Il provvedimento di aggiudicazione e il “contratto pubblico”. Una problematica convivenza

Il provvedimento di aggiudicazione e il “contratto pubblico”. Una problematica convivenza

Sommario: 1. Premesse – 2. L’aggiudicazione: confine dei due mondi. Effetti e termini dilatori – 3. Le conseguenze dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto nel frattempo concluso – 3.1. L’inefficacia doverosa del contratto nei casi di violazioni gravi e le doverose eccezioni – 3.2. La possibile inefficacia nei casi meno gravi. Critiche e lettura costituzionalmente orientata dell’art 122 cpa – 4. Le sanzioni alternative ex art 123 cpa e relative questioni applicative- 5. Ammissibilità dell’autotutela amministrativa a seguito della stipulazione del contratto alla luce del nuovo codice degli appalti, dlgs 50/2016 – 6. Conclusioni

1. Premesse

Secondo quanto previsto dal comma 1 bis dell’art 1 L 241/1990, aggiunto dalla legge di riforma 15/2005, nell’esercizio di attività di natura non autoritativa, gli apparati pubblici possono agire secondo le regole di diritto privato, sempre che la legge non disponga altrimenti.

Da tale norma in analisi, dunque, è facilmente comprensibile come la regola generale dispone che le pubbliche amministrazioni possano relazionarsi, con gli altri consociati, mediante gli strumenti proposti dal diritto privato.

In tali circostanze, gli apparati amministrativi si calano nella realtà privatistica, ponendosi al pari di qualsiasi persona fisica o ente privato.

Con questi ultimi, per esempio, le PPAA possono stipulare precisi rapporti contrattuali di diritto privato per il perseguimento di interessi generali prefissati dalla legge, ponendo in essere dei veri e propri “contratti pubblici”.

Tale ultima espressione, però, ha sollevato non pochi problemi interpretativi in dottrina.

Lo strumento contrattuale, di natura privatistica, infatti, è generalmente utilizzato dai singoli privati per il perseguimento degli propri interessi personali. Proprio a causa di questa sua funzionalità, quindi, risulta difficile definire “pubblico” un contratto di diritto privato.

Per cercare di giustificare l’utilizzo di tale terminologia, è opportuno concentrarsi sulla figura dell’apparato amministrativo, che stipula il contratto con il privato.

Quest’ultimo, a differenza del semplice privato contraente, agisce per il perseguimento di interessi generali, predisposti dalla legge.

Anche quando si limita a utilizzare strumenti di natura privata, la pubblica amministrazione è, infatti, tenuta ad agire per il perseguimento di specifici interessi di carattere generale, che in questo caso diventano il vero oggetto del contratto, il quale, grazie a ciò, non può non assumere un’essenza pubblica.

Il contratto, dunque, è considerato pubblico qualora ha come oggetto un particolare interesse generale, che l’apparato amministrativo, una delle parti dello stesso, si impegna a soddisfare, proprio attraverso l’utilizzo di tale strumento privatistico.

Nonostante tali precisazioni, ciò che può sembrare in antitesi, però, è il fatto che l’altra parte contrattuale, si impegni a contrattare con la pubblica amministrazione per il solo soddisfacimento dei propri interessi personali, i quali sono ontologicamente diversi e spesso opposti rispetto a quelli generali, perseguiti dall’azione pubblica dell’apparato amministrativo.

A prima lettura, infatti, sembrerebbe alquanto difficile immaginare un interesse personale del privato e un altro a carattere generale, perseguito dalla pubblica amministrazione, conviventi nel medesimo contratto.

Non poche sono state le occasioni in cui, infatti, ci si è chiesto se gli apparati amministrativi potessero materialmente perseguire il soddisfacimento di interessi generali, stipulando dei rapporti contrattuali con dei singoli privati, i quali, invece, agiscono con il solo scopo di soddisfare i propri interessi personali.

Tale quesito sembrerebbe oggi risolto dalla giurisprudenza, la quale ha puntualizzato che l’interesse personale del privato non è sempre e necessariamente contrastante con quello generale perseguito dalla PA, ma, anzi, può risultare conforme a questo, purché non sia in contrasto con l’interesse primario prefissato dalla legge.

Un tipo di contratto pubblico che spesso gli apparati amministrativi stipulano con singoli privati è quello di appalto di lavori, forniture o servizi.

In questo caso, però, la stipula effettiva del contratto è anticipata da una gara a evidenza pubblica, attraverso la quale la PA, ovvero stazione appaltante, deve individuare quale sia il privato, operatore economico, con cui concluderà il contratto pubblico.

La scelta del contraente, infatti, deve avvenire attraverso il rispetto di precise regole di diritto pubblico, che aiutano la stazione appaltante a individuare, tra tutti i partecipanti alla gara pubblica, l’operatore economico più valido.

Questa, però, non è l’unica funzione della gara a evidenza pubblica: tale procedimento, infatti, è utile a garantire anche un maggiore rispetto rispetto di tutte le regole in materia di concorrenza, per concedere a tutti gli operatori economici maggiori e concrete possibilità non solo di partecipare a tali gare pubbliche, ma anche di vincerle.

La gara a evidenza pubblica, dunque, è un vero e proprio procedimento amministrativo, che si conclude con l’emanazione dell’aggiudicazione, provvedimento finale, attraverso il quale la stazione appaltante individua l’operatore economico con cui stipula, in un secondo momento, il contratto d’appalto.

Alla luce di ciò, l’aggiudicazione è un provvedimento che chiude una fase regolamentata da regole di diritto pubblico, aprendo le porte a un secondo momento, la stipula del contratto, che, invece, è disciplinato dalle norme di diritto privato.

Pur appartenendo a realtà giuridiche diverse, è facilmente intuibile come la gara a evidenza pubblica sia legata al contratto d’appalto pubblico da un filo logico e funzionale, che inevitabilmente rischia di spezzarsi ogni qualvolta il giudice amministrativo individua dei vizi che inficiano la gara pubblica.

Tale rischio diventa maggiormente concreto ogniqualvolta il giudice attribuisce al vizio una rilevanza tale da spingerlo ad annullare l’aggiudicazione, provvedimento finale della gara a evidenza pubblica.

L’eliminazione di tale provvedimento, infatti, comporta inevitabilmente delle conseguenze che si ripercuotono sul contratto d’appalto.

Non sempre, però, sono chiare tali conseguenze: più volte dottrina e giurisprudenza si sono interrogate circa le sorti del contratto pubblico dopo l’annullamento dell’aggiudicazione, che chiude la gara a evidenza pubblica.

2. L’aggiudicazione: confine dei due mondi. Effetti e termini dilatori

Prima ancora dell’introduzione nell’ordinamento giuridico del vecchio codice degli appalti, dlgs 163/2006, l’aggiudicazione assumeva un duplice valore: da un lato, era considerata come vero e proprio atto amministrativo di chiusura del procedimento a evidenza pubblica; dall’altro, invece, l’art 16, comma 4, della legge sulla contabilità di Stato, RD 2440/1923, attribuiva all’aggiudicazione il valore di atto negoziale, attraverso il quale la PA riusciva a esprimere la sua volontà di accogliere l’offerta presentata dal privato.

In quest’ultimo caso, quindi, la sottoscrizione del contratto assumeva valore meramente riproduttivo di volontà negoziali già manifestate.

Tuttavia la giurisprudenza si è più volte impegnata a mitigare tale previsione normativa.

Con un’importante sentenza pronunciata nel 1998 a Sezioni Unite, per esempio, la Corte di Cassazione ha stabilito che, nonostante il disposto previsto dall’art 16, comma 4 RD 2440/1923, la PA ha comunque la possibilità di valutare discrezionalmente l’interesse pubblico in gioco e, di conseguenza, di posticipare la costituzione del vincolo contrattuale al momento della sottoscrizione del contratto, senza che lo stesso apparato amministrativo si trovi vincolato già all’emanazione dell’atto di aggiudicazione.

Il registro cambia totalmente con l’emanazione del vecchio codice degli appalti, il quale, all’art 11, stabiliva che l’aggiudicazione definitiva segna la fine di un preciso momento regolamentato dalle norme di diritto pubblico, giuridicamente sciolto dalla seconda fase privatistica, in cui si conclude il contratto e avviene la sua esecuzione.

Già con il vecchio dlgs 163/2006, infatti, l’aggiudicazione era valutata come provvedimento conclusivo del procedimento della gara a evidenza pubblica, senza assumere valore di accettazione dell’offerta dell’operatore economico, come avveniva in passato.

Tale concezione di atto amministrativo è oggi ribadito anche con il nuovo codice degli appalti, dlgs 50/2016, il quale, all’art 32, considera l’aggiudicazione come provvedimento finale della gara a evidenza pubblica, proprio come l’art 11 del vecchio codice degli appalti.

Secondo quanto disposto dall’art 32, comma 7, dlgs 50/2016, il provvedimento di aggiudicazione comincia a riprodurre i propri effetti solo qualora la PA, stazione appaltante si pronunci positivamente alla fine della valutazione dei requisiti dell’aggiudicatario.

