Il fenomeno del Capolarato tra origine e attualità

Il fenomeno del Capolarato tra origine e attualità

Il fenomeno del capolarato, oggi, si presenta in tutta la sua complessità e disomogeneità, data la vasta estensione in tutto il territorio regionale del sud Italia, con connotati sempre più particolari e di non facile identificazione. Ciò comporta l’impossibilità di inquadrare tale fenomeno in una cornice definita, capace di aver il pregio di delineare chiaramente gli aspetti essenziali e rilevanti che lo interessano e contraddistinguono.

Nell’accezione originaria del termine, il capolarato corrispondeva ad un sistema informale di organizzazione del lavoro agricolo temporaneo, svolto da braccianti inseriti in gruppi di lavoro, definite squadre, la cui direzione era affidata al caporale, cioè a colui che reperiva la manodopera a basso costo per conto dei proprietari terrieri e delle società agricole.

In sostanza, dunque, il caporale era un mediatore illegale di manodopera agricola; egli ingaggiava i braccianti per conto dell’imprenditore agricolo, stabiliva, altresì, quale era l’importo del corrispettivo che spettava loro e tratteneva da tale somma una parte per sé, a titolo di corrispettivo della propria attività di mediazione.

La nota di illegalità che contraddistingueva e contraddistingue tutt’oggi tale fenomeno attiene, principalmente, alle condizioni di lavoro che il caporale impone ai braccianti. In primis l’elargizione di un salario che è notevolmente inferiore rispetto al tariffario regolamentare nazionale e spesso carente del versamento dei contributi previdenziali, in secondo piano rilevano le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti che di rado si uniformano alle regole di sicurezza imposte a livello nazionale sui luoghi di lavoro.

L’origine del capolarato è piuttosto antica, poiché inizia a consolidarsi durante la fine dell’800, quando si radica nel sud Italia l’attività delle organizzazioni mafiose che, nella capillare gestione territoriale, estendono le loro “competenze” anche al reperimento di manodopera agricola per le molteplici imprese agricole presenti sul territorio. Tali organizzazioni criminali, infatti, non solo selezionavano ed ingaggiavano coloro che potevano svolgere l’attività di braccianti, ma imponevano a questi di corrispondere mensilmente all’organizzazione una parte del loro compenso.

Col tempo, si è assistito ad un apparente distacco della gestione dei braccianti da parte delle organizzazioni mafiose, trasferendosi o direttamente alle imprese agricole o alle agenzie interinali del lavoro che, in molti casi, stipulano illeciti accordi con le aziende agricole per eludere le normative fiscali e previdenziali nell’assunzione dei braccianti. A ben vedere, tuttavia, nella realtà ogni singolo episodio di sfruttamento del lavoro agricolo è sempre riconducibile alle organizzazioni mafiose radicate sul territorio che, a livello verticistico, mantengono la gestione dei braccianti.

Oggi, l’organizzazione di tale attività avviene nel seguente modo: il caporale ingaggia per conto dei datori di lavoro la manodopera, recluta giornalmente i lavoratori di una certa zona, li conduce sul luogo di lavoro sorvegliandone l’attività (per 8-12 ore al giorno) e stabilisce il loro compenso (spesso 2-3 euro all’ora), trattenendo per sé una cospicua parte come “tariffa” per il trasporto e l’alloggio (in genere, casolari abbandonati dove i braccianti vivono in condizioni igieniche degradanti, cfr. Amnesty International, Exploited labour: Migrant workers in Italy’s agricultural sector, 2012).

A trarre profitti illegittimamente dallo sfruttamento lavorativo sono, quindi, gli imprenditori agricoli e i caporali che possono in questo modo beneficiare di manodopera a basso costo, praticando un vero e proprio dumping sociale[1], grazie al lavoro nero e sottopagato dei braccianti, costretti a lavorare sotto continua minaccia, intimidazioni, ricatti e violenza.

Spostando l’attenzione dal mero punto di vista sociale al piano squisitamente giuridico, il fenomeno del capolarato era inquadrato come un vero e proprio sfruttamento lavorativo.

Originariamente, infatti, si riconduceva il capolarato alle fattispecie tipiche di intermediazione illecita di cui alle leggi 264/1949 e 1369/1960, norme che censuravano l’interposizione o la somministrazione di lavoro al di fuori dei pubblici uffici, utilizzando contratti illeciti per la fornitura della manodopera; nei casi più gravi, invece, si ricorreva alla diposizioni del codice penale, artt. 600 – 601 – 603 c.p., norme che sanzionano rispettivamente il mantenimento in schiavitù o servitù, la tratta di persone, l’acquisto e alienazione di schiavi e il plagio.

Tuttavia, è emersa col tempo l’insufficienza, e talvolta l’inadeguatezza, di tali disposizioni a prevenire e sanzionare in modo adeguato tale fenomeno; esse, infatti, si limitavano a sanzionare solo due aspetti dell’attività dei caporali, cioè il reclutamento illecito della manodopera e lo sfruttamento perpetuo ai danni dei lavoratori, lasciando senza copertura giuridica le situazioni che attenevano alle violenze, alle minacce, allo sfruttamento dello stato di bisogno dei lavoratori.

Avvertita, pertanto, l’esigenza di dare una chiara e più incisiva risposta punitiva a tale fenomeno criminoso, il legislatore ha introdotto con legge 14 settembre 2011 n. 148 l’art. 603 bis c.p., modificato con legge 199/2016 che sanziona l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro.

Precisamente, l’intermediazione illecita si sostanzia nel: reclutamento di manodopera allo scopo do destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori; utilizzo, assunzione o impiego di manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione e sottoponendo i lavoratori a condizione di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.

Mentre, costituisce indice di sfruttamento sempre ai sensi della predetta norma: la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni o, comunque, sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni di alloggio degradanti.

Alla luce della suddetta normativa, dunque, si assiste ad un chiaro e diretto sforzo attuato dal legislatore mirato a salvaguardare e prevenire ipotesi di sfruttamento lavorativo illecito, attraverso una descrizione dettagliata e, allo stesso tempo, ad ampio raggio, della fattispecie delittuosa e con un notevole inasprimento delle pene.

Tuttavia, nonostante gli sforzi profusi dal Legislatore nel cercare di arginare tale fenomeno, emerge dai fatti di cronaca attuale come il capolarato sia ancora fortemente presente nelle regioni del sud Italia, dove la manodopera agricola è fortemente richiesta. Soprattutto se i braccianti ingaggiati, costretti a lavorare in situazioni degradanti, sono per lo più immigrati clandestini dei quali non si conosce né l’identità né la provenienza.

E’ chiaro, nonché fortemente necessario, dunque, smuovere le coscienze sociali, per impedire il tacito e continuo dilagare di tale fenomeno e ciò è possibile non solo tramite denunce e segnalazioni da parte di chi consapevolmente ha contezza di uno sfruttamento lavorativo, ma altresì tramite semplici gesti quotidiani, come l’attenzione da prestare nell’acquisto di beni di prima necessità o di capi di abbigliamento: se gli stessi si trovano sul mercato ad un prezzo eccessivamente basso rispetto alla media, è opportuno chiedersi se quel prezzo lo sta pagando qualcun altro.

 

 

 


[1] Dumping sociale: il mancato rispetto delle leggi in materia di sicurezza, diritti del lavoratore e tutela ambientale, che consente a un’impresa di ridurre i costi di produzione e quindi di vendere le proprie merci a prezzi molto più bassi di quelli di mercato.

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Chiara Lucia Curci

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