Il divieto dei patti successori: le ipotesi dubbie

Il divieto dei patti successori: le ipotesi dubbie

Premessa. Ai sensi dell’art. 458 c.c. fatto salvo quanto previsto dagli artt. 768-bis e seguenti, è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione. È del pari nullo ogni atto con il quale taluno dispone dei diritti che possono spettargli su una successione non ancora aperta, o rinunzia ai medesimi. La norma costituisce il completamento dell’art. 457, co. 1 cc che statuisce che l’eredità si devolve solo per testamento. Dal combinato disposto delle due norme deriva che, nel nostro ordinamento, l’unico negozio mortis causa ammesso è quello testamentario.

Per tali ragioni appare dirimente comprendere la distinzione esistente tra i citati negozi mortis causa e i contratti inter vivos, eventualmente anche con effetti post mortem. Tale distinzione appare rilevante per individuare l’ambito applicativo del divieto dei patti successori istitutivi. In tal modo viene superata la tesi di quella parte della dottrina che critica tale distinzione, rilevando come essa si basi su elementi tra loro eterogenei; in particolare, nel negozio mortis causa viene dato rilievo all’aspetto funzionale, mentre nell’atto inter vivos si guarda l’aspetto soggettivo.

L’atto mortis causa. Ciò posto, l’atto mortis causa è quello diretto a disciplinare la sorte del patrimonio del suo autore per il tempo in cui questi avrà cessato di vivere; in tal caso, la morte penetra nella causa del negozio perché è diretto a disciplinare rapporti che verranno a crearsi solo dopo la sua morte. Infatti, caratteristica dei negozi a causa di morte è quella per cui è solamente al momento della morte che può determinarsi la reale entità dell’attribuzione, poiché durante la vita del futuro de cuius il negozio non produrrà nessun effetto. Inoltre, due aspetti tipici del negozio a causa di morte sono che: esso è sempre de residuo, avendo ad oggetto solo quanto residua alla morte del dante causa il quale, fino a quel momento, avrà la piena libertà di disporre delle sue sostanze come meglio crede; sarà sempre si premoriar, ovverosia subordinato alla premorienza del dante causa rispetto al destinatario. Infatti, qualora sia il beneficiario (futuro erede) a morire prima del testatore, l’atto a causa di morte non produrrà alcun effetto e non gioverà nemmeno agli eredi del beneficiario. Ciò, in quanto fin quando il dante causa è in vita il beneficiario non acquisterà nessuna situazione giuridica trasmissibile.

Le differenze con l’atto inter vivos con effetti post mortem. È allora possibile evidenziare le differenze con l’atto inter vivos. In particolare, con riferimento all’atto tra vivi con effetti post mortem la differenza si coglie nel fatto che in questi ultimi la morte incide sotto il profilo degli effetti, e non anche sotto il profilo funzionale/causale. Più nello specifico, il negozio inter vivos con effetti post mortem è immediatamente vincolante per il suo autore e cristallizza immediatamente l’oggetto del trasferimento, creando in capo al destinatario una situazione giuridica strumentale che è suscettibile di trasferirsi agli eredi in caso di premorienza. L’atto, infatti, si perfeziona e diventa efficace indipendentemente dalla morte perché il disponente dispone attualmente dei suoi diritti e non per il tempo in cui avrà cessato di vivere. Quel che viene differito è solo la produzione degli effetti.

La ratio del divieto. Le ragioni poste a fondamento del divieto ex art. 458 cc sono dibattute. Talvolta, il divieto viene giustificando in ragione dell’asserita necessità di assicurare la libera revocabilità dell’atto di ultima volontà. Un eventuale negozio giuridico bilaterale con oggetto la propria successione, creerebbe un evidente ostacolo alla libera revocabilità in quanto il contratto, ai sensi dell’art. 1372 cc, ha forza di legge tra le parti. Tuttavia, è stato obiettato che se fosse realmente questo il fondamento del divieto, la sanzione della nullità sarebbe sproporzionata. Infatti, a salvare il negozio dalle censure ex art. 458 cc sarebbe bastato prevedere che in caso di contratto successorio, il soggetto della cui morte trattasi ha sempre il diritto di recedere senza possibilità di rinunciare a tale facoltà. Inoltre, aderendo a tale ricostruzione, non si comprenderebbe perché debba ritenersi inammissibile l’eventuale pattuizione successoria che abbia al suo interno la clausola recedibilità unilaterale.