In base alla normativa in analisi, quindi, subito dopo che l’apparato amministrativo abbia emanato l’aggiudicazione, lo stesso, deve impegnarsi in un vero e proprio sub procedimento, durante il quale la stazione appaltante analizza le caratteristiche dell’aggiudicatario, concentrandosi sull’individuazione dei requisiti considerati dalla legge necessari, affinché il contratto possa essere correttamente stipulato.

Tale sub procedimento, quindi, si conclude con un atto, il quale può essere negativo o positivo, circa la sussistenza dei su indicati requisiti dell’aggiudicatario.

Non sono mancati i dubbi circa l’effettiva natura dell’atto in questione: non è chiaro, infatti, se sia opportuno riconoscergli una certa autonomia, oppure considerarlo giuridicamente legato all’aggiudicazione.

La maggioranza della dottrina appoggia questa seconda tesi, considerando l’atto, che chiude il sub procedimento in questione, non solo logicamente e funzionalmente, ma anche giuridicamente collegato all’atto dell’aggiudicazione, del quale ne condiziona gli effetti.

Considerando ciò, è più facile ora capire come l’aggiudicatario può tutelare i propri interessi, qualora la stazione appaltante si pronunci con un atto negativo, attraverso il quale la stessa dichiari l’insussistenza dei requisiti richiesti, bloccando, di fatto, la riproduzione degli effetti dell’aggiudicazione e la conseguente stipula del contratto.

In tale circostanza, infatti, dato che non è attribuita all’atto negativo alcuna autonomia, quest’ultimo, di conseguenza, non riproduce alcuno effetto diretto nei confronti dell’aggiudicatario, il quale può muovere ricorso solamente avverso l’aggiudicazione, vero e unico provvedimento finale del procedimento della gara a evidenza pubblica.

In definitiva, l’atto in questione che chiude il sub procedimento di valutazione dei requisiti dell’aggiudicatario è semplicemente una condizione sospensiva degli effetti dell’aggiudicazione.

Il sub procedimento di valutazione dei requisiti può anche svolgersi durante il periodo di pendenza del primo termine dilatorio, previsto oggi dal comma 9 dell’art 32 dlgs 50/2016, che decorre dall’emanazione dell’aggiudicazione.

Entro questo termine di trentacinque giorni, già introdotto nel vecchio codice degli appalti dal dlgs 53/2010, che recepisce la direttiva 2007/66/CE, la stazione appaltante non può stipulare il contratto con l’aggiudicatario.

Lo scopo di tale previsione normativa è certamente quello di concedere al terzo non aggiudicatario la possibilità di presentare eventuali ricorsi, prima che sia stipulato il contratto tra stazione appaltante e aggiudicatario.

Da parte sua, il terzo ha la possibilità di presentare eventuali ricorsi avverso il provvedimento di aggiudicazione entro il termine ridotto di trenta giorni, invece di quello normale di sessanta giorni.

Alla luce di ciò, il legislatore intende concedere al terzo non aggiudicatario un periodo di tempo maggiore di cinque giorni, rispetto a quello previsto per il ricorso in giudizio, per garantirlo maggiormente, lasciandogli un tempo più largo per decidere come tutelare al meglio la propria posizione giuridica.

Oltre a ciò, questo primo termine dilatorio di trentacinque giorni è sicuramente utile per apprezzare di più la separazione delle due fasi: quella pubblicistica, che si conclude con l’emanazione dell’aggiudicazione, e l’altra privatistica, che avrà seguito allo scadere del termine dilatorio dei trentacinque giorni, i quali cominciano a decorrere dall’invio dell’ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione.

Tale termine dilatorio può non essere rispettato dalla stazione appaltante, la quale potrà stipulare il contratto con l’aggiudicatario prima della scadenza dei trentacinque giorni nei casi specificatamente indicati dal comma 10 dell’art 32 del nuovo codice e in tutti i casi in cui l’apparato amministrativo è tenuto a ottenere con urgenza l’esecuzione del contratto, per risolvere situazioni oggettivamente imprevedibili.

Il comma 11 dello stesso art 32 dlgs 50/2016 individua un altro termine dilatorio di venti giorni, entro il quale la stazione appaltante non può stipulare il contratto con l’aggiudicatario. Tale termine comincia a decorrere dal giorno in cui il terzo non aggiudicatario presenta ricorso avverso il provvedimento di aggiudicazione, allegando a esso anche una domanda cautelare. A partire da questo momento, quindi, la stipula del contratto non può avvenire, a patto che, stabilisce la norma in analisi, il giudice si sia pronunciato.

Tale termine dilatorio è stato introdotto dal legislatore per permettere al terzo aggiudicatario di evitare le spiacevoli situazioni in cui, pur avendo lo stesso presentato ricorso, nel frattempo la stazione appaltante, nonostante tale azione giudiziaria, decide comunque di stipulare il contratto con l’aggiudicatario, essendo, nel frattempo, regolarmente trascorso il primo termine dilatorio di trentacinque giorni.

Di segno opposto ai termini finora esposti, il comma 8 dell’art 32 dlgs 50/2016 stabilisce un ulteriore termini di sessanta giorni, entro il quale è previsto, in capo alla stazione appaltante, l’obbligo di concludere il contratto; tale termine decorre dal giorno in cui l’aggiudicazione diventa definitiva.

La norma in questione è prevista a tutela degli interessi dell’aggiudicatario, il quale è certamente intenzionato a stipulare il contratto nel più breve tempo possibile.

Alla luce di ciò, qualora, allo scadere del termine, la stazione appaltante non abbia rispettato l’obbligo imposto, l’aggiudicatario, secondo quanto previsto sempre dal comma 8 dell’art 32 in analisi, ha la possibilità di sciogliersi unilateralmente da qualsiasi vincolo che lo lega all’apparato amministrativo inadempiente.

Nel caso in cui l’aggiudicatario decide di avvalersi di questo potere, non avrà diritto a un indennizzo, salvo il caso in cui non gli spetti il rimborso per delle spese affrontate per l’esecuzione dei lavori cominciati in anticipo, a causa di oggettive esigenze d’urgenza.

In tali circostanze, il problema che si è posto è quello relativo all’assenza della posizione giuridica vantata dall’aggiudicatario nel periodo compreso tra il momento di efficacia dell’aggiudicazione e quello di conclusione del contratto.

Tale posizione giuridica, infatti, può essere considerata come diritto soggettivo, ovvero come interesse legittimo.

Qualora sia accolta la prima tesi, l’aggiudicatario può, a tutela del proprio diritto, esercitare un’azione giuridica ex art 2932 cc, attraverso la quale potrà ottenere una sentenza del giudice, che assume lo stesso valore del contratto non concluso.

Nel caso in cui la tesi preferita sia la seconda, invece, l’aggiudicatario, per tutelare il proprio interesse legittimo, può rivolgersi al giudice amministrativo, secondo quanto disposto dall’art 117 cpa, ottenendo così la condanna della PA alla sottoscrizione del contratto.

Pur non essendo la dottrina del tutto convinta della bontà di tale ultima tesi in analisi, la giurisprudenza, sul piano applicativo, tende a seguire il rito del silenzio previsto proprio dall’art 117 cpa.

3. Le conseguenze dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto nel frattempo concluso

Come qualsiasi provvedimento finale, riproduttore di effetti che si estendono in maniera diretta su precisi destinatari, l’aggiudicazione può essere sottoposta ad annullamento, qualora siano rilevati i requisiti necessari per attivare tale azione.

Il problema si pone, però, in tutti quesi casi in cui l’aggiudicazione sia annullata dopo che il contratto sia stato stipulato tra stazione appaltante e privato aggiudicatario.

In tale circostanza, infatti, ci si chiede quale possa essere la sorte del contratto: cioè se quest’ultimo possa continuare a riprodurre i propri effetti, nonostante sia venuto a mancare un atto amministrativo funzionalmente legato all’atto contrattuale, ovvero se debba essere considerato invalido e, dunque, possa essere conseguentemente eliminato.

Prima che il legislatore si impegnasse a fissare un punto fermo sulla questione con l’emanazione del dlgs 53/2010, in dottrina e giurisprudenza circolavano varie tesi, le quali cercavano di spiegare quale potesse essere il modo giusto di affrontare la questione appena esposta.

Secondo un primo orientamento, per esempio, dopo l’annullamento dell’aggiudicazione, la stazione appaltante, in quanto soggetto legittimato, avrebbe potuto esercitare una specifica azione di annullamento disciplinata dalle norme di diritto privato; ciò grazie al fatto che quello della conclusione del contratto, insieme alla successiva esecuzione, è un momento privatistico e, come tale, deve essere disciplinato proprio dalle norme di diritto privato.

Una seconda tesi, non lontana dalla prima, valutava come possibile la realizzazione di una azione di nullità avverso il contratto rimasto in piedi, esercitabile, quindi, da chiunque ne avessi interesse.

Non mancavano, inoltre, coloro i quali ritenevano che l’aggiudicazione fosse inscindibilmente connessa al contratto. Alla luce di ciò, qualora la prima fosse annullata, il secondo cadrebbe automaticamente, senza che ci fosse bisogno di alcuna declaratoria.

