Il fenomeno del Greenwashing e le possibili conseguenze penali nell’ordinamento giuridico italiano

Il fenomeno del Greenwashing e le possibili conseguenze penali nell’ordinamento giuridico italiano

Sommario: Introduzione – 1. Il Greenwashing – 2. Il reato di truffa di cui all’art. 640 c.p. ed il reato di frode nell’esercizio del commercio di cui all’art. 515 c.p. – 3. La responsabilità amministrativa da reato ex D.Lgs. 231/2001 – 4. Conclusioni

 

Introduzione

Le tematiche ambientali e sostenibili sono, oggi, più attuali che mai ed il rispetto e la tutela dell’ambiente assumono sempre più importanza nella nostra società.

Tali aspetti, dunque, che rientrano nell’ambito della c.d. etica ambientale, influenzano sempre di più gli investitori e i consumatori e, di conseguenza, le aziende.

Conseguenza ne è che proprio quest’ultime, nel tentativo di soddisfare i suoi stakeholders e cavalcare, così, l’onda della sempre più diffusa consapevolezza ecologista nella società, finiscono per proclamarsi, mediante strategie di marketing, green e attenti all’ambiente quando, in realtà, le loro strategie industriali di eco-sostenibile hanno ben poco.

Tale fenomeno, definito greenwashing, è sempre più diffuso nelle aziende proprio in virtù del fatto che i consumatori sono, oggigiorno, disponibili a spendere di più pur di acquistare beni e prodotti eco-friendly. Utilizzare un certo tipo di comunicazione, dunque, con messaggi che rimandano alla tutela dell’ambiente senza un effettivo riscontro nelle performance produttive, permette alle aziende di aumentare i propri profitti.

Nonostante l’aumento esponenziale dell’uso di questa pratica a danno dei consumatori, il nostro ordinamento giuridico non prevede ancora una adeguata normativa idonea a configurare una responsabilità penale in capo alle aziende che adottano questa pratica scorretta.

L’obbiettivo dello scritto è, dunque, quello di cercare di individuare delle possibili soluzioni per classificare il fenomeno come reato e, conseguentemente, punire l’azienda che lo pratica ai sensi del D. Lgs. 231/2001.

1. Il Greenwashing

Preliminarmente, è necessario definire cos’è il greenwashing. Per greenwashing si intende quella strategia di comunicazione e/o di marketing adottata da una azienda che presenta la sua attività come ambientalmente sostenibile, cercando di nascondere il negativo impatto ambientale. Lo stesso termine greenwashing nasce dall’unione delle parole “green”, inteso, appunto, come ecologico, e “whitewashing”, metaforicamente inteso come “nascondere”, “coprire”.

Con l’uso di questa tecnica l’azienda crea un’immagine “verde” di sé al fine di attrarre investitori e consumatori, oggi più che mai attenti alla sostenibilità. L’adozione di questa strategia comunicativa, però, non riflette la reale strategia produttiva e industriale che di eco-sostenibile ha ben poco. Per essere “green”, infatti, l’azienda deve comportarsi in maniera responsabile oltre che adottare una visione di sviluppo sostenibile a trecentosessanta gradi. Deve, in sintesi, cambiare profondamente la sua cultura aziendale in tutti i suoi ambiti, non limitandosi a proclamarsi sostenibile nelle campagne pubblicitarie.

Tale strategia si può riconoscere attraverso: comunicazione scorretta con linguaggio vago, generico e poco trasparente ovvero con un linguaggio estremamente tecnico da risultare incomprensibile per i clienti; indicazione reticente e omissiva dei dati, senza un vero e proprio riferimento all’interezza del processo produttivo oppure mancata dimostrazione delle prestazioni sostenibili dei prodotti definiti tali; l’uso continuo di parole e/o slogan per attirare l’attenzione dei consumatori come eco-green, eco-friendly ed eco-sostenibile; l’uso di immagini suggestive, con prevalenza di sfumature di verde o di soggetti naturali che evocano un certo interesse del marchio o del prodotto in questioni ambientali; prezzi bassi; pubblicizzare dati e informazioni – si ribadisce non veritieri – comprovati con autocertificazioni e non con dati di enti autorevoli.

Alla luce di quanto sopra, chiarita la nozione di greenwashing, è necessario individuare le possibili conseguenze penali che tale fenomeno può configurare.

