Il principio di retroattività favorevole e le norme di depenalizzazione

Il principio di retroattività favorevole e le norme di depenalizzazione

La retroattività favorevole è una naturale implicazione della norma penale fondata sul principio del favor libertatis, in virtù del quale tutti i cittadini hanno diritto al trattamento penale più mite tra quello previsto dalla legge penale al momento di commissione del fatto illecito e quello sancito dalle leggi successive, sempre che non sia intervenuta sentenza definitiva di condanna.

Analogamente, la garanzia del favor libertatis è caposaldo del principio di irretroattività sfavorevole secondo il quale: “Nessuno può essere punito per un fatto che secondo la legge del tempo in cui fu commesso non costituiva reato” (art. 2.1 c.p.).

Dunque, quanto disposto dall’articolo 2.1 c.p. impone la necessaria preesistenza della norma di legge all’evento e all’azione che lo determina, al fine di consentire al cittadino la prevedibilità, nonché la conoscibilità delle conseguenze derivanti dalle proprie azioni od omissioni penalmente rilevanti, così come previsto dall’ordinamento giuridico.

La ratio garantista che caratterizza entrambi i principi opera a fronte di ogni possibile abuso o eccessivo arbitrio del legislatore che possa precludere il diritto del reo di conoscere la legge vigente al momento della commissione del fatto.

Il principio di irretroattività sfavorevole è inoltre sancito dall’articolo 11 delle disposizioni preliminari al Codice civile, secondo il quale “La legge non dispone che per l’avvenire” (essa non ha quindi efficacia retroattiva); sotteso all’esigenza di conferire al singolo maggiore libertà, si esplica, così, come divieto di applicare retroattivamente leggi che prevedano nuove incriminazioni o che aggravino il trattamento sanzionatorio già corrispondente ad un determinato reato.

Costituzionalmente riconosciuto anche dall’articolo 25.2 in quanto “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”, esso non esclude il principio di retroattività favorevole, anzi ne condivide la genesi, pur differenziandosi per i caratteri dell’assolutezza e della inderogabilità, incompatibili con il principio di retroattività favorevole.

Per quest’ultimo inoltre, non è riscontrabile il medesimo fondamento costituzionale, non sussiste infatti una correlazione con la libertà di autodeterminazione dell’individuo che, commettendo il fatto durante la vigenza di una determinata norma, è ben consapevole delle previsioni della stessa e del conseguente trattamento sanzionatorio che gli verrà riservato.

L’essenza della retroattività favorevole è invece enucleabile dall’articolo 3 della Costituzione che sancisce la sostanziale parità di trattamento. Invero, non sarebbe ragionevole punire con modalità dissimili fatti analoghi, solo perché commessi sotto la vigenza di norme che, succedutesi nel tempo, hanno modificato il regime sanzionatorio di un reato, ovvero hanno escluso la punibilità di taluni fatti in passato considerati illeciti.

Entrambi i principi operano, per l’appunto, nel campo della successione delle leggi nel tempo che, in un ordinamento giuridico dove la finalità della pena è rieducativa (ex art. 27 Cost.), rispondono all’esigenza della riserva di legge che pone in essere il divieto di punire fatti in assenza di una legge preesistente che li configuri appunto come reato.

Mentre il principio di irretroattività sfavorevole è specificamente riconducibile al postulato “Nullum crimen sine lege”, quello della retroattività favorevole, non fondandosi sull’articolo 25.2 Cost., risulta manchevole dei requisiti dell’assolutezza e dell’inderogabilità; al contrario esso nasce come principio relativo e derogabile, perciò suscettibile di limitazioni se ed in quanto scandite da criteri oggettivamente ragionevoli.

Innanzitutto, la regola della retroattività della lex mitior trova il suo referente normativo nell’articolo 2.3 e 2.4 c.p. per cui: “Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”.

Ragion d’essere del suddetto principio va rinvenuta anche in quello di offensività laddove, affinché la fattispecie incriminatrice rilevi concretamente, il reato deve consistere in un comportamento materiale idoneo a ledere o a porre in pericolo il bene giuridico tutelato.

La retroattività della lex mitior è pertanto funzionale ad assicurare ai consociati che la punibilità delle loro condotte dipenda dall’antigiuridicità delle stesse; non avrebbe senso infatti sanzionare taluno allorquando il fatto commesso non costituisca più reato, ciò anche in ragione della necessaria correlazione tra il suo disvalore e l’apprezzamento ingenerato dallo stesso nel momento in cui viene posto in essere.

