il secondo comma dell’art. 2634 c.c. riguarda l’infedele gestione del patrimonio altrui che equipara conflitto di interessi “interno”, tra amministratore e società, e conflitto di interessi “esterno”, ossia tra amministratore e clientela dei risparmiatori o degli investitori. Passando all’analisi del terzo comma, possiamo subito dire che, quest’ultimo, disciplina la c.d. teoria dei “vantaggi compensativi” cosicché non viene considerato ingiusto il profitto dalla società collegata o del gruppo “se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo”.

In merito si palesano due perplessità a livello interpretativo. La prima riguarda il fatto che la compensazione della società svantaggiata e un corretto riequilibrio dei rapporti infragruppo debbano passare per la considerazione del danno e non già del profitto perseguito dal soggetto agente. Mentre la seconda, riguarda la differenza tra “vantaggi conseguiti”, riferibili ad un fatto storico accertato, e “vantaggi fondatamente prevedibili”, i quali trasferiscono la logica del bilanciamento, che è alla base della previsione, su di un piano meramente soggettivo e come tale estremamente variabile. Sul punto la Suprema Corte si è attestata su una posizione molto critica e severa, indicando quali “vantaggi fondatamente prevedibili”, vantaggi conseguiti o basati su elementi sicuri e quindi non meramente aleatori[5].

Al fine di completare la disamina occorre discutere della possibilità di applicazione della c.d. teoria dei vantaggi compensativi ad altre fattispecie di reato. Per quanto concerne la fattispecie di appropriazione indebita ex art. 646 c.p., nulla osta riguardo l’applicabilità della teoria in questione, mentre, riguardo i reati fallimentari, si segnala una diversa elaborazione giurisprudenziale in merito. In un primo momento, la Suprema Corte, al fine di salvaguardare i creditori della singola società, aveva escluso l’applicazione del vantaggio compensativo alla condotta riferibile alla fattispecie di bancarotta fraudolenta impropria[6]. Successivamente, dopo l’entrata in vigore dell’art. 223 Legge Fallimentare, la giurisprudenza ha affermato che non è configurabile il reato di bancarotta societaria da infedeltà se si è in presenza di vantaggi compensativi, in quanto il terzo comma dell’art. 2634 c.c., richiama principi di ordine generale applicabili anche al contesto fallimentare.[7]

 

 

 

 

 


[1] Cass. Pen. sent. n. 40921 del 26.10.2005
[2] Cass. Pen. sent. n. 37932 del 28.07.2017
[3] Cass. Pen. sent. n. 39506 del 24.06.2015
[4] Cass. Pen. sent. n. 40921 del 26.10.2005
[5] Cass. Pen. sent. n. 38110 del 7.10.2003
[6] Cass. Pen. sent. n. 23241 del 27.05.2003
[7] Cass. Pen. sent. n. 49787 del 5.06.2013

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