2. Il reato di truffa di cui all’art. 640 c.p. ed il reato di frode nell’esercizio del commercio di cui all’art. 515 c.p.

L’art. 640 co. 1 c.p. testualmente prevede che “chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032”.

La truffa è, dunque, il tipico reato che si attua attraverso una cooperazione artificiosa della vittima, poiché la condotta consiste in una particolare forma di attacco al patrimonio altrui realizzato mediante l’inganno che induce la vittima a partecipare alla commissione dello stesso, a causa dell’errore derivante dall’azione compiuta dal colpevole.

Il bene giuridico tutelato è il patrimonio e la libera formazione del consenso del soggetto che subisce il reato. In particolare, la punibilità non deriva solo dal danno alla sfera patrimoniale dell’individuo, già tutelata dalle norme contrattuali, ma anche dall’interesse pubblico affinché il dovere di lealtà e correttezza non sia violato e la libertà di scelta dei contraenti sia preservata. Pertanto, la truffa è un reato in contratto poiché il legislatore incrimina non il contratto in sé, che può essere sostanzialmente lecito, ma le modalità della condotta del reo che tendono a carpire artificiosamente il consenso della vittima attraverso una sua induzione in errore.

Tuttavia, poiché la semplice violazione del dovere di lealtà e correttezza non è sufficiente, per la consumazione del reato è necessario anche un effettivo pregiudizio al patrimonio altrui, con conseguente profitto ingiusto.

Si tratta di un reato a forma vincolata in quanto, affinché possa configurarsi, devono sussistere gli artifizi e i raggiri, l’indurre taluno ad errore e l’”ingiusto profitto con altrui danno”.

Il nucleo centrale dell’azione criminale consiste in un’attività finalizzata a persuadere mediante l’inganno, definita come induzione tramite artifici o raggiri.

Gli artifici e i raggiri sono elementi fondamentali nella configurazione del reato in questione, che si caratterizza, appunto, per essere un reato commesso con frode.

In particolare, per artificio si intende comunemente la simulazione di circostanze inesistenti o la dissimulazione di circostanze esistenti, che alterano la realtà esterna, mascherandola. Il termine raggiro, invece, è interpretato come un ingegnoso e subdolo uso di parole volte a convincere, indirizzando in modo fuorviante le rappresentazioni e le decisioni altrui. Entrambi gli elementi, comunque, presentano una connotazione strumentale rispetto al raggiungimento di un fine illecito e devono essere utilizzati per determinare l’effettiva induzione in errore dell’altro individuo.

Si discute se la menzogna possa costituire o meno un raggiro penalmente rilevante: parte maggioritaria della giurisprudenza ritiene, tuttavia, che il mendacio possa integrare l’artifizio o il raggiro allorquando si presenti come una forma di raggiro idonea a suggestionare e convincere la persona offesa di una situazione che non ha riscontro nella realtà.

Anche il silenzio maliziosamente adottato su alcune circostanze da parte di chi ha il dovere di farle conoscere può essere penalmente qualificato come artificio o raggiro.

Per la configurazione del reato, l’efficacia dell’artificio e del raggiro deve essere valutata in modo concreto, ossia facendo riferimento diretto alla situazione specifica in cui si è verificato il fatto e alle modalità con cui è stato attuato. Tale efficacia non viene esclusa dalla presenza di controlli preventivi o dalla mancanza di diligenza da parte della vittima nel condurli, quando, nel contesto reale, sia presente un artificio o un raggiro messo in atto dall’agente e si constati che esista un preciso nesso di causalità tra di esso e l’errore in cui la vittima è caduta.

È importante evidenziare che l’elemento materiale del reato di truffa, che può consistere tanto in un’azione attiva quanto in un’omissione, deve presentare un elemento aggiuntivo: la messinscena, la menzogna o il silenzio, infatti, devono essere intenzionalmente predisposti per perpetrare l’inganno e, in ogni caso, devono essere accompagnati da un comportamento volto a occultare la verità.

