Il divieto di arricchimento imposto

Il divieto di arricchimento imposto

Il divieto di arricchimento imposto costituisce un importante corollario del principio della libertà di autodeterminazione dei privati, che tradizionalmente e stabilmente governa l’ordinamento civile italiano. Il suddetto divieto, difatti, traducendo il brocardo latino nemo invitus locupletari potest, nega che alcuno possa produrre una modificazione nella sfera giuridica altrui, se non voluta.

La volontà del soggetto il cui patrimonio originario subisce una mutazione, risulta condizione necessaria non solo in caso di modifica in peius, ma altresì in caso di accrescimento. Quale regola generale, si consente, difatti, l’attribuzione di posizioni di mero vantaggio in assenza, sì, di una manifestazione di volontà del titolare del patrimonio, ma non contro la stessa.

L’ammissione della sussistenza, all’interno del nostro ordinamento, di un siffatto principio, condurrebbe, secondo alcuni, a negare l’esperibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento nei confronti del soggetto che abbia subìto una locupletazione non voluta. Nello specifico, si tratta di un rimedio a carattere generale e sussidiario, che l’art. 2041 cc appronta al fine di evitare che un soggetto riceva un vantaggio patrimoniale da un danno causato alla sfera giuridica altrui, senza che vi sia una causa che giustifichi tale spostamento patrimoniale. In tali casi, la norma prevede un obbligo di restituzione in natura, qualora l’arricchimento abbia avuto ad oggetto un bene determinato, alternativamente ad un obbligo di indennizzo della diminuzione patrimoniale sofferta; con la precisazione che, in tal caso, poiché la funzione assegnata alla disposizione risulta essere di riequilibrio tra i patrimoni alterati senza causa, l’obbligo di indennizzo non potrà essere superiore né all’entità dell’arricchimento, né a quella del corrispettivo depauperamento.

Cosi come concepita, l’azione non potrebbe essere rivolta nei confronti di un soggetto che non abbia voluto un arricchimento a danno altrui, ma che lo abbia subìto contro la propria volontà. Ciò sarebbe desumibile, non dalla norma in sé, posto che la stessa non fa alcun riferimento alla volontà dell’arricchito, ma dalla regola generale in apertura menzionata, assunta, appunto, quale principio generale dei rapporti giuridici tra privati. La suddetta tesi, a riprova della sua bontà, fa, non casualmente, riferimento agli artt. 1592 cc, in tema di migliorie apportate al bene oggetto di locazione da parte del conduttore, che esclude un’indennità favore di quest’ultimo, qualora le modificazioni siano avvenute in assenza di volontà del locatore; nonché all’art. 936 cc, che subordina il pagamento dell’opera fatta da terzi con mezzi propri sul fondo altrui all’accettazione del proprietario, il quale, a sua volta, non può obbligare il terzo a rimuoverle se non ha manifestato la propria preventiva opposizione.

Viceversa, la tesi opposta, che si batte per un’applicabilità indeterminata dell’art. 2041 cc, che prescinda dalla volontà  o meno dell’arricchito, rileva che le norma sopra indicate hanno una portata tipica e specifica, le quali non possono valere come regole generali. D’altronde, un’eventuale distinzione tra arricchimenti imposti o desiderati produrrebbe l’effetto di restringere in modo considerevole la portata dell’ingiustificato arricchimento; mentre, come già evidenziato, la lettera della legge richiede che si verifichi solo se la locupletazione ingiustificata abbia cagionato un correlativo danno, senza alcun riferimento ad elementi soggettivi.

Sul tema, molti hanno individuato la soluzione della problematica in discorso nell’argomentazione contenuta nella pronuncia delle Sezioni Unite di Cassazione del 2015, con cui si afferma la cessazione dell’operatività del riconoscimento dell’utilità da parte della p.a. in caso di arricchimento ingiustificato. In particolare, la Cassazione decreta la non-necessità della prova da parte della p.a. che l’arricchimento prodottosi nella sua sfera giuridica e tradottasi in un’opera o prestazione altrui, si sia rivelato utile alla stessa. Scompare, così, un importante privilegio accordato alla p.a. dalla tradizionale prassi giudiziaria, che subordinava la possibilità di esperire l’azione ex 2041 cc nei suoi confronti al riconoscimento dell’utilità della locupletazione; ciò al precipuo fine di limitare le spese non deliberate da chi poteva legittimamente esprimere la volontà dell’ente e in assenza di copertura finanziaria. All’ente resterebbe, in ogni caso, la possibilità di eccepire e dimostrare che l’arricchimento non fu consapevole o non fu voluto.

All’interno della sentenza, il divieto di arricchimento imposto è un principio che fa da sfondo alla questione nello specifico risolta, posto che viene in considerazione quale generale limite alla rilevanza dell’arricchimento senza causa. Secondo l’ impostazione ivi abbracciata, qualora l’arricchimento non sia stato voluto, non può dirsi imputabile all’ente pubblico, che sarà, quindi, ammesso a provare tale circostanza quale fatto impeditivo.

Ci si è chiesti, tuttavia, se una soluzione in tal senso possa dirsi valevole non solo per l’ipotesi di arricchimento imposto alla P.a., bensì anche al privato. Secondo una certa impostazione dottrinaria, il requisito della volontarietà dell’arricchimento quale condizione di applicabilità dell’art. 2041 cc, può riguardare la sola ipotesi in cui il soggetto beneficiario sia un ente pubblico, poiché solo questo pone uno specifico e delicato problema di riferibilità dell’arricchimento stesso, in relazione ai poteri di rappresentanza attribuiti a determinati organi. Si tratta di una teoria intermedia, che non convince pienamente qualora si ritenga che il pericolo di un arricchimento imposto debba essere considerato quale problema di ordine generale, e che necessiti, per ciò stesso, di una soluzione uniforme, nell’ottica di una tutela estesa anche ai privati. In tal senso, allora, la sentenza sopra citata viene riletta in senso innovativo laddove si ammetta che il divieto di arricchimento imposto debba essere considerato principio di diritto comune, valevole tanto per gli arricchimenti conseguiti da soggetti pubblici quanto privati.

