Il reato di atti persecutori nel codice penale italiano

Il reato di atti persecutori nel codice penale italiano

Premessa. L’art.612 bis, rubricato “Atti persecutori”, è stato inserito all’interno del nostro codice penale con il d.l. n.11 del 2009,  per rispondere ad un’esigenza di tutela della libertà morale del singolo e per perseguire, in particolar modo, l’obiettivo di assicurare a ciascun consociato una tranquillità psicologica, libera da eventuali disagi e turbamenti della psiche, derivanti dalla condotta illecita di un soggetto, condotta che si traduca in comportamenti molesti ed assillanti. La figura descritta dall’articolo in esame, è meglio  conosciuta con il termine “stalking”, vocabolo di derivazione inglese, tradotto letteralmente in italiano con l’espressione “perseguitare”. Nello specifico, la norma punisce il comportamento di chi, con condotte minacciose o moleste, ripetute nel tempo, provochi alternativamente in capo alla vittima, uno di tali eventi: uno stato d’ansia grave e perdurante, un fondato pericolo per l’incolumità propria o di un congiunto o di persona legata da vincoli affettivi, infine, la costrizione a modificare le proprie abitudini di vita. Il secondo e il terzo comma dell’articolo in commento, contengono delle ulteriori ipotesi o meglio, specificazioni della figura generale degli atti persecutori di cui al primo comma, che possiamo definire aggravate poiché pongono l’accento su una particolare qualifica, rivestita dal soggetto agente o da quello passivo del reato, o sull’utilizzo di specifici mezzi per l’esecuzione della condotta illecita, con conseguente inasprimento del regime sanzionatorio.

In particolare, il secondo comma individua come soggettivi attivi del reato: il coniuge, anche separato o divorziato, o la persona legata o che è stata legata alla vittima da relazione affettiva; inoltre, il comma in esame prevede un aggravamento di pena anche nel caso in cui, il soggetto attivo del reato si sia servito di mezzi informatici o telematici per la realizzazione della condotta criminosa. Il terzo comma invece, ricollega l’aggravamento di pena alla situazione di minorata difesa, in cui possono venire a trovarsi alcuni soggetti per definizione “deboli”, quali il minore, la donna in stato di gravidanza o la persona riconosciuta disabile a norma di legge, attribuendo altresì, natura aggravata alle ipotesi di condotta posta in essere con l’impiego di armi o al  comportamento illecito tenuto da una persona travisata.

Nonostante le particolari qualifiche o modalità di realizzazione della condotta contenute nel secondo e terzo comma dell’art.612 bis c.p., le quali delineano delle ipotesi aggravate, gli atti persecutori rappresentano un reato comune, a condotta necessariamente abituale – con la precisazione che la giurisprudenza maggioritaria ritiene che il fatto possa dirsi integrato con il compimento di due soli episodi di violenza o minaccia – a forma libera, in quanto tale figura criminosa può assumere le più disparate forme di manifestazione: dall’invio di sms, e-mail, messaggi di posta elettronica, parlandosi in tal caso di reato abituale improprio, poiché caratterizzato da comportamenti leciti, a condotte dal carattere diffamatorio o ingiurioso, ipotesi in cui ci troveremo in presenza di un reato abituale proprio, in quanto caratterizzato da fatti che costituiscono già di per sé reato. Trattandosi di un reato a condotta abituale, il momento di consumazione viene fatto coincidere con la cessazione della condotta illecita, e quindi, secondo l’orientamento prevalente, con la fine del secondo episodio produttivo dell’evento dannoso. Il tentativo è ammissibile e per la procedibilità del reato, si richiede la presentazione della querela da parte della persona offesa entro il termine di sei mesi, salvi i casi in cui sia il giudice a procedere d’ufficio.

Il reato di atti persecutori è inoltre, un reato di danno in quanto la norma in esame richiede che la condotta posta in essere dal soggetto agente, sia in grado di produrre un evento dannoso, esterno e percepibile nelle collettività sociale di cui la persona offesa fa parte. L’atteggiamento di minaccia o molestia assunto dal soggetto attivo del reato, si manifesta all’esterno mediante una serie di comportamenti, idonei a provocare un’interferenza nella vita dell’individuo e difficilmente sopportabili. In particolare questi comportamenti, come abbiamo già anticipato sopra, dovranno produrre alternativamente uno dei tre eventi descritti dall’articolo 612 bis c.p.:

– lo stato d’ansia o di paura grave e perdurante nella vittima della condotta persecutoria: il requisito della gravità presenta una componente soggettiva, la quale impedisce una determinazione del concetto a priori, avente carattere assoluto, richiedendosi pertanto, un’analisi caso per caso da parte del giudice; il secondo requisito, descritto con l’utilizzo del termine perdurante, vuole che tale stato psicologico si protragga nel tempo. Non vi è, inoltre, unità di vedute nell’individuazione del significato da attribuire all’espressione “stato d’ansia e di paura”. L’opinione prevalente, descrive tale stato come un mutamento capace di intaccare la stabilità psicologica dell’individuo, senza necessità che quest’ultimo alleghi una documentazione medica, comprovante la situazione patologica in cui viene a trovarsi; un’altra corrente di pensiero privilegia l’idea di alleggerimento dell’onere probatorio gravante sulla vittima e ritiene che dovrà essere il giudice, con il potere discrezionale che gli spetta, a valutare l’eventuale presenza dello stato d’ansia e di paura, tenuto conto delle particolari qualità e della condizione sociale della vittima, attribuendo pertanto, a tale stato un carattere soggettivo. Infine, altro indirizzo giurisprudenziale ritiene che lo stato d’ansia e di paura sia un requisito di natura oggettiva, che per poter dirsi integrato necessiterà di uno specifico accertamento medico-legale, in grado di dimostrare la sussistenza di un disturbo patologico in capo alla persona offesa del reato;