Affinché si possa configurare il reato di truffa, inoltre, è necessario anche l’elemento dell’induzione in errore al fine di ottenere un profitto patrimoniale ingiusto a spese di terzi. L’induzione in errore, realizzata attraverso artifici o raggiri, provoca il primo evento del reato, ovvero uno stato di errore nella vittima, che, a causa di ciò, compie un’azione che comporta una disposizione patrimoniale, costituente il secondo evento della truffa. Da quest’ultimo deriva infine l’evento finale, che consiste nel danno patrimoniale.

L’ultimo requisito è, dunque, alla luce di quanto appena detto, l’ingiusto profitto con altrui danno: è opinione diffusa che il requisito del profitto ingiusto possa includere qualsiasi forma di beneficio, aumento o vantaggio patrimoniale, anche se non strettamente di natura economica, mentre il danno, la cui rigida interpretazione bilancia l’ampia portata del concetto di profitto, deve intendersi meramente in termini economici.

L’elemento soggettivo del reato è il dolo generico, diretto o indiretto, avente ad oggetto gli elementi costitutivi del reato (quali l’inganno, il profitto, il danno), anche se preveduti dall’agente come conseguenze possibili, anziché certe, della propria condotta e, tuttavia, accettati nel loro verificarsi, con conseguente assunzione del relativo rischio.

Quando la truffa viene commessa nel momento della formazione del negozio giuridico per trarre in inganno il soggetto passivo, inducendolo a prestare un consenso che altrimenti non avrebbe prestato, e, quindi, a compiere un atto a lui pregiudizievole, si parla di truffa contrattuale.

L’articolo 515 c.p., invece, rubricato frode nell’esercizio del commercio, punisce chiunque, nel contesto di un’attività commerciale o di uno spaccio aperto al pubblico, consegna all’acquirente una cosa mobile diversa da quella dichiarata o concordata, in termini di origine, provenienza, qualità o quantità.

Questa fattispecie è finalizzata a garantire l’esercizio leale delle attività commerciali, ma non tutela gli interessi patrimoniali degli acquirenti individuali, che sono già garantiti da altre disposizioni del codice penale, come ad esempio l’articolo 640 c.p. innanzi citato.

La condotta punita da questo reato consiste nella consegna di una cosa diversa durante un’operazione contrattuale. La diversità può riguardare l’origine (la cosa è prodotta in un luogo geografico diverso da quello indicato), la provenienza (la cosa è diversa da quanto indicato riguardo all’azienda di produzione), la qualità (la cosa presenta caratteristiche non essenziali diverse da quelle attese) e la quantità (la cosa è diversa per peso, misura o numero).

Di conseguenza, la frode nel commercio si configura principalmente nella vendita c.d. “aliud pro alio”, senza che sia necessario che il venditore adotti un atteggiamento sleale o fraudolento nei confronti del consumatore.

L’elemento psicologico richiesto è il dolo generico, ovvero la consapevolezza e la volontà di consegnare una cosa diversa da quella concordata o una cosa mobile che, per origine, provenienza, qualità o quantità, differisce da quanto dichiarato come disponibile per la vendita.

Si tratta, tuttavia, di una norma sussidiaria in quanto, per espressa previsione di legge, può trovare applicazione soltanto ove il fatto non integri un delitto più grave.

L’evento tipico del reato consiste nel passaggio della cosa mobile o mobilizzata alla sfera dell’acquirente, il quale acquisisce il potere di disporne. Di conseguenza, il reato si consuma con la consegna effettiva della cosa, ovvero con la ricezione della stessa da parte dell’acquirente. La consegna può avvenire anche attraverso un intermediario, purché la cosa entri effettivamente nella sfera giuridica del consumatore.

Per quanto riguarda la configurabilità del tentativo, la dottrina e la maggioranza della giurisprudenza hanno a lungo negato tale possibilità. Tuttavia, una parte della dottrina ha divergente opinione, ammettendo il tentativo quando vengono compiuti atti inequivocabilmente diretti alla consegna di una cosa diversa da quella concordata. La giurisprudenza più recente sembra aderire a quest’ultima interpretazione, ma solo in casi particolari in cui il commerciante abbia effettivamente instaurato una trattativa con l’acquirente.