Secondo una quarta tesi, infine, l’annullamento dell’aggiudicazione determinava un caso speciale di inefficacia relativa del contratto, il quale può essere annullato solamente quando la buona fede del contraente privato non fosse lesa.

Tutte queste teorie, che hanno cercato di dare una risposta alla questione in analisi, sono state, però, superate grazie dapprima alla direttiva europea 2007/66/CE, definita anche direttiva ricorsi.

La direttiva in questione ha obbligato i legislatori di ogni stato membro di occuparsi, in maniera chiara e definitiva, della sorte del contratto stipulato da stazione appaltante e aggiudicatario, qualora l’aggiudicazione fosse stata annullata per la presenza di qualche vizio.

Il legislatore italiano si impegna a recepire tale direttiva attraverso il su indicato dlgs 53/2010, con il quale sono state introdotte una serie di norme all’interno del vecchio codice degli appalti.

Con l’emanazione del decreto di recepimento della direttiva ricorsi, infatti, il dlgs 163/2006 si è arricchito degli artt 245 bis e seguenti, i quali, però, sono stati presto trasferiti nel successivo codice del processo amministrativo e precisamente negli artt 121 e seguenti dlgs 104/2010. Da ciò è facilmente intuibile l’intenzione del legislatore di considerare la questione in analisi di natura pratico-processuale, anziché teorico-sostanziale.

In via generale, la normativa introdotta attribuisce al giudice amministrativo, che ha annullato l’aggiudicazione, a volte l’obbligo, altre volte la facoltà, di dichiarare inefficace il contratto nel frattempo stipulato tra stazione appaltante e privato aggiudicatario.

Il primo caso, in cui è previsto l’obbligo di dichiarare inefficace il contratto, è previsto in una serie di casi specifici, individuati dall’art 121 cpa, definiti come violazioni gravi.

La dichiarazione di inefficacia, invece, non è obbligatoria in tutti gli altri casi, diversi da quelli individuati dall’art 121 cpa, come previsto dal successivo art 122 cpa.

3.1. L’inefficacia doverosa del contratto nei casi di violazioni gravi e le doverose eccezioni

Andando più nello specifico, le violazioni gravi previste dal comma 1 dell’art 121 cpa, che determinano la necessaria dichiarazione di inefficacia del contratto, sono riconducibili in due grandi gruppi.

Il primo è caratterizzato dai casi individuati dalle lettere a) e b) della norma in questione: in questi casi, la dichiarazione di inefficacia del contratto è doverosa qualora la gara a evidenza pubblica si è realizzata e conclusa, senza che prima ci sia stata la pubblicazione di un regolare bando.

Le violazioni gravi disciplinate dalle lettere c) e d), invece, sono quelle che si manifestano nei casi in cui la stazione appaltante abbia stipulato il contratto senza rispettare, però, i termini dilatori previsti dall’art 32 dlgs 50/2016.

In queste ultime circostanze c’è da fare un’osservazione: la violazione dei termini dilatori non pregiudica, ex se, l’aggiudicazione, la quale, essendo stata emanata prima dell’effettiva violazione, non può essere stata destinataria di effetti invalidanti retroattivi eventualmente riprodotti dal mancato rispetto dei termini dilatori.

Alla luce di ciò, qualora il giudice si trovi a dover dichiarare l’inefficacia del contratto per mancato rispetto dei termini dilatori, lo stesso deve innanzitutto valutare l sussistenza di vizi propri dell’aggiudicazione, che hanno determinato l’esigenza di annullare l’atto in questione.

Fatte le dovute precisazioni, bisogna, però, chiarire un aspetto importante: qualsiasi sia la violazione grave, il contratto non può essere dichiarato inefficace, se prima l’aggiudicazione non è stata annullata.

Solo qualora il giudice amministrativo abbia annullato il provvedimento finale della gara a evidenza pubblica potrà, anzi dovrà, dichiarare inefficace il contratto qualora riconosca la sussistenza di uno delle violazioni gravi indicate dall’art 121 cpa.

Le violazioni in questione, quindi, non possono essere considerate violazioni di norme imperative che determinano ex se l’inefficacia del contratto: solo quando si manifesti la pregiudiziale amministrativa, caratterizzata dall’annullamento dell’aggiudicazione, si ottiene la dichiarare di inefficacia del contratto.

Il legame che, dunque, si crea tra annullamento dell’aggiudicazione e inefficacia del contratto è di connessione e di doverosità.

Il collegamento è di connessione perché l’interprete obbligato a dichiarare inefficace il contratto è lo stesso che in precedenza ha annullato il provvedimento di aggiudicazione.

Tale aspetto espressamente indicato dal legislatore, inoltre, aiuta a risolvere un problema che tanto ha fatto discutere dottrina e giurisprudenza, prima dell’emanazione del dlgs 53/2010: quello riguardane la giurisdizione prevista per il caso in analisi.

Prima del recepimento della direttiva ricorsi, infatti, studiosi e interpreti si interrogavano su chi fosse realmente legittimato ad affrontare il caso relativo alla sorte del contratto d’appalto pubblico, dopo l’annullamento dell’aggiudicazione.

Si contrapponevano le due tesi proposte da chi ritenesse che la giurisdizione spettasse al giudice ordinario e da chi, invece, considerasse più opportuno attribuire la giurisdizione al giudice amministrativo.

Grazie all’art 121 cpa, oggi è pacifico che debba essere il giudice amministrativo ad affrontare il caso relativo alle sorti del contratto, dopo l’annullamento dell’aggiudicazione.

Il legame, inoltre, è di doverosità, in quanto il giudice amministrativo, dopo aver annullato il provvedimento di aggiudicazione, è tenuto obbligatoriamente a dichiarare inefficace il contratto, qualora sussistano le violazioni gravi indicate dall’art 121 cpa.

Tale doverosità, però, comporta inevitabilmente un contrasto con il principio dispositivo, che governa il sistema del processo amministrativo.

Secondo tale principio, il giudice può pronunciarsi solo sulle questioni legate ai diritti o, in questo caso, agli interessi portati in giudizio dalle parti.

Nel caso in analisi, invece, il giudice si trova a dover pronunciarsi su una questione, che il ricorrente, terzo non aggiudicatario, in realtà non ha mai sollevato, né tantomeno ne ha formulato espressa richiesta nel proprio ricorso.

L’impasse può essere superato solo qualora si chiami in gioco l’interesse tanto caro all’esperienza europea: la concorrenza.

L’eliminazione del contratto nei casi di violazione grave, infatti, risulta essere necessaria proprio per tutelare il principio di corretta concorrenza, che, in questo caso, la direttiva 2007/66/CE intende preservare.

Solo se si prende in considerazione questo aspetto, tanto caro al legislatore europeo, si riesce, dunque, a giustificare il superamento del principio dispositivo di matrice nazionale.

Un altro aspetto molto criticabile, sempre legato al disposto dell’art 121 cpa è certamente quello relativo all’ampio potere discrezionale, che il legislatore ha inteso attribuire al giudice amministrativo circa gli effetti della dichiarazione di inefficacia del contratto.

Secondo quanto disposto dalla norma in analisi, infatti, il giudice amministrativo ha la possibilità di scegliere se rendere inefficace il contratto retroattivamente, oppure ex nunc.

La scelta in tal senso è presa del giudice amministrativo in maniera ampiamente discrezionale, anche in considerazione dei parametri, certamente non oggettivi, su cui il legislatore fa basare la decisione dell’interprete.

L’art 121 cpa, infatti, stabilisce che il giudice amministrativo può decidere di pronunciare una dichiarazione di inefficacia del contratto con effetti ex tunc, ovvero ex nunc, “in funzione della deduzione delle parti, della gravità della condotta della stazione appaltante o della situazione di fatto”.

Questi appena esposti, non sono certamente “parametri oggettivi”, di solito indicati dal legislatore per meglio indirizzare le decisioni del giudice.

In questo caso, invece, l’interprete deve far riferimento a criteri ampiamente elastici, che l’aiutano a prendere una decisione.

Concentrandosi sul parametro della condotta della stazione appaltante, per esempio, se l’interprete, prendendo in considerazione la gravità della condotta specifica assunta dalla PA, decidesse di dichiarare inefficace il contratto retroattivamente, in questo caso si troverebbe nella situazione paradossale in cui si crei, con la pronuncia, un maggiore svantaggio in capo all’altro contraente privato aggiudicatario, anziché alla stazione appaltante stessa.

In aggiunta a tali osservazioni, è importante sottolineare come questa decisione relativa agli effetti irretroattivi o ex nunc della dichiarazione di inefficacia del contratto risultano importanti anche per altre circostanze successive, legate proprio a tale pronuncia.

Se il giudice amministrativo decidesse, per esempio, per la retroattività della dichiarazione di inefficacia, inevitabilmente si pone la questione relativa all’eventuale arricchimento ingiustificato, per tutte le prestazioni fino a quel momento eseguite.