Appare inoltre doveroso specificare che il menzionato principio riguarda solo le norme sostanziali, con conseguente esclusione della sua applicabilità anche a quelle processuali rispetto alle quali, in ossequio al diverso principio del tempus regit actum, ha efficacia la legge vigente nel momento in cui deve essere eseguita la pena.

La Corte Costituzionale, analizzando il principio della retroattività della lex mitior, ha operato un’importante estensione del suo nucleo applicativo, richiamando l’articolo 7 della CEDU, mediante l’interposizione dell’art. 117.1 Cost. nella misura in cui la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni non solo nel rispetto della Costituzione, bensì nell’osservanza dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.

Alla stregua di un’interpretazione operata dalla Corte di Strasburgo, considerata ormai giudice di ultima istanza per i casi di protezione dei diritti fondamentali e rispetto alla quale vanno intese le norme penali interne, la retroattività favorevole trova così anche un fondamento normativo di natura convenzionale al quale gli Stati membri devono adeguarsi. Nello specifico, la portata dell’ articolo 7 CEDU, già manifestazione della riserva di legge, della tassatività e della irretroattività sfavorevole, viene giustamente estesa dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo fino a farvi ricomprendere anche la retroattività favorevole, mediante l’affermazione di un concetto già noto all’ordinamento interno che ancora una volta recepisce che, quando la legge penale in vigore al momento della commissione del fatto e quelle successive sono differenti, il giudice interno deve applicare quelle le cui disposizioni sono più favorevoli per il reo, costituendo, difatti, violazione della norma un’applicazione della pena più sfavorevole.

In particolare, l’intervento della Corte EDU fa seguito al ricorso dell’imputato Scoppola che contestava violazioni sia dell’articolo 7 che dell’articolo 6 CEDU (sul diritto ad un equo processo), a causa del diniego di applicare la lex mitior dopo la commissione del reato, previdente la possibilità per gli autori dei reati punibili con la pena dell’ergastolo, di chiedere il giudizio abbreviato con conseguente commutazione della pena perpetua in quella di anni 30 di reclusione. Accertate le violazioni denunciate dall’imputato, la Corte di Strasburgo ha ordinato allo Stato italiano di farvi fronte, assicurando all’imputato l’applicazione della legge più favorevole per lui, anche se intervenuta dopo i fatti criminosi e non più in vigore al tempo del giudizio.

La suddetta pronuncia ha costituito un fondamentale tassello per il principio di retroattività della lex mitior, giacchè i giudici di Strasburgo hanno contribuito alla fortificazione di una garanzia già ampiamente radicata nell’ordinamento giuridico italiano, tenuto inoltre ad applicare le norme CEDU secondo il senso derivante proprio dall’interpretazione della Corte Europea. Pertanto, al fine di individuare il trattamento più favorevole da applicare, il giudice deve effettuare un raffronto tra le discipline previste rispettivamente dalla norma precedente e da quella nuova, così da valutare concretamente anche le conseguenze inflitte da una piuttosto che dall’altra e verificare quale situazione sia più favorevole per il reo.

L’articolo 2.3 Cost. descrive appunto l’ipotesi in cui, dopo una condanna a pena detentiva, intervenga una legge posteriore sancente solo una pena pecuniaria: in questa ipotesi, applicando il trattamento sanzionatorio più favorevole al reo, la pena detentiva dovrà necessariamente essere convertita in quella pecuniaria. Quindi, tale previsione consente al principio di operare anche quando, in caso di successioni di leggi nel tempo, il fatto continua ad essere illecito mentre a mutare è solo il trattamento sanzionatorio ad esso sotteso, sempre perché nel tempo è variata la sua considerazione sociale.

Asserito il duplice fondamento normativo, l’uno di matrice costituzionale, l’altro di natura internazionale promosso altresì dall’articolo 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (che esprime la legalità e la proporzionalità dei reati e delle pene), la derogabilità della retroattività della lex mitior permane anche dopo la pronuncia della Corte EDU.

In merito, è bene precisare che le deroghe al suddetto principio sono ammissibili solo nelle situazioni in cui emergono interessi o valori di rango analogo a quello che andrebbe sacrificato, quindi per ragioni validamente giustificate, idonee a soddisfare l’esigenza di tutela di interessi parimenti rilevanti in ambito costituzionale e che superino il vaglio positivo di ragionevolezza, pena la declaratoria di incostituzionalità della norma derogatoria.

La Corte Costituzionale (sent. 393/2006) ha chiarito che siffatto principio concerne tutte le norme apportanti modifiche in senso migliorativo alla disciplina della fattispecie criminosa, comprendendo altresì quelle che incidono sulla prescrizione del reato.