Giova precisare qual è il discrimine tra le due fattispecie appena esaminate: premesso che la giurisprudenza non è concorde in materia, secondo l’orientamento consolidato negli ultimi anni, la truffa contrattuale di cui all’articolo 640 c.p. si differenzia dalla frode in commercio perché la prima si verifica quando l’inganno perpetrato nei confronti della parte offesa è stato determinante per la conclusione del contratto, mentre la seconda si configura nel caso di consegna di una cosa diversa da quella dichiarata o concordata, ma senza il coinvolgimento di artifici o raggiri nella formazione del vincolo contrattuale. Pertanto, la truffa contrattuale si distingue dall’ipotesi di cui all’articolo 515 del c.p. per l’elemento distintivo degli “artifici e raggiri” necessari per la sua configurazione, che invece non costituiscono elementi tipici della frode in commercio.

3. La responsabilità amministrativa da reato ex D.Lgs. 231/2001

Nel nostro ordinamento giuridico “la responsabilità penale è personale”, così come espressamente previsto dall’articolo 27 comma 1 della Costituzione. Ciò significa che solo il soggetto agente, ovvero l’autore materiale o intellettuale del reato, può essere penalmente punito per le proprie azioni.

Tuttavia, sorge la questione se, a seguito del reato commesso da una persona fisica che appartiene a un ente o a una persona giuridica, possa derivare una responsabilità anche nei confronti del secondo. La risposta è negativa se si fa riferimento al principio penalistico “societas delinquere non potest”, secondo cui l’ente o la persona giuridica non possono commettere un reato in quanto entità astratte. Pertanto, secondo tale principio, la responsabilità penale ricade esclusivamente sull’individuo o gli individui che hanno commesso il reato all’interno dell’ente o della persona giuridica.

Tuttavia, il decreto legislativo n. 231/2001, superando detto principio, ha introdotto la possibilità di attribuire responsabilità amministrativa agli enti in seguito alla commissione di un reato da parte di una persona interna all’organizzazione. In sostanza, l’ente può essere ritenuto responsabile dal punto di vista amministrativo quando un suo membro compie un’azione che costituisce un illecito penale. Diversamente detto, il D. Lgs. 231 del 2001 ha introdotto quella che oggi viene definita responsabilità penale degli enti.

L’efficacia soggettiva dell’atto normativo si basa sull’ente inteso come un’organizzazione collettiva che possiede una certa autonomia organizzativa. Le disposizioni della normativa si applicano, come indicato nell’art. 1 co. 2, ai soggetti con personalità giuridica, nonché alle società e associazioni prive di personalità giuridica. Ciò può includere società di capitali, società di persone, società cooperative, mutue assicuratrici, consorzi con attività esterna, fondazioni e associazioni.

Il comma 3, invece, esclude l’applicazione del decreto allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli enti pubblici non economici e ad altri enti pubblici non economici che svolgono funzioni di rilievo costituzionale. Tale esclusione si basa sulla considerazione che le sanzioni previste dallo stesso Decreto, come le sanzioni pecuniarie e le sanzioni interdittive, potrebbero essere inapplicabili o disfunzionali per questi enti, poiché i loro effetti negativi ricadrebbero sui cittadini anziché sull’ente stesso.

L’articolo 5 del Decreto Legislativo 231/2001 individua due categorie di soggetti la cui condotta illecita può dar luogo alla responsabilità dell’ente:

– soggetti apicali: si tratta di individui che ricoprono ruoli di rappresentanza, amministrazione e direzione all’interno dell’ente.

– soggetti non apicali: sono coloro che sono sottoposti alla supervisione o alla direzione di altri.

Tuttavia, non è sufficiente che questi soggetti commettano un reato: affinché si possa configurare la responsabilità dell’ente è necessario che l’atto illecito sia commesso “nell’interesse o a vantaggio dell’ente”. È importante sottolineare che se il soggetto attivo del reato agisce esclusivamente per il proprio interesse o per quello di terzi, la responsabilità dell’ente non può sorgere.

L’interesse, nel contesto della responsabilità dell’ente, si riferisce al fine contenuto nell’atto criminale della persona fisica e deve essere valutato dal giudice ex ante, al momento dell’azione. Tale interesse può essere effettivamente realizzato o rimanere solo potenziale.

Il vantaggio, d’altra parte, è associato a un beneficio materiale ottenuto attraverso la commissione del reato, indipendentemente dall’interesse del soggetto agente. Questo vantaggio è sempre legato a beni materiali riconducibili al patrimonio.