– il fondato timore per la propria incolumità o per quella di una persona legata alla vittima da una relazione affettiva: anche in tal caso, si richiede la presenza di uno stato d’ansia e di paura effettivo e concreto;

– la costrizione ad alterare le proprie abitudini di vita: la condotta posta in essere dal soggetto attivo del reato, dovrà essere di una portata tale da ingenerare nella vittima un forte senso di paura e di pericolo che si traduca irrimediabilmente, in un cambiamento del proprio stile di vita (ad esempio, la vittima decide di cambiare il percorso normalmente seguito, per raggiungere il luogo di lavoro).

La vicenda. Con sentenza n.31273 del 9 novembre 2020, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione si è occupata della figura delittuosa degli atti persecutori, con l’intento di chiarire e meglio specificare, l’ambito di rilevanza e di applicabilità della stessa, operando altresì, un raffronto con altre due fattispecie penali: il mobbing e la violenza privata. Il caso, oggetto della pronuncia, trae origine dall’impugnazione di un’ordinanza emanata dal Tribunale di Torino nel dicembre del 2019, con la quale era stata applicata la misura cautelare degli arresti domiciliari per il reato di cui all’art.612 bis c.p., all’amministratore delegato di una società, per avere egli tenuto una serie di condotte di carattere persecutorio nei confronti di una dipendente di detta società, responsabile dell’ufficio risorse umane. Occupandoci dei profili di merito del ricorso avverso tale ordinanza, la parte ricorrente lamentava un’errata qualificazione giuridica dei fatti, basandosi sull’assunto che questi risultassero – nel caso di specie – carenti degli elementi costitutivi le figure di cui agli artt.612 bis e 610 c.p., e di conseguenza, riteneva ingiustificata l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari.

La decisione. Nella sentenza in esame la quinta sezione della Corte di Cassazione, richiamando la giurisprudenza prevalente in materia giuslavoristica, afferma che, ai fini della configurabilità del reato di mobbing lavorativo, occorre la presenza di due elementi: un elemento obiettivo, che consiste in una pluralità di comportamenti vessatori posti in essere dal datore di lavoro, e un elemento soggettivo, che si traduce nel raggiungimento di uno specifico fine persecutorio da parte del datore, in grado di far leggere la condotta tenuta, come frutto di un disegno preciso ed unitario. Di mobbing si può allora parlare in relazione ad una reiterazione di condotte mirate, aventi come scopo quello di isolare e mortificare la vittima all’interno dell’ambiente lavorativo. Il dipendente, che ritiene di essere vittima di mobbing, dovrà fornire la prova del fatto che i plurimi comportamenti prevaricatori, posti in essere dal datore, siano il frutto di un disegno persecutorio caratterizzato dall’univocità.

La Corte fa un passo ulteriore ritenendo che, laddove tale atteggiamento persecutorio sfoci nella produzione di uno dei tre eventi, previsti dall’art.612 bis c.p., potrà allora dirsi integrato il reato di atti persecutori. Infatti, trattandosi di reato di danno e non di pericolo, ai fini dell’integrazione del delitto ex art.612 bis c.p., non basterà la semplice reiterazione del comportamento persecutorio, richiedendosi un quid pluris, cioè la produzione di una modifica forte e percepibile nella vita della persona offesa, secondo il nesso di causalità che lega condotta ed evento. Nucleo essenziale di tale figura delittuosa è pertanto, lo stato di prostrazione psicologica della vittima, derivante da una condotta illecita, capace di ledere il bene interesse tutelato dalla norma ovvero la libertà morale dell’individuo. La Corte inoltre chiarisce che, ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art.612 bis, risulta irrilevante il contesto, l’ambiente in cui viene posta in essere la condotta persecutoria.

Tenuto dunque conto che, nel caso in esame, la pluralità degli atti persecutori nei confronti della dipendente, aveva provocato uno stato d’ansia e di paura in capo alla stessa nonché un cambiamento delle proprie abitudini di vita, la Corte di Cassazione ha ritenuto integrato il delitto di atti persecutori.

Infine, per quanto riguarda il secondo motivo di doglianza, oggetto del ricorso, relativo alla configurabilità del reato di violenza privata previsto dall’art.610 c.p., la Corte, riprendendo un episodio narrato all’interno dell’ordinanza oggetto di impugnazione – secondo cui il datore di lavoro aveva posto in essere una vera e propria condotta di costrizione nei confronti della dipendente, allorquando aveva impedito alla vittima di lasciare l’ufficio, con conseguente intervento del 118 – ha ritenuto sussistenti gli elementi costitutivi di tale figura delittuosa. La Corte ha poi precisato che, tra il reato di violenza privata e quello di atti persecutori non sussiste un rapporto di specialità strutturale ex art.15 c.p., potendo dunque, configurarsi un’ipotesi di concorso tra le due figure. Infatti, il delitto di cui all’art.612 bis c.p. non richiede l’effettivo esercizio di violenza, limitandosi a prevedere un evento, quale è il cambiamento delle abitudini di vita di portata molto più ampia rispetto alla situazione di costrizione della vittima ad un comportamento specifico, circostanza quest’ultima richiesta ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art.610 c.p. Dunque, alla luce del ragionamento della quinta sezione della Corte di Cassazione, le doglianze di merito avanzate dalla parte ricorrente, non hanno trovato accoglimento.


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