Tale decisione, circa la retroattività o meno della dichiarazione di inefficacia del contratto, è importante anche per ulteriori conseguenze: solo se il giudice decidesse per un’inefficacia ex nunc, lo stesso si troverebbe ad applicare anche le sanzioni alternative previste dall’art 123 cpa.

Tutto ciò per dimostrare che, nonostante l’importanza di tale decisione, dovuta dal fatto che la stessa sia strettamente legata alle conseguenze appena esposte, il legislatore ha comunque optato, in maniera forse irresponsabile, su parametri troppo elastici, sui quali fondare la decisione in questione.

Un altro caso in cui il legislatore attribuisce la possibilità giudice amministrativo di decidere in maniera ampiamente discrezionale, è quello previsto dal comma 2 dell’art 121 cpa.

Secondo quest’ultima norma, il giudice amministrativo può decidere di non dichiarare inefficace il contratto, nonostante la sussistenza delle violazioni gravi, qualora ritenga che solo la parte contraente sia in grado, a questo punto, di rispettare gli obblighi contrattuali.

Inoltre, il giudice può decidere in tal senso anche quando riconosce la sussistenza di alcuni interessi generali, i quali potrebbero essere lesi se il contratto fosse dichiarato inefficace.

Questo comma 2 dell’art 121 cpa, dunque, riconosce specifiche eccezioni alla regola generale, secondo cui, se il giudice amministrativo, dopo l’annullamento dell’aggiudicazione, individua alcune violazioni gravi puntualmente indicate dal comma 1 dello stesso art 121 cpa, è obbligato a dichiarare inefficace il contratto, nel frattempo concluso tra stazione appaltante e privato aggiudicatario.

Ma pure tali eccezioni si fondano su parametri certamente vaghi, che lasciano al giudice amministrativo ampia discrezionalità, la quale lascia pensare a un tipo di giurisdizione di merito, nonostante un parere, di segno contrario, pronunciato dal Consiglio di Stato.

Eppure, nonostante il parere in questione, il fatto che il giudice amministrativo si attivi per tutelare un interesse generale, lascia immaginare il suo operato simile a quello della normale azione procedurale, promossa da un qualsiasi apparato amministrativo.

In senso contrario a tale conclusione, si potrebbe opporre il fatto che, in questo caso, la decisione del giudice amministrativo trova come oggetto un contratto, non certo un atto amministrativo come accade nel caso di giurisdizione di merito.

Tale ultima opposizione può far sorgere certamente diversi contrasti con principi costituzionali, i quali, però, anche in questo caso, possono essere superati considerando che tale circostanza è espressamente prevista dalla direttiva 2007/66/CE, a tutela del principio della tutela della concorrenza.

Infine, un’altra eccezione alla doverosa dichiarazione di inefficacia del contratto nei casi di violazioni gravi è prevista dall’ultimo comma dell’art 121 cpa.

La norma in questione stabilisce che, qualora la violazione grave sia caratterizzata dalla mancata pubblicazione del bando obbligatorio, il giudice può esimersi dal dichiarare inefficace il contratto se la stazione appaltante, prima della stipula del contratto, abbia pubblicato una espressa dichiarazione, rendendo nota alla collettività l’esigenza di agire di far fronte a evidenti e oggettivi motivi di urgenza. Il contratto, in questo caso, non è sottoposto a dichiarazione di inefficacia, sempre che, però, la stazione appaltante abbia concluso lo stesso non prima di dieci giorni dalla pubblicazione in questione.

L’ultimo comma dell’art 121 cpa, dunque, dimostra che talvolta, pur in presenza di violazioni gravi, non è scontata la conseguente dichiarazione di inefficacia del contratto, purché si riesca a compensare, in qualche modo, alle mancanze che determinano le stesse violazioni gravi.

In questo caso, per esempio, la stazione appaltante, pur non avendo pubblicato il bando, riesce comunque a compensare tale mancanza attraverso la pubblicazione della su indicata informativa relativa alla sussistenza dei motivi d’urgenza. Grazie a ciò, dunque, l’apparato amministrativo riesce comunque a coprire la finalità dell’evidenza pubblica, che caratterizza il bando.

3.2. La possibile inefficacia nei casi meno gravi. Critiche e lettura costituzionalmente orientata dell’art 122 cpa

Nell’affrontare tutti gli altri casi, diversi dalle violazioni gravi, la direttiva ricorsi ha concesso ai vari legislatori nazionali dei singoli Stati membri un’ampia libertà di scelta per la strada da intraprendere.

Il legislatore italiano, infatti, al momento del recepimento della direttiva 2007/66/CE, poteva scegliere di affrontare tali violazioni non gravi riconoscendo la piena inefficacia del contratto, una sua totale efficacia, ovvero intraprendere una terza via, optando per una possibile inefficacia a seconda dei casi.

Qualora il legislatore nazionale avesse scelto la prima strada, disponendo in tal senso l’inefficacia doverosa anche in questi casi, avrebbe sollevato un chiaro contrasto costituzionale con il principio di proporzionalità: anche in queste circostanze, diverse dalle violazioni gravi già affrontate nell’art 121 cpa, il giudice amministrativo sarebbe stato obbligato a dichiarare l’inefficacia del contratto. In questo modo, sarebbero previste medesime conseguenze per circostanze diverse.

La strada intrapresa dal legislatore nazionale, dunque, è stata quella che può essere definita terza via: secondo quanto previsto dall’art 122 cpa, in tutte le situazioni diverse dalle violazioni gravi già affrontate dall’art 121 cpa, il giudice ha la possibilità di scegliere se sia più opportuno dichiarare inefficace il contratto oppure lasciarlo ancora in vita.

Attraverso tale soluzione, però, i contrasti costituzionali con il principio di proporzionalità non sono totalmente annullati.

Si consideri, in effetti, l’eccezione prevista dall’ultimo comma dell’art 121 cpa: in base a tale norma, il giudice amministrativo ha la possibilità di esimersi dal dichiarare l’inefficacia del contratto, qualora la stazione appaltante si sia impegnato a non impedire la reazione immediata dei diretti interessati.

Nel caso in analisi, si ricordi, il contratto non è dichiarato inefficace qualora la stazione appaltante, pur non avendo pubblicato il bando di gara a evidenza pubblica, abbia comunque reso possibile ai terzi interessati di intraprendere eventuali azioni giuridiche per tutelare le proprie posizioni giuridiche attraverso la pubblicazione di un avviso, con cui l’apparato amministrativo rende nota l’esigenza di stipulare il contratto nell’immediato, per far fronte a particolari urgenze. In tali circostanze, dunque, il contratto, pur essendo individuata una violazione grave, non è sottoposto a dichiarazione di inefficacia, sempre che lo stesso sia stato concluso non prima di dieci giorni dalla pubblicazione dell’avviso della stazione appaltante.

In questo caso, dunque, emerge l’intenzione del legislatore di non rendere inefficace un contratto stipulato in tutte quelle circostanze in cui comunque è concesso un margine temporale in cui i terzi interessati abbiano la concreta possibilità di sollevare ricorsi precisi, a tutela dei propri interessi oppure, eventualmente, dei propri diritti soggettivi.

Alla luce di ciò, lasciando piena discrezionalità al giudice amministrativo in tutti i casi di violazione non grave, caratterizzata dalla possibilità di scegliere se dichiarare o meno inefficace il contratto, così come previsto dall’art 122 cpa, ci si potrebbe trovare nelle situazioni in cui l’interprete decida di scegliere per l’inefficacia del contratto anche in quei casi in cui i terzi interessati abbiano avuto la possibilità concreta di tutelare le proprie posizioni giuridiche, circostanza in cui, invece, l’ultimo comma dell’art 121 cpa opta per la piena efficacia.

È alto, dunque, il rischio che si affrontino casi simili con conseguenze diverse, ponendo in essere un evidente contrasto con il principio costituzionale di proporzionalità.

Tutto ciò considerato, lascia immaginare che il legislatore meglio avrebbe scelto, se avesse disposto per la piena efficacia dei contratti in tutti questi casi di violazioni non gravi, lasciando, però, al terzo interessato ricorrente la possibilità di esercitare una specifica azione di risarcimento per i danni subiti.

Tralasciando tali osservazioni critiche della norma, l’art 122 cpa individua un potere discrezionale del giudice, che si concretizza nella scelta di dichiarare o meno l’inefficacia del contratto nei casi di violazioni non gravi, solo, però, quando si sia manifestata la pregiudiziale amministrativa: l’annullamento dell’aggiudicazione.

Come per i casi di violazioni gravi previsti dall’art 121 cpa, dunque, anche in quelli di violazioni non gravi risulta essenziale, per ottenere la dichiarazione di inefficacia del contratto, il precedente annullamento del provvedimento finale della gara a evidenza pubblica.

Dopo aver accertato la pregiudiziale, il giudice amministrativo può valutare la scelta migliore, decidendo se è più opportuno rendere il contratto inefficace oppure lasciare che riproduca ancora i propri effetti.

Tale scelta è effettuata prendendo in considerazione una serie di parametri individuati dall’art 122 cpa. Più precisamente, la norma in questione dispone che il giudice che annulla il provvedimento di aggiudicazione decide se rendere o meno inefficace il contratto “tenendo conto, in particolare, degli interessi delle parti, dell’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e della possibilità di subentrare nel contratto”.