Nel caso dei reati dolosi, l’applicazione di questi criteri non presenta problemi. Tuttavia, nei reati colposi, la questione è più complessa.

Considerando che sia i reati dolosi che i reati colposi sono il risultato di un’organizzazione inadeguata da parte dell’ente, l’elemento di colpa può derivare dalla violazione delle norme di tutela e sicurezza sul lavoro da parte dell’ente, al fine di ridurre i costi aziendali e trarne un vantaggio.

Tuttavia, per evitare che la responsabilità dell’ente sorga solo a causa di un’insufficiente vigilanza senza la possibilità di accertare un vantaggio o un interesse, la giurisprudenza ha stabilito che nei reati colposi il collegamento tra l’ente e il reato non riguarda l’evento in sé, ma la violazione delle norme di sicurezza che ha portato alla commissione del reato.

L’evento dannoso è, quindi, solo la conseguenza della violazione di tali norme, evidenziando l’assenza di volontarietà, che è una caratteristica fondamentale dei reati colposi.

La responsabilità dell’ente è esclusa, oltre che, come già affermato, nel caso in cui il soggetto attivo agisca esclusivamente per il proprio interesse o per quello di terzi, anche nei seguenti casi che dipendono dalla qualifica rivestita dall’autore del reato: se il soggetto che ha commesso il reato occupa una posizione apicale all’interno dell’ente, quest’ultimo potrà evitarne la responsabilità dimostrando di aver adottato e adeguatamente attuato modelli di gestione idonei a prevenire la commissione di reati. In questo caso, spetta all’ente dimostrare in sede processuale di aver adottato misure efficaci per prevenire e contrastare comportamenti illeciti; nel caso in cui il soggetto che ha commesso il reato si trovi in una posizione subordinata, è, invece, compito dell’accusa dimostrare in tribunale che il modello di gestione adottato dall’ente non era idoneo o non era stato adeguatamente attuato. In altre parole, l’accusa deve dimostrare che l’ente non ha preso le misure adeguate per prevenire la commissione del reato da parte del soggetto subordinato.

L’articolo 8, comma 1, lettera a) stabilisce che la responsabilità dell’ente sussiste anche nel caso in cui l’autore del reato non sia stato identificato o non sia imputabile. Ciò implica che la responsabilità dell’ente è autonoma rispetto a quella del soggetto agente.

Di conseguenza, il giudice può accertare e contestare la responsabilità dell’ente anche se l’autore materiale del reato non è stato individuato: questa disposizione consente al pubblico ministero, anche in presenza di pochi elementi di prova contro l’autore del reato, di contestare l’illecito amministrativo esclusivamente alla persona giuridica.

Tuttavia, l’aspetto più rilevante di questa norma riguarda i reati commessi dal top management: spesso accade che l’ente ostacoli le indagini volte a identificare il soggetto apicale responsabile del reato. In questi casi, l’autorità giudiziaria può presumere che il reato sia stato commesso da un soggetto in posizione di vertice e contestare l’illecito esclusivamente all’ente. Sarà quindi compito dell’ente dimostrare di aver adottato un efficace modello organizzativo per escludere la propria responsabilità.

Inoltre, la responsabilità dell’ente sussiste anche in tutti i casi di estinzione del reato diversi dall’amnistia. Tuttavia, se il reato presupposto è già prescritto, il pubblico ministero non può contestare l’illecito amministrativo all’ente, ma deve procedere con l’archiviazione.

La disciplina prevede quattro tipi di sanzioni: la sanzione pecuniaria, le sanzioni interdittive, la confisca e la pubblicazione della sentenza.

Ai sensi dell’art. 27, l’ente risponde solo con il suo patrimonio o con il suo fondo comune dell’obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria, confermando ancora una volta l’autonomia della responsabilità amministrativa dell’ente.

Ciò conferma l’autonomia della responsabilità amministrativa dell’ente, escludendo la possibilità di agire sul patrimonio dei singoli soci o associati, anche se questi sono responsabili solidalmente e illimitatamente.

Di conseguenza, non vi è, in questo caso, una distinzione tra società di persone, in cui esiste una completa separazione patrimoniale e l’ente risponde con il proprio patrimonio senza coinvolgere direttamente i singoli soci, e società di capitali, in cui la separazione patrimoniale è parziale e i creditori possono rivolgersi al patrimonio dei singoli soci.

