Il diritto alla vita con particolare riferimento alle scriminanti dell’uso legittimo delle armi e della legittima difesa domiciliare

Il diritto alla vita con particolare riferimento alle scriminanti dell’uso legittimo delle armi e della legittima difesa domiciliare

Come previsto dal comma 1 dell’art. 2 della Convezione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge; nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il reato sia punito dalla legge con tale pena.

Ai sensi del comma 2, in particolare, la morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario: per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale; per eseguire un arresto regolare o per impedire l’evasione di una persona regolarmente detenuta; per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un’insurrezione.

Secondo quanto si ricava da tale norma, dunque, lo Stato ha l’obbligo generale di proteggere mediante la legge il diritto alla vita, nonché il divieto, salvo le eccezioni previste, di privare intenzionalmente della vita.

L’obbligo positivo di protezione, afferma la Corte Edu, si sostanzia nel dovere di predisporre un quadro normativo adeguato e si applica nel contesto di qualsiasi attività, pubblica o privata, nella quale possa essere messo in gioco il bene della vita.

Nell’ambito di tale obbligo, d’altra parte, la Corte vi riconduce anche quello di adottare idonee misure operative finalizzate alla tutela di un soggetto in pericolo di vita a causa degli atti delittuosi di un’altra persona.

Affinché sorga l’obbligo in questione, osserva il giudice europeo, è sufficiente che il ricorrente dimostri che le autorità non abbiano fatto tutto ciò che ci si poteva ragionevolmente attendere da loro per evitare un rischio reale ed immediato per la vita, del quale erano o avrebbero dovuto essere a conoscenza.

L’uso legittimo delle armi è una causa di giustificazione di carattere proprio o privilegiato, introdotta in ambito nazionale con l’emanazione del codice del 1930 al fine di sopperire all’incertezza della precedente normativa in ordine alla possibilità per gli agenti della forza pubblica di fare uso delle armi, o di altro strumento di coazione fisica, nell’adempimento dei loro doveri.

Sotto la vigenza del codice Zanardelli, infatti, l’uso delle armi finiva per essere ricompreso nell’ambito delle scriminanti comuni dell’adempimento del dovere, della legittima difesa e dello stato di necessità.

Come previsto dall’art. 53 c.p., in particolare, non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona.

Considerata la mancata previsione del requisito della proporzione, nonché la contemporanea soppressione della scriminante della reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale (poi successivamente reintrodotta) si ritiene che la norma in questione costituisca un’innovazione apportata dal legislatore fascista allo scopo di ampliare i limiti dell’intervento coattivo della p.a. verso i cittadini, rafforzando così il carattere autoritario del regime. 

Secondo quanto ritenuto dalla giurisprudenza attuale, per contro, la reazione del p.u., oltre a risultare necessaria a vincere la violenza o la resistenza, ovvero ad impedire la consumazione dei reati indicati, nel senso che gli ostacoli all’adempimento del dovere non possono essere superati altrimenti, deve essere caratterizzata dalla proporzionalità tra i mezzi di coazione impiegati ed il tipo di resistenza da vincere, tenuto conto dell’importanza dei beni in conflitto.

Ad oggi, dunque, il riconoscimento di tale scriminante presuppone il requisito della proporzionalità: la sua omissione, si osserva, coerente con l’assoluta preminenza del fine pubblico teorizzata dal regime fascista, non può infatti più ritenersi giustificata, risultando in contrasto con i valori accolti dalla Costituzione.

In un primo momento, la giurisprudenza era pervenuta ad escludere che l’esimente in parola potesse essere applicata in caso di resistenza passiva o di fuga, ritenendo che l’art. 53 c.p. facesse esclusivo riferimento alla resistenza attiva.

Le difficoltà nel distinguere tra resistenza attiva e passiva, nonché l’esigenza di fornire maggiore tutela al p.u. che si trova ad adempiere ad un dovere del proprio ufficio, ha tuttavia condotto la giurisprudenza successiva ad abbandonare tale impostazione e a riconoscere l’applicazione dell’esimente in questione anche in caso di fuga o di resistenza meramente passiva, a condizione, però, che ciò avvenga nel rispetto del criterio di proporzionalità indicato.

Si è altresì discusso se l’esimente fossa da intendersi come limitata al solo uso delle armi in caso di reato in corso di consumazione, ovvero se dovesse invece intendersi come ammissibile anche nella fase di preparazione dell’illecito.

A ben vedere pare preferibile la seconda interpretazione, posto che taluno dei delitti previsti potrebbe essere realizzato con azioni delittuose a consumazione istantanea, per impedire le quali sarebbe pertanto ammesso l’uso delle armi anche nella fase preparatoria, la quale, ove non interrotta, condurrebbe infatti alla realizzazione del reato.

