Il principio di rieducazione come principio fondamentale del condannato

Il principio di rieducazione come principio fondamentale del condannato

Il principio di rieducazione della pena è uno dei capisaldi della nostra Costituzione e del nostro ordinamento penale, in quanto tende a vedere il reo non come un soggetto irrecuperabile da punire a priori, ma come una persona in grado di riabilitarsi per poter, un giorno, essere riammesso nella società.

L’art. 27, co. 3 Cost. sancisce questo principio: “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato“.

Questo principio fa parte di un ordinamento prettamente garantista, cioè un principio dello stato di diritto che si estrinseca nell’insieme di garanzie costituzionali che tutelano le libertà fondamentali dei cittadini nei confronti del potere pubblico e giudiziario, in contrasto con la visione giustizialista che tenderebbe a giudicare rapidamente ed in maniera molto più severa il presunto colpevole, privandolo di fatto di tutte quelle garanzie sopradette.

Per ciò che concerne il principio in oggetto, la pena deve avere, dunque, una duplice funzione: da un lato, la rieducazione in senso stretto, cioè la riabilitazione del reo che gli permette di venire riammesso nella società civile evitando di commettere ulteriori illeciti; dall’altro la intimidazione-neutralizzazione del soggetto ritenuto pericoloso, che viene allontanato dalla società in modo da poter compiere il percorso riabilitativo.

Verrebbe da chiedersi, allora, come possa la pena dell’ergastolo essere impostata secondo questa concezione, dato che non prevede la riammissione nella società.

Cominciamo col dire che l’ergastolo non è né previsto né vietato dalla Costituzione (come lo è invece la pena di morte, espressamente vietata dall’art. 27, co. 4), ma è previsto dalla legge come pena di delitti di particolare gravità, quindi in questo “limbo” la sua compatibilità può essere condivisa o meno, ma comunque trova uno spazio di applicazione.

La compatibilità tra l’ergastolo e l’art. 27 Cost., inizialmente è stato sostenuto dalla giurisprudenza interpretando il concetto di “rieducazione” stesso in modo ristretto, intendendolo non come risocializzazione e quindi reinserimento nella società, ma più che altro come catarsi, cambiamento interiore, ritenuto possibile anche all’interno del carcere a vita.

Sicuramente, però, ci sono ancora dei contrasti ideologici sulla infinitezza della pena e sul concetto di rieducazione in senso stretto, che di fatto precludono il condannato da una redenzione completa da poter mettere in pratica.

Ad esempio, nel caso dell’ergastolo cd. “ostativo”, cioè che osta alla concessione di benefici penitenziari del condannato per reati di particolare gravità in mancanza di collaborazione con la giustizia (introdotto dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992), la Corte Costituzionale si è espressa alla luce della sentenza del 13 giugno 2019 della Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza n. 253 del 23 ottobre 2019, dichiarando che “la presunzione assoluta di pericolosità sociale del condannato, sulla base dell’assunto che il rifiuto di collaborazione equivalga a perdurante pericolosità, è illegittima, in quanto non solo irragionevole, ma in violazione dell’articolo 27, comma 3, della costituzione che sancisce la funzione rieducativa della pena ed implica, quindi, la progressività trattamentale e la flessibilità della pena, contro rigidi automatismi”.

Ma se viene dimostrato che il condannato non ha effettivamente margine di ripresa, l’ergastolo pare rimanere l’unico strumento in grado di garantire l’allontanamento del soggetto dalla società, garantendo allo stesso tempo che la sua pena porti al fine ultimo della rieducazione in ogni caso, mettendo a disposizione tutti i mezzi per la sua istruzione e per il lavoro all’interno dell’istituto penitenziario, nonché della sua redenzione.

La Corte Costituzionale si è espressa in questo con un’ulteriore sentenza la quale sancisce “in piena coerenza, soprattutto con l’assunto – sotteso allo stesso art. 27, terzo comma, Cost. – secondo cui la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile, ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Prospettiva, quest’ultima, che chiama in causa la responsabilità individuale del condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità, in linea con le esigenze minime di rispetto dei valori fondamentali su cui si fonda la convivenza civile, ma che non può non chiamare in causa – assieme – la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore – e la concreta concessione da parte del giudice – di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società” (Corte Costituzionale, sent. n. 149/18).

Da questa sentenza emerge ancora di più il connubio tra l’aspetto punitivo della pena e quello rieducativo, che dev’essere stimolato in tutti i modi possibili procedendo ad una trasformazione della visione del mondo del soggetto condannato, del suo modo di percepire sé stesso e gli altri all’interno di un contesto societario per poter scegliere il miglior comportamento da adottare nelle situazioni che gli si pongono davanti. È proprio questo il senso dell’art. 27, co. 3 Cost.: trasmettere questi valori in modo da poter garantire il vivere civile tra le persone, una volta espiata la pena del condannato. Rieducare è importante anche per la sicurezza della società stessa, in quanto significa avere un delinquente in meno, quindi lo Stato deve avere tutto l’interesse affinché questo principio venga rispettato, anche se di fatto, molto spesso, non è così. Molti sono gli episodi nell’ambiente carcerario che, purtroppo, lasciano da parte questo principio e sicuramente bisogna intervenire per far in modo che questo non rimanga solo un principio scritto, ma anche applicato per espletare quella che dovrebbe essere la sua ratio.


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Riccardo Polito

- Laureato in Giurisprudenza all'Alma Mater Studiorum di Bologna; - Praticante avvocato e consulente legale; - Appassionato di diritto, psicologia e musica.

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