Il negazionismo: libertà di espressione o abuso del diritto?

Il negazionismo: libertà di espressione o abuso del diritto?

Sommario: 1. La libertà di espressione e i suoi limiti – 2. La sentenza CEDU Perinçek c. Svizzera – 3. Il negazionismo “a statuto speciale” della Shoah – 4. Il negazionismo nella legislazione penale italiana

 

1. La libertà di espressione e i suoi limiti

L’art. 21 della Costituzione sancisce il diritto inviolabile alla libertà di espressione, secondo cui tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. L’esercizio di tale diritto non è però esente da limiti: l’ultimo comma del suddetto articolo, infatti, vieta le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume.

Il diritto alla libertà di espressione è altresì contenuto nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) all’articolo 10, il quale, nel suddetto diritto comprende la libertà di opinione e la libertà di ricevere o comunicare informazioni o idee senza l’interferenza di pubbliche autorità.

Anche la CEDU prevede dei limiti alla libertà di espressione. Primo fra tutti è quello previsto dall’art. 10 co. 2, che subordina tale diritto a formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge, in quanto siano misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per l’integrità territoriale o per la sicurezza pubblica, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei delitti, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti di altri, per impedire la diffusione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.

Infine, un ulteriore limite imposto alla libertà di espressione è previsto dall’art. 17 CEDU, che contiene la clausola dell’abuso del diritto, secondo la quale nessuna disposizione della Convenzione può essere interpretata come contenente un diritto, per gli Stati, i gruppi o gli individui, a dedicarsi ad un’attività o a compiere un atto che mira alla sospensione dei diritti o delle libertà riconosciute nella CEDU o ad una limitazione di questi diritti e libertà maggiore di quella prevista dalla Convenzione stessa.

L’art. 17 CEDU viene solitamente utilizzato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per dichiarare inammissibili prima facie i ricorsi contro condanne per negazionismo (c.d. guillotine effect). In questi casi i ricorsi non raggiungono lo stadio dell’esame nel merito, ovverosia la valutazione dell’applicabilità dell’art. 10 co. 2 CEDU, attraverso il quale i giudici di Strasburgo si soffermano sulle tre condizioni che devono essere rispettate affinché il limite alla libertà di espressione imposto dallo Stato sia conforme al dettato della Convenzione. L’interferenza statale, infatti, deve essere prescritta dalla legge, deve perseguire uno scopo legittimo e deve essere necessaria in una società democratica.

La maggior parte dei casi in cui la Corte EDU ha applicato l’art. 17 avevano ad oggetto un negazionismo specifico, quello dell’Olocausto, il quale è visto come un unicum che, per ragioni istituzionali e politiche, dà adito ad un orientamento più restrittivo e ad una conseguente minore tutela del diritto alla libertà di espressione. Peraltro, la giurisprudenza della Corte EDU attualmente conviene sull’applicabilità di tale articolo non solo alle affermazioni negazioniste della Shoah, ma agli hate speech in generale.

2. La sentenza CEDU Perinçek c. Svizzera

Nella sentenza Perinçek contro Svizzera del 15 ottobre 2015 la Corte europea dei diritti dell’uomo è stata chiamata ad esprimersi a proposito della strage degli armeni compiuta dai turchi nel 1915, contestata dal ricorrente. Perinçek, cittadino turco e presidente del Partito Turco dei Lavoratori, durante una conferenza stampa in Svizzera disse che, a suo avviso, non c’era stato un genocidio ma una battaglia tra due popoli poiché gli imperialisti della Russia zarista avevano incitato gli armeni alla violenza, costringendo turchi e curdi a difendersi dagli attacchi. L’Associazione Svizzera-Armenia lo denunciò e i giudici svizzeri lo condannarono.

Perinçek si rivolse alla Corte EDU lamentando la violazione del suo diritto alla libertà di espressione.

Nella sentenza, la Grande Camera della Corte EDU sviluppa delle argomentazioni di rilievo circa il ricorso alla clausola dell’abuso del diritto di cui all’art. 17 della Convenzione. I giudici sottolineano che l’art. 17 è applicabile solo “su basi eccezionali e in casi estremi” e che il ricorso alla clausola, in quanto dispositivo di extrema ratio, debba essere considerato legittimo solamente nel caso in cui appaia chiaro che il ricorrente abbia esercitato il suo diritto per fini indubbiamente contrari ai valori fondamentali della Convenzione.

La Corte EDU, esclusa l’applicabilità dell’art. 17, procede all’esame nel merito interrogandosi sull’applicabilità o meno dell’art. 10 co. 2 CEDU, concludendo che, essendo i discorsi di Perinçek di carattere storico-politico e legale, nonché di interesse pubblico, debbano essere ritenuti meritevoli di protezione da qualsivoglia compressione.