Tanto premesso, alla luce di quanto affermato dall’art. 2 CEDU, il quale sembra ritenere prevalente l’esigenza di giustizia rispetto alla necessità di tutelare il bene giuridico della vita, parte della giurisprudenza ha ammesso la possibilità per il pubblico ufficiale di fare uso delle armi, a prescindere dal requisito della proporzionalità, quando ciò si ritenga necessario per compiere un arresto regolare.

Il diritto comunitario, infatti, considerando illecito l’atto del sottrarsi alla cattura, ha sottratto da qualsivoglia responsabilità penale il p.u. che ricorra all’uso delle armi in caso di fuga o comunque di resistenza all’arresto.

Tale opinione non è tuttavia accoglibile, finendo per porsi in contrasto con quanto affermato dalla nostra Costituzione, la quale, diversamente da quanto pare affermare la norma europea, considera certamente prevalente l’esigenza di tutela della vita rispetto alla necessità di pervenire all’arresto del fuggitivo.

Si consideri, d’altronde, che l’art. 2 CEDU non è direttamente ed immediatamente applicabile in ambito nazionale, posto che le norme della Convenzione si collocano nella gerarchia delle fonti in posizione sovraordinata rispetto alla legge ma subordinata rispetto alla Costituzione.

Secondo l’opinione prevalente, pertanto, ai fini dell’applicazione dell’esimente di cui all’art. 53 c.p. non può prescindersi dal requisito della proporzionalità, e ciò anche qualora l’utilizzo dell’arma da parte del p.u. sia finalizzato a consentire l’esecuzione di un arresto regolare.

Come osservato dalla giurisprudenza, tale proporzionalità deve ritenersi sussistente ove la fuga si realizzi con modalità tali da porre in pericolo beni giuridici di rango primario riferibili a soggetti terzi, ovvero quando, per le specifiche modalità con le quali i fuggitivi cercano di sottrarsi alla cattura, siano ragionevolmente prospettabili rischi attuali per l’incolumità e la sicurezza dei terzi.

Quanto alla legittima difesa domiciliare, invece, occorre dare atto di una recente riforma che ne ha ampliato l’ambito di applicazione, il quale nella sua conformazione attuale finisce per porsi in contrasto con l’esigenza di tutela della vita posta dall’art. 2 della Convenzione.

La novella legislativa interessa sostanzialmente due diversi aspetti dell’istituto, i quali si pongono in rapporto di progressione logica, nel senso che il secondo viene in rilievo solo quando la responsabilità penale non possa essere esclusa sulla base del primo.

La prima modifica, infatti, concerne l’art. 52 c.p., influendo pertanto sul piano dell’antigiuridicità del fatto; la seconda, invece, avendo ad oggetto l’art. 55 c.p., incide sulla disciplina dell’eccesso nelle cause di giustificazione e agisce così sul piano della colpevolezza.

Sotto il primo profilo, l’aggiunta nel comma 2 dell’art. 52 c.p. dell’avverbio “sempre” comporta che il rapporto di proporzione tra offesa e difesa sia attualmente presunto in via assoluta (e non relativa come avveniva in precedenza) nel caso in cui l’aggressore abbia violato il domicilio e l’aggredito, ivi legittimamente presente, abbia usato un’arma legittimamente detenuta o un altro mezzo idoneo al fine di difendere la propria o l’altrui incolumità, ovvero i beni propri o altrui quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione.

Secondo quanto ritenuto da parte della dottrina, la suddetta presunzione assoluta di proporzionalità,  in particolare nelle ipotesi in cui la necessità della difesa sorge con riferimento a beni patrimoniali e non vi è pericolo di aggressione alla propria o all’altrui incolumità, si pone in contrasto con l’ordine dei beni giuridici determinato dalle disposizioni costituzionali.

L’introduzione dell’avverbio “sempre” nel testo della disposizione, dunque, finisce per impedire un’interpretazione della norma in maniera conforme alla Costituzione.

All’interno dell’art. 52 c.p. è stato inoltre inserito un nuovo comma, secondo il quale nei casi di cui ai commi precedenti – ovvero nelle stesse ipotesi in cui è invocabile l’anzidetta presunzione di proporzionalità – agisce sempre in stato di legittima difesa colui il quale compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone.

Il legislatore ha così introdotto una particolare presunzione di legittima difesa, avente come tale ad oggetto non solo il requisito della proporzionalità, ferma la necessità di accertare l’attualità del pericolo e la necessità della difesa, ma concernente tutti gli elementi necessari all’integrazione dell’esimente.

Ne deriva, dunque, che ai fini del riconoscimento della legittima difesa domiciliare sarebbe sufficiente per il giudice accertare il carattere violento dell’intrusione, ovvero la circostanza che la violazione di domicilio sia avvenuta con l’utilizzo della violenza, anche verso le cose, o con minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica.