Tuttavia, tali criteri di scelta sono abbastanza eterogenei, oltre a essere disposti in maniera certamente confusa, senza un ordine preciso, che permetti al giudice amministrativo di comprendere quale parametro sia da preferire, oppure quale sia l’ordine di disposizione di tali criteri per raggiungere le proprie conclusioni in maniera logicamente e giuridicamente indirizzata.

Relativamente ai contratti, il codice civile, in generale, individua precisamente tutti i presupposti legati agli stessi e le dovute conseguenze che si manifestano.

In questo caso, invece, la sorte del contratto sembra essere legata a una decisione presa dall’interprete in maniera totalmente discrezionale, presa senza precisi criteri di riferimento.

Seguendo un’interpretazione strettamente letterale della norma, quindi, facilmente possono insorgere preoccupanti frizioni con più principi di carattere costituzionale, questioni che non potrebbero essere risolte, in questo caso, neppure attraverso i richiami alla norma europea.

La direttiva 2007/66/CE, infatti, attribuendo al legislatore maglie abbastanza larghe di recepimento, lascia intendere che non c’è, in tali circostanze di violazioni non gravi, il rischio di ledere l’interesse di rilevanza europea: la tutela alla concorrenza.

A questo punto risulta fondamentale ricercare un’interpretazione orientata a evitare contrasti con qualsiasi principio costituzionale.

Utile in tal senso può essere estrapolare dall’art 122 cpa alcuni parametri oggettivi, che aiutino il giudice amministrativo a scegliere, circa l’efficacia o inefficacia del contratto, in maniera più chiara e costituzionalmente orientata.

Tali criteri oggettivi di scelta possono concretizzarsi, per esempio, nella valutazione della domanda giudiziale presentata dal ricorrente interessato; nel riconoscimento di effettive possibilità del ricorrente di ottenere l’aggiudicazione alla luce dei vizi rilevati; nell’analisi dello stato di avanzamento del rapporto contrattuale in questione; nella presenza di alcuni limiti definiti dalle posizioni giuridiche degli altri soggetti interessati.

Per quanto riguarda il primo criterio oggettivo, quello della valutazione della domanda del ricorrente, esso è riconducibile a due aspetti presenti nella norma di riferimento: l’art 122 cpa. In primo luogo, nel considerare il potere del giudice amministrativo che “stabilisce se dichiarare inefficace il contratto”, è facile comprendere che, in tali circostanze non gravi, il giudice deve valutare se pronunciarsi, o meno, per l’inefficacia del contratto. Alla luce di ciò, l’espressione letterale riportata aiuta a comprendere che la valutazione del giudice deve partire da una richiesta presentata, a monte, nel ricorso dal terzo interessato. Proprio la domanda giudiziale del ricorrente, infatti, spinge l’interprete a valutare, come previsto dall’art 122 cpa, se dichiarare o meno l’inefficacia del contratto.

È opportuno aggiungere che, proprio tale elemento oggettivo della valutazione della domanda giudiziale, è particolarmente utile per individuare la concreta sussistenza di un interesse del ricorrente, aspetto, quest’ultimo, pure richiamato dalla norma in analisi, la quale stabilisce che il giudice, nel prendere la propria decisione, deve considerare, tra l’altro, gli interessi di tutte le parti in gioco. Infatti, già dal fatto che il terzo interessato presenti, nella propria domanda giudiziale, la richiesta di rendere inefficace il contratto, si può ben comprendere come sia concreto un interesse dello stesso ricorrente in tal senso.

Il secondo parametro oggettivo, quello della concreta possibilità del ricorrente di ottenere l’aggiudicazione alla luce dei vizi rilevati, pure può essere ricondotto alla valutazione degli interessi delle parti in gioco, che il giudice amministrativo è tenuto a considerare per prendere la propria decisione. Ciò in quanto, qualora il ricorrente non abbia più, in concreto, la possibilità di ottenere una nuova aggiudicazione alla luce dei vizi rilevati, che determinano l’annullamento di quella precedente, non si vede come possa sussistere un interesse del ricorrente giuridicamente rilevante.

Inoltre, il terzo criterio oggettivo si dimostra presupposto utile per riconoscere la sussistenza del su indicato secondo parametro: infatti, per capire se c’è la concreta possibilità, per il ricorrente, di ottenere un nuova aggiudicazione, è utile valutare lo stato dell’esecuzione del contratto. Qualora l’esecuzione del rapporto contrattuale abbia nel frattempo raggiunto uno stadio molto avanzato, è difficile per il ricorrente ottenere una nuova aggiudicazione, in quanto, in tali circostanze, è certamente più facile che il contraente sia riconosciuto come unico soggetto capace di portare a termine l’esecuzione del contratto.

L’ultimo parametro oggettivo tra quelli in precedenza riportati è la presenza dei limiti caratterizzati dalle posizioni giuridiche dei soggetti in gioco.

Oltre quella del ricorrente già illustrata, le posizioni giuridiche rilevanti ai fini della decisione del giudice risultano essere quelle della stazione appaltante e dell’altro contraente privato aggiudicatario.

La prima rivendica certamente il suo interesse a non dover affrontare maggiori spese che possono eventualmente manifestarsi con la dichiarazione di inefficacia del contatto, la quale può comportare l’eventuale realizzazione di una nuova gara a evidenza pubblica.

Dal punto di vista del privato aggiudicatario, invece, la dichiarazione di inefficacia del contratto può in concreto ledere la propria buona fede soggettiva.

Qualora, dunque, il giudice amministrativo optasse per l’inefficacia, l’aggiudicatario si troverebbe nella posizione di esercitare un’azione di risarcimento avverso la PA, alla quale è attribuita un’evidente responsabilità precontrattuale.

Laddove, invece, l’interprete decidesse, sempre nei casi di violazione non gravi, di mantenere efficace il contratto, la buona fede soggettiva del contraente non subirebbe alcuna lesione.

La buona fede soggettiva, dunque, assume di certo grande rilevanza alla base della scelta del giudice, il quale potrebbe benissimo decidere di dichiarare efficace il contratto anche in presenza di tutti gli altri parametri indicati, che spingono verso una dichiarazione di inefficacia.

Alla luce di ciò, nel concentrarsi proprio sulla posizione del contraente privato, è facile intuire come sia più facile ledere la buona fede del contraente in tutti i casi di violazione non grave, in cui il terzo non aggiudicatario è messo in condizione di tutelare al meglio i propri interessi, grazie al fatto che la stazione appaltante abbia pubblicato il bando e rispettato i termini dilatori.

In tali circostanze, infatti, il contratto è concluso nella piena consapevolezza, in capo all’aggiudicatario, di aver rispettato tutte le norme in materia, concedendo, tra l’altro, piena possibilità al terzo non aggiudicatario di presentare ricorso per tutelare i propri interessi, finalità, quest’ultima, prefissata anche dalla stessa direttiva ricorsi che ha spinto il legislatore alla normativa in analisi.

Più in concreto, si potrebbe avere il caso in cui il contratto fosse concluso, tra stazione appaltante e aggiudicatario, dopo l’esatto scorrimento dei termini dilatori previsti dall’art 32 dlgs 50/2010; oppure quello in cui il rapporto contrattuale si instaura dopo una pronuncia del giudice che abbia respinto una domanda cautelare promossa dal terzo non aggiudicatario.

In entrambi i casi, nel secondo ancor di più del primo, si instaura, in capo all’aggiudicatario contraente, una piena consapevolezza della legittimità del contratto concluso con la stazione appaltante, rinforzando in misura certamente importante la posizione di buona fede soggettiva dello stesso contraente.

In conclusione, poiché è facile che, nelle violazioni non gravi previste dall’art 122 cpa, si manifestino tali circostanze appena descritte, può risultare molto difficile per il giudice amministrativo decidere di rendere inefficace il contratto, senza che la stazione appaltante si trovi a essere sottoposta a un’azione di risarcimento per lesione della buona fede soggettiva del contraente privato aggiudicatario.

4. Le sanzioni alternative ex art 123 cpa e relative questioni applicative

L’art 123 cpa introduce nell’ordinamento giuridico questa discussa figura delle sanzioni alternative, attribuendo al giudice amministrativo un ulteriore potere discrezionale, il quale non si basa, neppure in questa circostanza, su alcun solido e preciso presupposto normativo.

In effetti, la norma in analisi stabilisce che, in presenza di diversi presupposti, il giudice ha il potere-dovere di applicare tali sanzioni alternative alla stazione appaltante.

Le sanzioni in sé si strutturano in due diverse tipologie, che seguono, tra l’altro, funzioni differenti tra loro.

Un primo tipo di sanzione, infatti, è quella pecuniaria, prevista dalla lett. a) del comma 1, art 123 cpa. In questo caso la funzione che si intende perseguire, attraverso l’applicazione della stessa, è di tipo punitivo-afflittivo.