Le Sezioni Unite, difatti, affermano la non debenza dell’indennizzo da parte dell’arricchito qualora lo stesso abbia rifiutato l’arricchimento o non abbia potuto rifiutarlo poiché inconsapevole del vantaggio a lui attribuito. Come si vede, la soluzione riflette il principio ordinamentale per cui il patrimonio del singolo può ben essere accresciuto senza la sua volontà, ma mai contro di essa.

A riprova di ciò, possono essere citati un pluralità di istituti negoziali, i quali, benché certamente difformi quanto a struttura e funzione, sono accomunati dalla produzione unilaterale di effetti favorevoli nei confronti di determinati destinatari, i quali restano, pur tuttavia, liberi di rifiutarli.

A titolo esemplificativo, si può fare riferimento alla donazione, contratto la cui causa si identifica con lo spirito di liberalità del donante, che non produce effetti laddove non accettata dal donatario; o alla remissione del debito, negozio giuridico unilaterale e recettizio, con il quale il creditore, rinunciando al proprio credito, produce l’estinzione dell’obbligazione, a patto che il debitore non si opponga; oppure, ancora, alle più ampie categorie dei contratti con obbligazioni a carico del solo proponente, ex art. 1333 cc, e a quella del contratto a favore di terzi, regolato dagli artt. 1411 e ss cc: anche in entrambi i casi gli effetti favorevoli non si producono laddove il destinatario, oblato o terzo, rifiuti di profittarne. Rientrano, poi, nelle ultime due categorie negoziali summenzionate, gli istituti dell’espromissione e dell’accollo, legati alle vicende di modificazione nel lato passivo del rapporto obbligatorio. Difatti, l’espromissione, consistendo in un contratto tra creditore e terzo, il quale si impegna, nei confronti del primo, a pagare un preesistente debito altrui, viene tradizionalmente ricondotta alla classe dei contratti unilaterali ricettizi, con la conseguenza che il beneficio possa essere rifiutato dal creditore entro un termine previsto. L’accollo, al contrario, viene considerato, dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritarie, come un contratto a favore di terzi; trattandosi di un contratto bilaterale tra debitore e terzo, con il quale quest’ultimo si incarica di soddisfare il debito a favore dell’accollatario creditore, in capo al quale sussiste il diritto di pretendere dal terzo accollante l’adempimento del credito. In applicazione delle regole di cui all’art. 1411 e ss cc, prima menzionate, anche in caso di accollo sarà possibile per il creditore, in tal caso terzo beneficiario, rifiutarne l’approfittamento. A scanso di equivoci si precisa, tuttavia, che si intende in tale sede fare riferimento al solo accollo esterno, posto che l’opposta variante di accollo interno, ammessa dal nostro ordinamento ma non espressamente disciplinata, rileva quale mero accordo tra debitore e terzo, senza che al creditore sia attribuito alcun diritto di sorta.

L’elencazione fin qui esplicitata, in sostanza, ha fatto pensare che se il principio del divieto di arricchimento imposto opera per gran parte di negozi espressamente previsti dal legislatore, e dunque dotati causa, non sussista alcun motivo ostativo ad una sua estensione agli arricchimenti sine causa, generalizzandone la portata applicativa.

Nonostante la summenzionata pronuncia delle SSUU, e la sua considerevole forza innovativa, tuttavia, sussiste ancora una minoranza di voci dissonanti rispetto all’assunzione della regola del divieto di arricchimento imposto quale principio generale applicabile anche agli arricchimenti senza causa, posto che all’interno del nostro ordinamento sono rinvenibili ipotesi in cui lo stesso, se non contraddetto, risulta quantomeno affievolito. Non casualmente, ci si riferisce, innanzitutto, all’ipotesi di adempimento del terzo, regolata dall’art. 1180 cc, a mente del quale il debitore, qui soggetto arricchito dall’adempimento altrui, può sì opporsi al beneficio ricevuto, ma senza che la sua volontà risulti vincolante per il creditore che riceve la prestazione del terzo; questo, difatti, in caso di prestazione fungibile, resta libero di accettarla nonostante l’opposizione del creditore. In tal caso, inoltre, la giurisprudenza pacificamente ammette la possibilità che il terzo che abbia adempiuto, a meno che non lo abbia fatto per spirito di liberalità verso il debitore, possa espedire nei confronti di questo, in assenza di spontaneo adempimento, l’azione ex art. 2041 cc.

A molti, tuttavia, non pare che tale rilievo possa, da solo, suffragare l’ipotesi di un’inesistenza di un generalizzato divieto di arricchimento imposto, potendo considerare la stessa come semplice eccezione o attenuazione.


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Giulia Paffetti

Avvocato
Nata ad Arezzo il 21.05.1991.Ha conseguito la laurea in giurisprudenza, cum laude, presso l'Università degli studi di Siena il 29.04.2016 con tesi in diritto penale.In data 09.07.2018 ha conseguito il diploma di specializzazione presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni legali - Università degli studi di Firenze, con tesi in diritto penale processuale.Ha conseguito l'abilitazione per l'esercizio della professione forense in data 19.11.2018.

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