In secondo luogo, i giudici di Strasburgo procedono alla valutazione della portata offensiva delle espressioni utilizzate. Ai fini della loro punibilità è necessaria un’istigazione alla violenza, una giustificazione dei crimini o, quantomeno, una connotazione razzista. Nel caso Perinçek i giudici di Strasburgo ritengono che l’autore non abbia utilizzato termini ingiuriosi, denigratori o comunque idonei a dare luogo ad una discriminazione su base etnica.

Infine, la Corte EDU, soffermandosi sul contesto spazio-temporale dell’interferenza statale rispetto agli eventi oggetto delle affermazioni incriminate, conclude che, in una società democratica, non era necessario condannare il ricorrente allo scopo di proteggere i diritti della comunità armena essendo inesistente in capo alla Svizzera un obbligo internazionale di incriminare affermazioni come quelle di Perinçek.

3. Il negazionismo “a statuto speciale” della Shoah

Nella sentenza Perinçek la maggioranza dei giudici afferma che l’esperienza storica dello Stato che commina ed infligge la pena può assumere un peso significativo: tanto più gli eventi sono lontani, nel tempo e nello spazio, rispetto alle affermazioni che li negano o contestano, tanto meno la sanzione è conforme alla tutela della dignità delle vittime e dei loro discendenti.

Avvertendo il carattere decisamente dirompente di tale affermazione, i giudici precisano che ciò non vale per il negazionismo dell’Olocausto: in questo caso le opinioni negazioniste sarebbero dotate di pericolosità intrinseca. Il negazionismo della Shoah viene così a configurarsi come una sorta di negazionismo a “statuto speciale”. Tale presunzione di pericolosità, però, sembrerebbe porsi in contrasto con il principio di offensività, che dovrebbe presidiare la legittimità del ricorso al diritto penale in ogni Stato liberale.

La Corte di Strasburgo, in effetti, ha sempre stigmatizzato qualsivoglia espressione negazionista o dubitativa riguardante la Shoah, fino ad arrivare a comprimere la libertà di manifestare privatamente le proprie opinioni. A riprova di ciò, nella sentenza Witzsch c. Germania del 2005, la Corte ha applicato l’art. 17 CEDU per dichiarare inammissibile il ricorso contro una condanna basata su un’opinione contenuta in una corrispondenza privata tra il ricorrente ed uno storico, in cui non veniva contestata la veridicità storica dell’Olocausto, ma veniva revocato in dubbio il fatto che fosse stato proprio Hitler in persona ad ordinare lo sterminio ebraico, non essendoci, secondo il ricorrente, alcuna prova in tal senso.

4. Il negazionismo nella legislazione penale italiana

L’art. 604 bis del codice penale, rubricato “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa”, introdotto dal d.lgs. 1° marzo 2018 n. 21, punisce con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Inoltre, punisce con una pena più grave (da sei mesi a quattro anni di reclusione) chi istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per i suddetti motivi.

L’ultimo comma di tale articolo prevede una pena ancora più aspra (da due a sei anni di reclusione) nel caso in cui la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondino in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra.

In Italia il negazionismo altro non è che un’aggravante del reato di propaganda, istigazione, discriminazione e violenza per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi. Nel nostro Paese, quindi, la condotta di mero negazionismo della Shoah, di genocidi, di crimini contro l’umanità e di crimini di guerra non ha alcuna rilevanza penale, a meno che lo stesso negazionismo qualifichi la propaganda o l’istigazione a delinquere per i motivi anzidetti.

L’orientamento della Corte di Strasburgo, sempre costante nel ritenere abusive le affermazioni negazioniste della Shoah, si è invece rivelato mutevole nei casi in cui la negazione, la grave minimizzazione o l’apologia abbiano ad oggetto altri genocidi o crimini di guerra. Esistono infatti diverse sentenze in cui, come nel caso Perinçek, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto prevalente la libertà di espressione del cittadino rispetto alla compressione posta in essere dalle corti nazionali, creando, così, una disparità di trattamento.

Pertanto, nonostante la scelta del legislatore italiano sia conforme al principio di eguaglianza dettato dall’art. 3 della Costituzione, permane il rischio che la Corte EDU giudichi con sfavore una condanna da parte dello Stato italiano per la negazione di un crimine contro l’umanità diverso dall’Olocausto.


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Roberta Conti

Abilitata all'esercizio della professione forense. Funzionario addetto all'Ufficio per il Processo presso il Tribunale di Bergamo.

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