La sanzione prevista dalla lett. b) del comma 1, art 123 cpa, invece, prevede la riduzione dei tempi di esecuzione del contratto concluso. In tale circostanza è chiara la funzione parzialmente ripristinatoria della legalità evidentemente alterata.

Oltre le finalità, anche i destinatari di tali sanzioni alternative sono parzialmente diversi: se, infatti, il primo tipo di sanzione alternativa, quella pecuniaria, è rivolta a condannare principalmente ed esclusivamente la stazione appaltante, quella che dispone la riduzione dell’esecuzione del contratto, oltre all’apparato amministrativo, è indirizzata anche nei confronti dell’altro contraente privato, il quale subisce certamente degli svantaggi qualora il giudice disponesse la riduzione del contratto.

Secondo quanto disposto dal comma 1 dell’art 123 cpa, le sanzioni alternative in questione si applicano nei casi previsti dal comma 4 dell’art 121 cpa. Tale ultima norma fa riferimento ai casi di violazione grave, nei quali, però, in maniera eccezionale, il giudice non è obbligato a dichiarare il contratto inefficace, oltre a tutti quei casi in cui l’interprete decide per un inefficacia ex nunc.

Le sanzioni alternative, inoltre, devono applicarsi anche in tutti quei casi in cui la stazione appaltante abbia concluso il contratto senza rispettare i termini dilatori, non concedendo al terzo non aggiudicatario la possibilità di agire in giudizio a tutela dei propri interessi. In questo caso previsto dal comma 3 dell’art 123 cpa, inoltre, l’applicazione delle sanzione è dovuta anche in assenza dell’annullamento dell’aggiudicazione per vizi propri.

Alla luce di quanto appena descritto, è opportuno sottolineare che il comma 1 dell’art 123 cpa attribuisce al giudice amministrativo anche la possibilità di scegliere se applicare le sanzioni in analisi congiuntamente o meno.

Secondo la norma esposta, quindi, il giudice ha la possibilità di decidere se applicare entrambi i tipi di sanzione, pecuniaria e di riduzione dei tempi del contratto, oppure optare per l’applicazione di un solo tipo di sanzione alternativa.

Tale libertà di applicazione, però, deve essere letta in relazione ai presupposti: nel primo gruppo di casi, previsti dal comma 4 dell’art 121 cpa, infatti, la sanzione ripristinatoria non può certamente avere luogo. Ciò in quanto nei casi eccezionali in cui le violazioni gravi non dispongono l’inefficacia del contratto, lo stesso non può neppure subire una riduzione del proprio tempo di esecuzione; inoltre, nei casi in cui il giudice abbia optato per l’inefficacia ex nunc, di certo tale decisione rende impossibile l’applicazione della sanzione in analisi.

La riduzione del tempo di esecuzione del contratto, dunque, può concretamente applicarsi solo in quei casi previsti dal comma 3 dell’art 123 cpa, nei quali la stazione appaltante ha stipulato il contratto nel mancato rispetto dei termini dilatori, senza che, però, il giudice amministrativo abbi in precedenza annullato l’aggiudicazione per vizi propri.

Analizzando nello specifico il caso in analisi, però, ci si rende conto che in tale circostanza la stazione appaltante si sia macchiata di una mera violazione formale, la quale non è capace di rendere invalida l’aggiudicazione precedentemente emanata e neppure il successivo contratto nel frattempo concluso.

Alla luce di ciò, secondo parte della dottrina, difficilmente l’interprete deciderebbe di applicare la sanzione che dispone la riduzione del tempo di esecuzione del contratto, per punire una semplice violazione formale e procedurale.

Tuttavia, il mancato rispetto dei termini dilatori impedisce, di fatto, al terzo non aggiudicatario di presentare il ricorso, a tutela dei propri interessi, prima della conclusione del contratto.

È opportuno a questo punto ricordare che la direttiva ricorsi che ha portato il legislatore nazionale a introdurre nell’ordinamento giuridico italiano le sanzioni alternative in questione guarda con particolare attenzione la tutela della posizione del terzo non aggiudicatario.

Partendo da questa osservazione, quindi, la decisione del giudice di ridurre il tempo di esecuzione del contratto, nonostante il presupposto applicativo sia un mero vizio formale, non è del tutto priva di una valida giustificazione, che si manifesterebbe, in tal caso, proprio nella tutela della posizione giuridica del terzo non aggiudicatario.

Il potere applicativo che il legislatore attribuisce al giudice è la manifestazione di una vera e propria attività a funzione amministrativa, normalmente riconosciuta in capo alla pubblica amministrazione.

In questo caso, dunque, il giudice amministrativo, con l’applicazione delle sanzioni alternative, agirebbe in sostituzione degli apparati amministrativi, esercitando una vera e propria tutela giurisdizionale di merito.

Subito dopo l’introduzione di tali istituti nell’ordinamento interno, però, l’esercizio dei poteri in questione da parte del giudice era ricondotta alla mera tutela giurisdizionale esclusiva, ex art 133 cpa, previsione, questa, sostenuta anche dal Consiglio di Stato, il quale, in un proprio parere, sosteneva che l’applicazione delle sanzioni alternative da parte del giudice amministrativo non può essere ricondotta alla giurisdizione di merito.

Eppure tale ultima conclusione da sempre si è mostrata quella più scontata, tanto che pure il legislatore, in un secondo momento, si è convinto di risolvere tale impasse interpretativo.

Con il dlgs 195/2011, primo correttivo del codice del processo amministrativo, infatti, è stato subito modificato l’art 134 cpa, il quale ora stabilisce che nella giurisdizione di merito è ricompresa anche l’applicazione delle sanzioni alterative, ex art 123 cpa.

Tale soluzione, però, non risolve tutta una serie di problemi applicativi, che ancora oggi le sanzioni alternative si portano dietro.

La decisione di quale sanzione imporre, infatti, è anch’essa basata su presupposti molto elastici, che non permettono al giudice di esercitare il proprio potere sanzionatorio in misura precisa, oltre che funzionalmente orientata.

Poiché la norma non stabilisce quale sanzione debba essere applicata dati casi specifici, l’interprete potrebbe anche affrontare situazioni simili con conseguenze diverse, provocando imbarazzanti frizioni con il principio di proporzionalità.

A ciò si aggiunga che lo stesso giudice amministrativo, sciolto da riferimenti normativi precisi, potrebbe scegliere di applicare sanzioni, le quali non sono, in concreto, capaci di raggiungere il proprio scopo applicativo: quello, cioè, di disincentivare le stazioni appaltanti di porre in essere una di quelle violazioni gravi indicate dall’art 121 cpa.

Nell’applicazione delle sanzioni pecuniarie, infatti, il giudice potrebbe imporre alla stazione appaltante il pagamento di una somma di denaro non particolarmente elevata, la quale non è certamente capace di perseguire la funzione anzidetta.

Nel caso in cui fosse obbligato a pagare una somma non onerosa di denaro, l’apparato amministrativo potrebbe addirittura affrontare tale spesa considerandola come un semplice costo accettabile in vista di un vantaggio futuro maggiore.

Inoltre, considerando la natura pubblica della stazione appaltante, la sanzione si trova a gravare sulle tasche dei contribuenti, i quali, di fatto, finanziano direttamente le casse pubbliche dello stato, dalle quali è ricavata la somma da pagare.

L’assenza di presupposti applicativi precisi, comporta, tra l’altro, il rischio di ledere anche la buona fede del terzo contraente aggiudicatario.

Qualora, infatti, il giudice decidesse di applicare anche la sanzione alternativa che determina la riduzione dei tempi del contratto, inevitabilmente è chiamato in gioco il terzo aggiudicatario, il quale subirebbe un’ingiustificata lesione della propria posizione giuridica, a causa di un comportamento illegittimo posto in essere dalla stazione appaltante.

Un altro problema sorge in relazione al richiamo dell’art 73, comma 3 cpa, che il comma 2 dell’art 123 cpa effettua.

Secondo tale norma, qualora sia tenuto ad applicare le sanzioni alternative, il giudice amministrativo è obbligato a istituire il contraddittorio.

A tal proposito ci si chiede con chi debba essere istituito tale contraddittorio.

Il contraente aggiudicatario non è certamente parte in contrasto alla stazione appaltante, anzi, in alcune circostanze il primo può vantare gli stessi interessi dell’apparato amministrativo.

Laddove l’interprete, infatti, opti per l’applicazione di una sanzione di riduzione del contratto, è chiaro che l’aggiudicatario manifesti lo stesso segno di interesse negativo della stazione appaltante.

Questo aspetto, dunque, non permette di individuare nell’aggiudicatario un soggetto con il quale possa costituirsi un corretto contraddittorio, secondo le disposizioni dell’art 111 Cost.

Nemmeno il ricorrente può assumere, in tali circostanze, la figura di parte opposta alla stazione appaltante in un normale contraddittorio giuridico: il terzo non aggiudicatario, infatti, non ha alcun interesse affinché l’apparato amministrativo sia punito con le sanzioni alternative.

Paradossalmente, il contraddittorio dovrebbe istituirsi tra stazione appaltante e giudice amministrativo, il quale, in questo caso, assumerebbe le funzioni requirenti e quelle decisorie.