In merito alla presunzione di legittima difesa sancita dal nuovo comma 4 dell’art. 52 c.p., osserva parte della dottrina, ciò che desta maggiori perplessità è sicuramente la presunzione del requisito della necessità della reazione, da sempre caratterizzante la scriminante.

Mentre la presunzione dell’attualità del pericolo può infatti ritenersi ragionevole a fronte di un’intrusione violenta nel domicilio, al contrario non può considerarsi tale la presunzione di necessità della difesa, in quanto nella pratica l’utilizzo di un’arma o di un altro mezzo di coazione fisica non sempre risulta necessario per la propria difesa, anche a fronte di una violazione violenta del domicilio.

La suddetta presunzione di necessità si rivela pertanto irragionevole, ponendosi in contrasto con l’art. 3 della Legge fondamentale.

Presupponendo la necessità della reazione in ogni caso in cui sia avvenuta una violazione violenta del domicilio, e in particolare anche nell’ipotesi in cui la difesa abbia comportato la morte dell’aggressore, ci si pone altresì in conflitto con l’art. 117, comma 1, Cost., in rapporto all’art. 2 CEDU.

Secondo quanto sancito da tale ultima norma, infatti, l’uccisione dell’intruso può ritenersi compatibile con la Convenzione solo qualora sia il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario per garantire la difesa di una persona contro la violenza illegale.

Quando l’azione difensiva abbia avuto esito letale, dunque, il requisito della necessità risulta essere imposto dalla CEDU e non può pertanto essere oggetto di alcuna presunzione legale.

Da ultimo, la modifica legislativa ha interessato l’art. 55 c.p. e dunque l’istituto dell’eccesso colposo.

Ai sensi di tale norma, in particolare, quando si eccedono colposamente i limiti di una causa di giustificazione, dovranno essere applicate le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.

Anche se non sancito espressamente dalla norma – la quale esclude dal suo ambito di applicazione il consenso dell’avente diritto e le altre scriminanti previste da leggi speciali – l’istituto dell’eccesso colposo trova riconoscimento con riguardo a tutte le cause di giustificazione, costituendo un principio generale del diritto penale.

Nell’eccesso colposo i presupposti dell’esimente sono effettivamente esistenti, ma l’agente ne supera per colpa i limiti oggettivi.

Il superamento dei limiti entro i quali la scriminante deve essere contenuta può essere il risultato di un erroneo convincimento circa la situazione di fatto esistente, ovvero scaturire da un errore nell’esecuzione della condotta posta in essere.

Secondo quanto previsto dal nuovo comma 2 della disposizione, in particolare, nei casi di legittima difesa domiciliare la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito in una condizione di minorata difesa ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto.

L’ipotesi in questione è ricondotta alla categoria delle scusanti: la situazione di particolare vulnerabilità nella quale si trova la vittima dell’aggressione nel domicilio, si dice, renderebbe inesigibile una condotta diversa da parte dell’aggredito.

L’esenzione della responsabilità è legata a due diverse situazioni tra loro alternative, la minorata difesa ed il grave turbamento psichico.

Quanto alla “minorata difesa”, occorrerà accertare la sussistenza di un approfittamento di condizioni, oggettive o soggettive, che abbiano effettivamente ostacolato l’azione difensiva, nonché verificare l’esistenza di un nesso eziologico tra la situazione di minorata difesa e l’eccesso di difesa.

Con riferimento al grave turbamento psichico, invece, esso deve necessariamente derivare dalla situazione di pericolo in atto, nonché essere la causa dell’eccesso di difesa.

Tale requisito è stato fortemente criticato dalla dottrina, la quale, evidenziandone il carattere vago ed indeterminato, lo ha ritenuto in contrasto con il principio di legalità espresso dall’art. 25 della Carta fondamentale, di cui la determinatezza e la tassatività della fattispecie penale costituiscono inderogabile corollario.

La norma, d’altronde, finisce per sollevare rilevanti problemi di ordine probatorio, a causa delle difficoltà insite nell’accertamento di atteggiamenti meramente psicologici.


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L'avvocato Cuccatto è titolare di uno studio legale in provincia di Torino con pluriennale esperienza nel campo del diritto civile, penale ed amministrativo. L'avvocato è inoltre collaboratore esterno di un importante studio legale di Napoli, specializzato nel diritto civile. Quale cultore della materie giuridiche, l'avvocato è autore di numerose pubblicazioni in ogni campo del diritto, anche processuale. Forte conoscitore della disciplina consumeristica e dei diritti del consumatore, l'avvocato fornisce la propria rappresentanza legale anche a favore di un'associazione a tutela dei consumatori. Quale esperto di mediazione e conciliazione, l'avvocato è infine un mediatore professionista civile e commerciale.

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