Tuttavia, l’articolo 27 non esenta i soci dalle altre conseguenze patrimoniali derivanti dalla constatazione dei reati, come l’obbligo di risarcire i danni e la confisca dei profitti.

La III sezione del Capo I, infine, individua quali sono le fattispecie di reato previste dal nostro ordinamento che, se commessi da un soggetto, un individuo, una persona fisica con tutti i requisiti sopra richiamati, possono configurare la responsabilità amministrativa in capo all’ente, includendo nella disciplina anche i reati tentati, seppur con sanzioni meno afflittive.

L’ente, tuttavia, non può essere ritenuto responsabile quando volontariamente ostacola l’azione o il verificarsi di un evento: questa causa di esclusione della punibilità dell’ente è stata introdotta dal legislatore per incentivare la persona giuridica a adottare misure preventive per prevenire la commissione di reati da parte dei suoi dipendenti.

Giova evidenziare in questa sede che tra i c.d. reati presupposti così come annoverati dal D. Lgs. 23/2001 rientra la frode nell’esercizio del commercio di cui all’art 515 c.p. ma non la truffa semplice – ovvero quella contrattuale – di cui al comma 1 dell’art 640 c.p.

4. Conclusioni

Alla luce di quanto sopra argomentato, chiarita la nozione di greenwashing, individuati gli elementi necessari per configurare le fattispecie di reato di cui agli artt. 640 co. 1 e 515 c.p. e il discrimine tra la truffa e la frode in commercio e rilevato che in capo alle aziende può sorgere, a determinate condizioni, una responsabilità conseguente da reato, possiamo concludere che la pratica del  greenwashing potrebbe cagionare conseguenze penali mediante due soluzioni:

– attraverso un’interpretazione estensiva del reato di frode nel commercio che, ai sensi dell’art. 25 bis.1. co. 1 lett. a) D. Lgs. 231/2001, rientra tra i c.d. reati presupposti idonei a configurare la responsabilità amministrativa dell’ente in conseguenza di un reato: in questo caso, la strategia comunicativa finalizzata a proclamarsi green da parte dell’azienda – quale ad esempio lo slogan “100% riciclabile” in riferimento ad un prodotto – che non corrisponde alla realtà configurerebbe la condotta penalmente rilevante consistente nella consegna all’acquirente una cosa diversa da quella dichiarata in termini di qualità. Così, considerato che la condotta sarebbe sicuramente posta in essere da un soggetto interno all’azienda stessa e che tale politica di marketing verrebbe adottata nell’interesse e a vantaggio di quest’ultima, anche nell’eventualità in cui l’effettivo autore rimarrebbe ignoto, si potrebbe configurare, per le motivazioni sopra esposte, una responsabilità “penale” in capo all’ente, così come previsto dal D. Lgs. 231/2001, alla quale verrebbero irrogate le opportune sanzioni. Sul punto, giova precisare che, secondo giurisprudenza ormai consolidata, già la mera messa in commercio, e non necessariamente l’effettiva vendita, del prodotto oggetto del reato è sufficiente ad integrare la fattispecie di cui all’art. 515 c.p., seppur in forma tentata. Forma, questa, che non esclude, per come già argomentato, la responsabilità ex D. Lgs. 231/2001;

– d’altro canto, le strategie di marketing relative ad una finta sostenibilità adottate dall’azienda potrebbero configurare l’ipotesi di reato di cui all’art. 640 c.p.: il proclamarsi eco-friendly senza esserlo effettivamente potrebbe integrare l’artificio e/o il raggiro necessario e sufficiente ad indurre in errore gli investitori o i consumatori, così da procurarsi, il soggetto interno all’azienda, mediante il maggiore profitto conseguito da quest’ultima, un ingiusto profitto a danno, appunto, degli stakeholders. Tale ipotesi, tuttavia, necessita, al fine di poter configurare la responsabilità ex D. Lgs. 231/2001 in capo all’azienda e garantire un’adeguata punizione agli enti che adottano la scorretta pratica del greenwashing, di un intervento normativo volto ad annoverare tra i c.d.reati presupposti anche la fattispecie di cui all’art. 640 co. 1 c.p., oggi, come già detto, esclusa dalla disciplina ex D. Lgs 231/2001.

 

 

 

 

 


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