Per tali ragioni, altra parte della dottrina ritiene che la ratio del divieto sia più profonda e più complessa. In particolare, essa riposerebbe sull’esigenza di assicurare nell’atto a causa di morte l’esclusiva rilevanza della volontà e delle istanze del disponente. Più nello specifico, l’ordinamento vuole che il de cuius nel disporre delle proprie sostanze per il tempo in cui avrà cessato di vivere non sia condizionato né limitato dalla necessità di difendere l’eventuale affidamento del destinatario della dichiarazione. Pertanto, una simile esigenza può assicurarla solo il negozio testamentario, la cui disciplina è conformata al principio della rilevanza esclusiva della volontà del de cuius. È evidente, infatti, che nei contratti, poiché si ha l’incontro tra le due volontà dei contraenti, la volontà di una parte sarà sempre mediata dall’interesse della controparte. Ragion per cui, la vera ratio del divieto dev’essere individuata nella componente compassionevole e paternalistica. Si ritiene, infatti, che il futuro de cuius, nel momento in cui rediga l’atto a causa di morte, prenda contatto con il senso di finitezza della vita umana, ragion per cui il sentimento di compassione impone che un tale momento sia riservato e svincolato da ogni tipo di condizionamento, perché quel che conta devono essere le istanze più profonde dell’autore.

Le tipologie. I patti successori possono essere di tre tipologie: istitutivi, dispositivi o rinunciativi. È detto istitutivo quel contratto mortis causa con cui il futuro de cuius, durantela sua vita, conviene con un altro soggetto di nominarlo erede (lo istituisce erede) ovvero di effettuare una disposizione testamentaria a suo vantaggio. In tal caso la nullità è estesa anche al patto con effetti obbligatori, ovverosia quello in cui il soggetto della cui eredità si discuta si impegni a nominare erede l’altra parte o ad effettuare un lascito a titolo di legato in suo favore. Il patto istitutivo, come è evidente, è un contratto mortis causa a tutti gli effetti e la sua nullità deriva dalla necessità di assicurare in tal caso l’esclusiva rilevanza della volontà del de cuius. Da tenere distinti dai patti dispositivi e rinunciativi.

Il patto dispositivo è quello nel quale i soggetti coinvolti solo il futuro, ed eventuale, erede ed un terzo. Essi stipulano un contratto in relazione a beni appartenenti ad una successione non ancora aperta.

Nel patto rinunciativo il presunto futuro erede dispone dell’eredità rinunciandovi. In particolare, in tal caso i soggetti coinvolti sono il futuro erede ed il beneficiario della rinuncia, il quale potrà essere il chiamato in subordine ovvero il coerede in accrescimento, ma anche il soggetto stesso della cui eredità si tratta. Un esempio espressamente previsto di patto rinunciativo è previsto all’art. 557, laddove si vieta che il legittimario possa rinunciare all’azione di riduzione durante la vita del donante.

Le ultime due tipologie di patti, a differenza di quelli istitutivi, non costituiscono negozi mortis causa in quanto in essi l’autore non dispone della propria successione, ma dispone dei diritti che pensa di conseguire da una successione che ancora non è aperta. A ben vedere, allora, in caso di patti successori dispositivi o rinunciativi si è in presenza di negozi inter vivos su beni altrui o futuri; ragione per cui è possibile affermare che l’art. 458 cc introduce una deroga al principio per cui l’altruità o la futurità del bene non comportano invalidità del negozio. In tal caso, infatti, il negozio è nullo ex art. 458 cc. In questi casi, la ratio del divieto non potrà essere rinvenuta nella mera necessità di scongiurare il patto corvino, ovverosia evitare disposizioni che potrebbero far nascere nei beneficiari l’auspicio della morte del de cuius. Un tale fondamento, infatti, non sarebbe sufficiente perché nell’ordinamento esistono altri istituti idonei a far nascere il medesimo desiderio. Si pensi, ad esempio, al proprietario di un bene gravato da un usufrutto, oppure all’obbligato di una rendita vitalizia.

Ragion per cui, la tesi prevalente ritiene che in tal caso la ratio del divieto dei patti dispositivi e rinunciativi sia di carattere etico. In particolare, l’ordinamento ritiene immorale che si possa speculare sulla morte altrui e che, quindi, la morte diventi oggetto di contrattazione. La morale comune esige che dinnanzi all’altrui morte si avverta quantomeno un sentimento di rispetto e di pietà, il che porta a considerale immorali i patti nei quali la morte sia oggetto di una speculazione economica. Proprio tale profilo distingue i patti dispositivi e rinunciativi dagli altri negozi che, comunque, fanno sorgere il desiderio corvino ma nei quali, tuttavia, è assente tale speculazione ritenuta immorale. Tale natura etico-moralistica, tuttavia, è alla base degli orientamenti che ritengono che tale divieto sia ormai obsoleto ed eccessivamente rigido, ragion per cui si registra una tendenza legislativo-giurisprudenziale volta a circoscrivere in maniera ben definita il raggio applicativo di tale divieto.