La Suprema Corte di Cassazione ha invece seguito una linea maggiormente restrittiva, specificando che non rientrando nell’alveo delle norme sostanziali, quelle sull’esecuzione della pena e sulle misure alternative alla detenzione non sono soggette al regime della successione di leggi nel tempo. Difatti, anche la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha limitato la retroattività favorevole solo alle disposizioni che definiscono i reati e le conseguenti pene.

Quanto ai limiti del principio analizzato, rilevante è sicuramente l’articolo 2.5 c.p. che ne esclude l’operatività rispetto alle leggi temporanee e a quelle eccezionali. Tale deroga è legittimata proprio dalla ratio delle suddette norme, le quali si inseriscono in contesti che il legislatore circoscrive rispettivamente al termine di durata o alle condizioni di fatto caratterizzate da avvenimenti straordinari.

Decorso il tempo di vigenza delle norme temporanee ed eccezionali, i fatti commessi in quei periodi non possono per l’appunto godere dell’applicazione di una legge posteriore anche se più favorevole, laddove questa svilirebbe la forza dissuasiva delle predette norme, perché consentirebbe ai cittadini di commettere violazioni, approfittando di situazioni emergenziali, in prospetto della certezza di una futura impunità.

Indubbiamente, in questo caso la deroga risulta ammissibile, essendo giustificata dalla necessità di tutelare interessi costituzionali del medesimo rango di quelli preservati dalla lex mitior.

Diversamente, si è posta la questione dei decreti non convertiti entro sessanta giorni che, in linea con il favor libertatis, hanno apportato modifiche favorevoli abrogando incriminazioni preesistenti o prevedendo un trattamento più mite per il reo.

Siccome l’inclusione del decreto legge non convertito nell’ambito di leggi suscettibili di applicazione dei principi di irretroattività sfavorevole e retroattività favorevole implicherebbe una violazione dell’articolo 77.3 Cost., sarebbe opportuno assoggettare alla disciplina dell’art. 2.4 c.p. e quindi anche a quella dell’art. 2.2 C.P. solo i fatti concomitanti al decreto legge che, non essendo stato convertito, risulta privo di efficacia ex tunc, nonostante sia più favorevole della legge previgente.

La retroattività favorevole che, non avendo valenza assoluta riscontra un limite nel giudicato in caso di mutatio delle fattispecie che si susseguono nel tempo, è per sua natura applicabile anche alle sanzioni formalmente amministrative e sostanzialmente penali.

Partendo dal presupposto che la retroattività è una caratteristica tipica delle norme penali e che la L.689/81 non prevede la retroattività favorevole, pur escludendo quella sfavorevole delle sanzioni amministrative, occorre precisare l’importanza della distinzione tra le sanzioni formalmente amministrative e sostanzialmente penali e quelle formalmente e sostanzialmente amministrative: le prime infatti, nonostante siano configurate dall’ordinamento interno come sanzioni amministrative, assumono caratteristiche punitive grazie all’ordinamento convenzionale, il quale ha conferito natura penale alla sanzione facendo leva sulla sua funzione afflittiva, indipendentemente dalla forma che la contraddistingue.

Dunque, alla luce dei criteri ENGEL elaborati dalla Corte di Strasburgo (per i quali, affinché una sanzione sia considerata penale occorre valutare la qualificazione giuridica interna e la natura dell’illecito, oltre che la natura e la gravità della sanzione stessa), quando la sanzione rispetta i parametri convenzionalmente determinati è coerente estendervi il principio di retroattività favorevole.

Ciò è stato chiarito anche dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 63/2019 che ha analizzato la questione di legittimità costituzionale della normativa escludente l’applicazione retroattiva delle modifiche sulle sanzioni amministrative previste per l’illecito di abuso di informazioni privilegiate.

Il legislatore infatti, prevedendo un regime sanzionatorio di transizione non applicabile retroattivamente, aveva sacrificato il diritto degli autori del suddetto illecito a vedersi applicata una sanzione proporzionata al disvalore del fatto, benchè la stessa fosse sostanzialmente penale; sarebbe stata infatti un’ovvia conseguenza dettata dalle ragioni precedentemente esaminate, quella di farla retroagire ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore.

Analoga considerazione rileva allorquando la deroga introdotta dal legislatore non superi il vaglio positivo di ragionevolezza, presupposto essenziale per consentire limitazioni alla retroattività della lex mitior.

Quindi, essendo la deroga incostituzionale è chiaro che non può escludersi l’applicazione retroattiva della legge più favorevole nel caso dell’illecito disciplinato dall’art. 187 bis T.U.F.