L’interprete, infatti, si troverebbe nella particolarissima situazione in cui debba formulare la contestazione e, allo stesso modo, decidere se applicare o meno la sanzione, situazione che, invece, non si manifesta in quei casi in cui ci si può contare su una diversa figura accusatoria, che permette di mantenere separati tali funzioni, requirente e decisoria, garantendo, di conseguenza, un corretto contraddittorio ai sensi dell’art 111 Cost.

Tale soluzione può essere certamente utile anche per un altro problema applicativo, che sorge dalla lettura del comma 8 dell’art 111 Cost.

Secondo tale norma, infatti, avverso le pronunce della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato è ammesso il ricorso alla Corte di Cassazione per le sole questioni di giurisdizione.

Alla luce di ciò, in quei casi in cui, in appello di fronte al Consiglio di Stato, il giudice decida di applicare le sanzioni alternative, dopo che il Tar, al contrario, non abbia riconosciuto alcun presupposto applicativo in tal senso, inevitabilmente si realizza un contrasto con l’art 24 Cost, in materia di diritto di difesa.

La stazione appaltate, infatti, non avrebbe la possibilità di tutelare affatto la propria posizione, in quanto si troverebbe privato di un grado di giudizio, utile per sollevare opposizioni avverso una sentenza che diventerebbe l’unica definitiva, a danno proprio dell’art 24 Cost e dell’art 113 Cost.

Tale ultima norma costituzionale, infatti, stabilisce che avverso le decisioni delle pubbliche amministrazioni, i destinatari hanno la possibilità di presentare sempre ricorsi a tutela dei propri interessi.

Considerando la portata sostanziale delle sanzioni alternative, si può giungere a considerare le stesse come veri e propri atti emanati da soggetti pubblici, sostituiti, in questo caso, dal giudice amministrativo, titolare di un potere funzionalmente amministrativo.

Le sanzioni alternative in analisi si trovano in contrasto anche al principio dispositivo, che governa il sistema giurisdizionale amministrativo.

Qualora il giudice disponga per l’applicazione di una sanzione ex art 123 cpa, infatti, si può notare come tale decisione è presa in maniera autonoma, senza, cioè, che sia presentata alcuna richiesta in tal senso da parte del ricorrente.

Il terzo non aggiudicatario, infatti, nel presentare il proprio ricorso non esprime certamente alcun interesse circa l’applicazione di una o più sanzioni alternative ai danni della stazione appaltante.

Per superare tale frizione con il principio dispositivo, parte della dottrina sostiene che l’applicazione delle sanzioni alternative è proiettata al soddisfacimento di alcune funzioni strettamente oggettive: la punibilità della stazione appaltante e il ripristino della legalità.

Tale tesi, però, si trova a essere in evidente contrasto con l’art 103 Cost, secondo il quale Tar e Consiglio di Stato “hanno giurisdizione per la tutela” degli interessi legittimi e, in casi espressamente previsti dalla legge, dei diritti soggettivi.

Le sanzioni alternative ex art 123 cpa, invece, si trovano a essere in contrasto a tale funzione di stampo costituzionale prevista dall’art 103 Cost, in quanto, come in precedenza esposto, tali figure sono piuttosto orientate al perseguimento delle funzioni oggettive della punibilità delle stazioni appaltanti e del ripristino della legalità violata.

Per riuscire a superare tutti questi problemi applicativi appena esposti, una parte della dottrina sostiene la tesi secondo cui sia opportuno attribuire a un soggetto, particolarmente autonomo, il potere di proporre l’applicazione delle sanzioni alternative in questione, secondo il modello giudiziale penale, in cui è presente la figura del pubblico ministero.

I sostenitori di tale teoria individuano l’organo in questione, capace di promuovere la proposta applicativa, nell’Autorità Indipendente dell’AVCP, ovvero l’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici.

5. Ammissibilità dell’autotutela amministrativa a seguito della stipulazione del contratto alla luce del nuovo codice degli appalti, dlgs 50/2016.

Quanto finora analizzato si riferisce al caso generale in cui il terzo non aggiudicatario, per tutelare i propri interessi, decide di presentare ricorso in giudizio per l’eliminazione dell’aggiudicazione e dell’intera gara, nonché del contratto che la stazione appaltante ha nel frattempo concluso con l’aggiudicatario.

È opportuno a questo punto analizzare un’altra differente fattispecie, relativa alla possibilità, in capo alla stazione appaltante, di esercitare il potere di autotutela, per ottenere l’annullamento o la revoca dell’aggiudicazione, anche dopo aver concluso il contratto con l’aggiudicatario.

Da sempre dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sul concreto esercizio di tale potere da parte dell’apparato amministrativo, raggiungendo soluzioni non sempre conformi tra loro.

Secondo un primo approccio alla questione, infatti, si sono ritenute applicabili al caso in analisi quelle stesse norme previste dal codice del processo amministrativo, gli artt 121 e seguenti cpa, in materia di eliminazione del contratto, grazie alla conseguente eliminazione dell’aggiudicazione.

Analizzando più da vicino le norme in questione, in realtà, si scopre che le fattispecie sono ben diverse: queste affrontano il caso in cui il giudice amministrativo, dopo l’annullamento dell’aggiudicazione, dichiari inefficace anche il contratto nel frattempo concluso tra stazione appaltante e aggiudicatario; la fattispecie oggetto della questione, invece, si sofferma sul potere della stazione appaltante di esercitare i propri poteri di autotutela verso il provvedimento finale della gara a evidenza pubblica, nonostante la conclusione del contratto.

Alla luce di ciò, sembrerebbe più opportuno soffermarsi sul rapporto che intercorre tra aggiudicazione e contratto finale, per scoprire la soluzione più giusta da adottare al caso in analisi.

Date tali perplessità interpretative, l’Adunanza Plenaria del Consiglio interviene per fare chiarezza con la sentenza 14/2014, attraverso la quale giunge alla conclusione secondo cui la stazione appaltante ha, in via generale, la possibilità di esercitare i propri poteri di autotutela, anche qualora intenda revocare o annullare un provvedimento di aggiudicazione in un momento successivo alla stipula del contratto finale.

Tuttavia, tale potere di autotutela è limitato qualora la legge disponga in tal senso.

Un caso in cui la legge, di fatto, limita il potere di autotutela della stazione appaltante è quello già previsto dall’art 134 del vecchio codice degli appalti, dlgs 163/2006.

Secondo tale norma, richiamata anche dalla stessa Adunanza Plenaria, nei casi di appalti dei soli lavori pubblici la stazione appaltante può recedere unilateralmente dal contratto concluso con l’aggiudicatario, salvo il dovere di concedere a quest’ultimo una somma di denaro pari alla spesa affrontata fino a quel momento in fase di esecuzione.

In questo caso, dunque, la stazione appaltante non può esercitare un potere di autotutela, di natura pubblicistico, caratterizzato dalla revoca del contratto, ma dovrà utilizzare uno strumento privatistico, secondo quanto era previsto dall’art 134 del vecchio codice degli appalti.

In conclusione, l’Adunanza Plenaria arriva a sostenere che la stazione appaltante ha sempre la possibilità di esercitare i poteri di autotutela, di stampo pubblicistico, messi a disposizione dall’ordinamento, salvo, tuttavia, in quei casi in cui la legge le impone di utilizzare altri strumenti privatistici, come il recesso, previsto dall’art 134 del vecchio codice degli appalti, per eliminare il contratto di appalto di lavori pubblici.

Tali conclusioni devono oggi essere riviste alla luce del nuovo codice degli appalti, dlgs 50/2016, il quale introduce diverse novità relative alla questione dei poteri di autotutela della stazione appaltante da esercitare nei confronti dell’aggiudicazione della gara di appalto.

A tal proposito, è opportuno sottolineare innanzitutto quanto disposto dall’art 109 dlgs 50/2016, che estende il potere, concesso alla stazione appaltante, di esercitare il recesso del contratto concluso con l’aggiudicatario anche nei casi di appalto di forniture e servizi.

I problemi interpretativi, però, sorgono in relazione all’art 108 del nuovo codice, che recepisce fedelmente quanto disposto dall’art 73 della direttiva 2014/24/UE, il quale attribuisce alla stazione appaltante un nuovo potere di risoluzione da esercitare non solamente nel caso dell’ingiustificato inadempimento dell’aggiudicatario in fase di esecuzione, così come previsto dal vecchio codice dlgs 163/2006, ma anche in altri casi.

Oggi, infatti, la stazione appaltante può risolvere unilateralmente il contratto pubblico anche qualora sopraggiungano delle modifiche sostanziali del contratto, che costringono a una nuova procedura a evidenza pubblica, nel caso in cui l’aggiudicatario sarebbe dovuto essere escluso dalla gara pubblica e, infine, qualora, durante lo svolgimento del procedimento amministrativo, si vìolino alcuni obblighi derivati dai trattati dell’Unione o dalla direttiva in precedenza esposta.