Alcune ipotesi dubbie. Le coordinate sopra indicate possono essere utili all’interprete per la soluzione di alcune ipotesi che si pongono al confine con tale divieto.

Nell’alveo di tali ipotesi di confine rientra la donazione mortis causa o cum moriar, la quale non è altro che una donazione revocabile sottoposta alla condizione sospensiva della morte del donante. Autorevole dottrina ritiene che in tal caso, poiché la pattuizione sarebbe del tipo: ti dono questo bene per il periodo successivo alla mia morte, sarebbe evidente la violazione del divieto di patto successorio; il donatario, infatti, acquisterà sicuramente il bene a far data dalla morte del donante e quest’ultima fungerà da termine iniziale certo nell’an ma non nel quando e non invece come condizione sospensiva. Quest’ultima, infatti, si configura quando l’evento sia futuro e incerto e con riguardo alla morte tutto si può dire, meno che sia incerta. Inoltre, qualora il donante si fosse riservato il potere di recedere la nullità deriverebbe non dall’art. 458 cc ma ex art. 1355 cc trattandosi di condizione risolutiva meramente potestativa.

La donazione si premoriar è quella che avrebbe effetto nel caso in cui la morte del donante intervenga prima di quella del donatario. In tal caso, parte della dottrina ritiene che tale pattuizione sia valida purché la morte sia considerata dai contraenti quale fatto rilevante ai fini della produzione degli effetti con conseguente nascita immediata di una aspettativa di diritto e non, invece, come causa dell’attribuzione. Altra parte della dottrina, al contrario, la ritiene nulla ex art. 458 cc perché l’attribuzione sarebbe collegata all’evento morte ed irrevocabile; inoltre, aderendo alla tesi che la ammette, si darebbe spazio agevolmente ad un modo per aggirare il diviero.

Entrambe le donazioni descritte, dunque, sono dibattute. Configurandosi, secondo, alcuni una aspettativa di diritto illico et immediate e quindi ammessa. Certamente si tratta di ipotesi da valutare concretamente caso per caso per verificare, anche alla luce della ratio, l’eventuale elusione del divieto.

Il contratto a favore di terzo con effetti dalla morte dello stipulante è previsto dall’art. 1412 cc; in tal caso la norma prevede che qualora la prestazione debba essere effettuata dopo la morte, lo stipulante potrà revocare la disposizione in favore del terzo tramite testamento anche nel caso in cui il terzo abbia dichiarato di volerne profittare, a meno che lo stipulante non abbia rinunciato per iscritto alla facoltà di revoca. L’ammissibilità di tale ipotesi deriva dalla previsione dell’ultimo comma, ai sensi del quale la prestazione deve essere eseguita a favore degli eredi del terzo se questi premuore allo stipulante, purché il beneficio non sia stato revocato e lo stipulante non abbia disposto diversamente. La ritenuta ammissibilità di tale pattuizione confermerebbe come la ratio del divieto non possa essere individuata nel voler assicurare la libera revocabilità dell’atto di ultima volontà.

Il mandato post-mortem si configura allorché l’attività oggetto del mandato debba essere eseguita dopo la morte del mandante. In tal caso, qualora l’attività demandata sia il compimento di un atto materiale come, ad esempio, il mandato con oggetto le istruzioni relative alla tumulazione del defunto, la fattispecie non rientrerà tra i patti successori e, pertanto, sarà lecita. Qualora, invece, oggetto del mandato sia un’attività giuridica, la violazione del divieto si avrà solamente nel caso in cui si tratti di una attività che abbia ad oggetto una attribuzione patrimoniale che abbia la propria causa nella morte.

Il negozio fiduciario, che è il negozio tramite cui il fiduciante può attribuire al fiduciario la proprietà di un bene con l’accordo che questi, alla morte del fiduciante, lo trasferisca al beneficiario, potrebbe astrattamente costituire un’elusione del divieto. Tuttavia, esso è ammissibile dal momento che il fiduciante trasmetta la proprietà al fiduciario, e dunque si ha un negozio inter vivos e l’eventuale mancato adempimento del pactum fiduciae comporta solo il risarcimento del danno. L’ammissibilità, comunque, dovrà essere valutata in concreto per verificare che non si sia in presenza di un negozio in frode alla legge.

L’art. 2284 cc prevede che in mancanza di regolazione pattizia, poiché con la morte si scioglie il rapporto sociale, gli eredi del socio hanno il diritto alla liquidazione della quota a meno che i soci non preferiscano continuare la società con gli eredi del socio. È evidente che in tal caso la continuazione è frutto di un atto inter vivos. Tuttavia, i soci possono anche prevede le clausole di successione che prevedono l’automatica continuazione delle società con gli eredi e senza la necessità che questi esprimano il loro consenso. L’ammissibilità di tali clausole è molto discussa.


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