Così la pronuncia della Corte Cost. ha chiarito nuovamente quanto era già stato prospettato dalla Corte EDU in ordine alle sanzioni amministrative, precisando anche che un’ulteriore caratteristica della retroattività è la sua applicabilità ai procedimenti sub iudice, ciò non ostando alla rilevanza del principio in tal caso non legittimamente derogabile.

Tuttavia, il maggior favore delle sanzioni amministrative che, non incidendo sulla libertà personale come quelle penali, le quali al contrario assumono carattere di maggiore stigmatizzazione a livello sociale, andrebbe valutato complessivamente rispetto all’apparato di volta in volta previsto.

Infatti, si può solo presumere relativamente che le sanzioni amministrative abbiano natura meno incidente sul reo.

Il problema de quo si pone con riferimento alle ipotesi configurate delle norme di depenalizzazione le quali, trasformando un illecito penale in civile o amministrativo, determinano una abolitio criminis, dando vita così ad un nuovo illecito.

Proprio gli effetti che conseguono alla norma di depenalizzazione consentono di qualificarne una duplice natura: sicché da un lato permane la sua essenza penale in quanto produttiva dell’effetto di abolitio criminis, dall’altro, a causa della trasformazione operata circa l’illecito, rileva invece una natura tutt’altro che penale.

Di conseguenza, la suddetta norma, non essendo di matrice penale nella parte in cui prevede il nuovo illecito amministrativo o civile, non sarebbe applicabile ai reati precedentemente commessi, vigendo il generale principio secondo cui la legge non dispone che per l’avvenire. Affinché retroagisca, è dunque opportuno che la norma di depenalizzazione sia accompagnata da uno specifico regime transitorio, che palesi l’estensione della sua efficacia anche a fatti pregressi, i quali altrimenti, in ragione dell’abolitio criminis da essa naturalmente prodotta, rimarrebbero impuniti.

Pertanto, la Giurisprudenza non sempre connette la depenalizzazione alla mitigazione del trattamento sanzionatorio: infatti se quello risultante dall’intervento di depenalizzazione fosse più favorevole, sarebbe lecito applicarlo retroattivamente.

Il problema sorge con le nuove sanzioni amministrative che spesso non favoriscono il reo, anzi tendono a peggiorare il trattamento riservatogli ogni volta in cui si articolano in sanzione principale, interdittiva, accessoria e conseguente pubblicità del provvedimento sanzionatorio. Non è raro infatti che l’apparato sanzionatorio amministrativo sia più severo rispetto a quello penale.

Ciò è quanto è accaduto con il nuovo articolo 187 sexies del T.U.F. il quale, introdotto da una legge di depenalizzazione delle condotte di abuso di informazioni privilegiate commesse dagli insider secondari, prevedeva anche la confisca per equivalente.

La Corte Costituzionale si è così pronunciata anche in merito alla suddetta questione, introducendo dei limiti di compatibilità del principio esaminato rispetto agli interventi di depenalizzazione, che non devono essere automaticamente considerati più favorevoli rispetto alla situazione precedente. Tra la norma penale e quella di depenalizzazione si realizza, infatti, un fenomeno di successione di leggi nel tempo, dove talvolta la sanzione amministrativa presenta una carica afflittiva addirittura maggiore di quella penale.

Nel caso di specie, si è potuto assistere ad un mutamento sfavorevole del trattamento sanzionatorio riservato agli autori dell’illecito, nel momento in cui la confisca per equivalente si considerava applicabile anche ai fatti anteriori.

Dunque, la Corte Costituzionale ha introdotto la necessità di una valutazione complessiva che il giudice deve di volta in volta compiere, mediante un raffronto del regime sanzionatorio sancito dalla legge di depenalizzazione e quello previsto dalla legge ad essa anteriore, al fine di individuare quale sia tra i due non solo apparentemente, ma anche effettivamente più favorevole.

Difatti, il regime sanzionatorio previsto dall’art. 187 sexies è stato dichiarato illegittimo a causa del contrasto con gli artt. 25.2 Cost., 117.1 Cost. e 7 CEDU, nella parte in cui imponeva l’applicazione della confisca per equivalente ai fatti commessi prima della depenalizzazione dell’illecito.

Ne deriva l’importante assunto secondo il quale è possibile derogare la retroattività della lex mitior quando questa, pur essendo più favorevole nel momento in cui realizza la depenalizzazione sostituendo l’illecito penale con uno amministrativo, non lo è relativamente al trattamento sanzionatorio, ragion per cui depenalizzazione non implica necessariamente mitigazione.


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