Tale nuovo potere di risoluzione concesso alla stazione appaltante è previsto, come si è avuto modo già di annunciarlo, dall’art 73 della direttiva 2014/24/UE, attraverso cui il legislatore europeo impone ai legislatori dei vari stati membri l’introduzione, nei diversi ordinamenti nazionali, proprio di questo potere risolutivo unilaterale a favore della stazione appaltante.

Nel recepire tale figura, però, i singoli legislatori nazionali hanno maglie abbastanza larghe: possono introdurre un qualsiasi strumento, di natura pubblicistica o privatistica, attraverso cui le stazioni appaltanti possano risolvere contratti pubblici nei casi particolarmente rilevanti indicati dalla stessa norma della direttiva europea.

Tuttavia il legislatore italiano non sfrutta tale libertà concessa dal legislatore europeo e decide di recepire in maniera automatica l’art 73 della direttiva 2014/24/UE, riprodotta in maniera fedele dall’art 108 dlgs 50/2016.

Tale automatismo, seppur permette all’Italia di evitare qualsiasi rischio di essere sottoposto a un processo di infrazione, non aiuta certo gli interpreti, i quali si trovano oggi ad attribuire alle stazioni appaltanti un potere di risoluzione di cui non è chiara la natura, nonché la maniera di applicazione più conforme ai principi generali, come quelli di natura costituzionale, che governano il sistema giuridico nazionale italiano.

Oggi, dunque, è più vivo che mai il dibattito circa l’effettiva natura di questo nuovo potere di risoluzione, che il codice degli appalti concede alle stazioni appaltanti.

Secondo una prima teoria, il potere di risoluzione unilaterale, che la stazione appaltante esercita nei casi previsti dall’art 108 dlgs 50/2016, non può non essere valutato come strumento privatistico.

I sostenitori di questa tesi ritengono che tale conclusione possa essere raggiunta in considerazione innanzitutto del nomen, il quale inevitabilmente rinvia al più conosciuto strumento di risoluzione contrattuale previsto nel codice civile. Altro aspetto da tenere in considerazione per avvalorare la tesi in esame è il mancato richiamo, da parte dell’art 108, dell’art 21 nonies L 241/1990, in materia di annullamento; richiamo, quest’ultimo, invece presente nell’art 176 dlgs 50/2016, che disciplina l’annullamento delle concessioni.

A questo punto sembrerebbe abbastanza chiara l’intenzione del legislatore di prevedere, insieme al recesso comunque disciplinato dall’art 109 dlgs 50/2016, un nuovo strumento a stampo privatistico, la risoluzione ex art 108 del codice.

Attraverso tali figure, il legislatore sembra, quindi, recepire a pieno quell’orientamento giurisprudenziale, secondo cui la fase esecutiva del contratto pubblico deve essere affrontata attraverso il riferimento di norme e strumenti a stampo privatistico, sterilizzando del tutto qualsiasi potere di natura pubblicistico, come può essere quello di autotutela delle stazioni appaltanti.

A sostegno di tale orientamento giurisprudenziale, si possono richiamare le importanti sentenze della Corte di Cassazione, pronunciate a Sezioni Unite: la 10160 del 2003 e la 29425 del 2008.

Questa teoria a stampo privatistico, però, si contrappone a quella sostenuta da chi in dottrina considera il potere di risoluzione come un potere di natura pubblicistica.

In base a questa seconda tesi, la risoluzione è un potere pubblico, attraverso il quale la stazione appaltante riesce ad annullare il provvedimento di aggiudicazione d’ufficio, anche nel caso in cui la stessa abbia nel frattempo già concluso il contratto con l’aggiudicatario.

Un punto che avvalora la teoria in analisi è certamente il richiamo dell’art 32 dlgs 50/2016, il quale, in materia di aggiudicazione, lascia intendere il fatto che sia comunque concesso alla pubblica amministrazione i suoi poteri di autotutela, non certo limitati nel periodo temporale compreso tra l’emanazione dell’aggiudicazione e la conclusione del contratto, ma esteso anche ai momenti successivi alla stipula contrattuale.

A sostegno di tale teoria, si può richiamare, anche in questo caso, l’art 176 dlgs 50/2016, in materia di cessazione delle concessioni.

La norma appena richiamata, infatti, concede alla stazione appaltante la possibilità di annullare le concessioni attribuite all’aggiudicatario, nei modi previsti dall’art 21 nonies L 241/1990, espressamente richiamato.

In tale circostanza, il potere di autotutela è esercitato dalla stazione appaltante negli stessi casi indicati dall’art 108 dlgs 50/2016, il quale utilizza la medesima terminologia riproposta anche dall’art 176 del nuovo codice degli appalti.

L’art 21 nonies L 241/1990, pur non essendo espressamente richiamato dall’art 108 dlgs 50/2016, può essere applicato anche nei casi in esso previsti, proprio perché sono gli stessi indicati anche dall’art 176 dlgs 50/2016, norma in cui il collegamento alla norma sull’annullamento d’ufficio è espressamente previsto.

Alla luce di queste assonanze, i sostenitori della seconda teoria pubblicistica in analisi ritengono che sia opportuno attribuire alla stazione appaltante i poteri di autotutela anche in quei casi in cui l’aggiudicazione debba essere annullata o revocata dopo la conclusione del contratto di appalto, poteri che sono, a questo punto, individuati proprio nella risoluzione ex art 108 dlgs 50/2016 di natura certamente pubblicistica.

Tra le due teoria appena esposte, se ne frappone una terza intermedia, che parte avvalorando le tesi di chi sostiene la natura pubblicistica del potere di risoluzione ex art 108 dlgs 50/2016.

Tuttavia coloro i quali sostengono questa terza teoria intermedia, riconoscono che, tra i casi previsti dall’art 108 del codice degli appalti, ce n’è uno in particolare, nel quale la stazione appaltante ha la possibilità di esercitare la risoluzione del contratto qualora sopraggiungano modifiche dell’oggetto del contratto.

La circostanza in questione, in realtà, non è caratterizzata da un vizio dell’aggiudicazione, che determina, a sua volta, la possibilità, in capo alla stazione appaltante, di esercitare i propri poteri di autotutela avverso il provvedimento finale della gara a evidenza pubblica.

In questo caso, infatti, la stazione appaltante con la risoluzione prevista dall’art 108, esercita un vero e proprio strumento privatistico per far fronte a una precisa situazione prevista dalla norma in analisi.

In conclusione, in base a quanto sostenuto da questa terza teoria, forse più precisa e completa, il potere di risoluzione esercitato dalle stazioni appaltanti, previsto dall’art 108 dlgs 50/2016, è uno strumento di natura prevalentemente pubblicistica, salvo i casi in cui, in relazione alle circostanze di applicazione, non può non essere stimato come strumento di natura privatistica.

6. Conclusioni

La questione relativa alla sorte del contratto pubblico, dopo l’annullamento del contratto, e quella logicamente legata a questa, relativa alla possibilità della stazione appaltante di esercitare i propri poteri di autotutela avverso il provvedimento di aggiudicazione dopo la conclusione del contratto, sono veri e propri quesiti giuridici che per anni hanno fatto discutere dottrina e giurisprudenza, le quali, spesso, non si sono trovati con soluzioni comuni.

Si ricordi, inoltre, che tali questioni, riferendosi alla generale tematica delle gare a evidenza pubblica, toccano interessi particolarmente rilevanti come quello della tutela della concorrenza, tanto caro all’ordinamento europeo.

Per questo motivo, come si è avuto modo di valutare, non sono mancati degli interventi del legislatore europeo, il quale pure ha arricchito, con le diverse direttive analizzate, il dibattito che nel frattempo infiammava a livello nazionale.

Tuttavia, bisogna riconoscere che i veri obiettivi delle direttive europee rimangono quelle di spingere tutti gli Stati membri ad adottare normative interne, che seguano i principi generali da queste previste.

In questo caso, per esempio, il legislatore europeo si è impegnato a imporre, attraverso le direttive, precise regole finalizzate a garantire una maggiore tutela dei principi di concorrenza nei particolari mercati in cui agiscono anche i soggetti pubblici.

Non è preciso interesse del legislatore dell’Unione Europea, dunque, quello di risolvere i problemi interpretativi che attanagliano la nostra realtà giuridica interna.

Tutt’al più è compito del legislatore nazionale italiano approfittare di questi “interventi dall’alto” del legislatore europeo e, alla luce delle novità riportate, prendere spunto per cercare di introdurre norme interne, non solo a passo con l’esperienza europeistica, ma anche più conformi ai dettami costituzionali interni.

Con le direttive 2007/66/CE e 2014/24/UE, invece, il legislatore non solo non ha colto tale opportunità, ma, anzi, è stato capace di ingarbugliare ancora di più i nodi.

Le norme interne che recepiscono tali direttive, infatti, rendono più complicato il lavoro di studiosi e giudici, i quali fanno molta fatica a garantire interpretazioni normative rispettose dei principi costituzionali e delle regole generali dell’ordinamento interno.

L’augurio che ci si pone in chiusura, dunque, è certamente quello di avere in futuro un legislatore nazionale più attento al rispetto di principi, costituzionali e non, al momento del recepimento delle direttive europee.


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