Il poliziotto che mette in vendita online gli stivali della polizia ma poi ritira l’annuncio configura la fattispecie del reato di peculato?

Il poliziotto che mette in vendita online gli stivali della polizia ma poi ritira l’annuncio configura la fattispecie del reato di peculato?

La sentenza della Sesta Sezione della Corte di Cassazione del 15 febbraio 2022 n. 5397 affronta la questione relativa alla configurabilità del reato di peculato, soffermandosi inoltre sul rapporto tra recesso attivo e desistenza volontaria.

Nel caso di specie, un poliziotto veniva tratto in giudizio per il reato di peculato, ex art. 314 c.p., per aver messo in vendita online stivali da motociclista ed altri abiti destinati all’attività di servizio, di proprietà del Dipartimento di Pubblica Sicurezza. In primo grado l’uomo veniva condannato, in relazione alla messa in vendita degli stivali, per il reato di peculato di cui all’art. 314 c.p. alla pena sospesa di un anno, due mesi e sei giorni di reclusione, tenuto conto della diminuzione del rito abbreviato nonché delle circostanze attenuanti generiche ex art. 62-bis c.p. e della circostanza attenuante ex art. 323-bis c.p., mentre veniva assolto dal delitto contestato in relazione alla messa in vendita degli abiti. La Corte d’Appello, invece, ravvisava nel fatto gli estremi del delitto tentato di peculato in relazione alla sola messa in vendita degli stivali e ne rideterminava la pena a cinque mesi e dieci giorni di reclusione.

La Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto corretta la qualificazione giuridica data al fatto dalla Corte d’Appello in quanto la condotta dell’uomo non integra il reato di peculato bensì il tentato peculato in quanto tale condotta non si è perfezionata con l’apprensione del bene ai danni della Pubblica Amministrazione. Inoltre la rimozione dell’annuncio, che non è in grado di eliminare il requisito della univocità degli atti idonei ad integrare il tentativo, deve essere intesa come una condotta posteriore rilevante ai fini della desistenza volontaria o del recesso attivo.

Secondo la Corte di Legittimità, la Corte d’Appello ha errato nel non ritenere configurabile la desistenza volontaria sulla base che l’azione delittuosa era stata interrotta perché, il giorno in cui l’annuncio di vendita era stato inserito, il comandante si era accorto dell’offerta dandone comunicazione alla Procura.

La desistenza volontaria è disciplinata dall’art. 56, comma 3, c.p. il quale stabilisce che se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso.

La desistenza volontaria consiste, quindi, nell’interruzione volontaria dell’attività criminosa da parte dell’agente prima del compimento dell’intera condotta tipica. Essa rappresenta una speciale ipotesi di non punibilità degli atti di tentativo. Naturalmente, è fatta salva la responsabilità del  colpevole per il reato diverso, che egli abbia eventualmente realizzato, prima di interrompere il tentativo del delitto che aveva di mira.

Il recesso attivo di cui all’art. 56, comma 4, c.p. stabilisce che se il colpevole volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà. Si ha, quindi, recesso attivo allorché il reo, consumata l’azione tipica del delitto, agisce per impedirne le conseguenze.

La Cassazione ha ribadito, infatti, che per integrare la desistenza volontaria, la decisione di interrompere l’azione criminosa deve essere frutto di una scelta volontaria del soggetto, non riconducibile ad una causa indipendente dalla sua volontà o necessitata da fattori esterni. [1]

Secondo i giudici di legittimità è applicabile la scriminante della desistenza volontaria. [2] Ad avviso della Suprema Corte, i giudici territoriali hanno negato la causa di non punibilità, convinti che l’imputato avesse rimosso l’annuncio solo perché il suo comandante aveva visto il post e aveva immediatamente informato la procura della Repubblica. Una conclusione non provata.

Nulla dimostra, infatti, che l’imputato, condannato a cinque mesi e dieci giorni di reclusione, fosse a conoscenza dell’iniziativa del suo ispettore capo.

La Cassazione, dunque, ha annullato la condanna ed ha rinviato alla Corte territoriale che dovrà formulare un nuovo giudizio.

 

 

 


[1] Cass. Pen., Sez. III, 28 novembre 2018, n. 17158;
[2] Cass., Pen., Sez. VI, 15 febbraio 2022, n. 5397

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