Il rifiuto come bene giuridico

Il rifiuto come bene giuridico

Sommario: 1. Premessa – 2. Rifiuto e bene giuridico – 3. End of Waste – 4. L’End of Waste nell’ordinamento italiano

 

1. Premessa

La capacità di trasformare i rifiuti in risorse rappresenta il presupposto fondamentale per la transizione della nostra società ad un modello di economia circolare che sia in grado di ridurre significativamente l’impiego di risorse naturali nella produzione industriale, gli sprechi derivanti dal consumo di beni e il conseguente impatto ambientale.

Per favorire ed incentivare gli investimenti e la competitività del nostro paese nella gestione virtuosa dei processi di smaltimento dei rifiuti, è necessario disporre di una regolamentazione chiara, in grado di identificare in modo certo e inequivocabile obblighi e responsabilità che derivano dalla gestione dei rifiuti.

È altrettanto importante poter identificare con certezza i processi di trasformazione in grado di restituire al rifiuto il valore di bene giuridico, in uno scenario nel quale uno stesso elemento materiale è potenzialmente in grado di mutare ciclicamente la propria qualificazione giuridica.

2. Rifiuto e bene giuridico

Sappiamo che, secondo la definizione dell’art. 810 c.c., i beni sono le “cose che possono formare oggetto di diritto” e che, in tale disposto normativo, vanno rintracciate tutte le differenze con il concetto naturalistico di cosa.

Bene giuridico è, infatti, una cosa caratterizzata dall’utilità intesa come idoneità a soddisfare una necessità dell’uomo, dall’accessibilità intesa come idoneità ad essere suscettibile di appropriazione, dalla limitatezza intesa come disponibilità limitata in natura e dalla commerciabilità intesa come valore di scambio.

Le cose che non soddisfino uno o più dei sunnotati requisiti non possono essere considerate beni giuridici.

Assodate tali nozioni, la relazione che si stabilisce tra il bene e il soggetto diviene fondamentale per stabilire quando una cosa, intesa in senso naturalistico, assuma la qualificazione giuridica di bene e quando, al contrario, sia da considerarsi un rifiuto.

La relazione che qualifica un bene giuridico può configurarsi in termini di diritto (reale, di proprietà, di godimento) o come potere di fatto, ma ciò che rileva è che il bene sia riconducibile alla sfera di controllo di un soggetto che ne trae un vantaggio o un’utilità.

Ne consegue che il bene acquisisce la qualificazione giuridica di rifiuto quando fuoriesce dal dominio del soggetto che intenzionalmente se ne disfa, in assenza di un rapporto di scambio o di trasferimento, ritenendo di non trarre più alcun vantaggio o utilità dalla cosa, a prescindere dal suo valore e dalla sua utilità intrinseca.

La relazione giuridica del soggetto con la cosa non si esaurisce, però, all’atto dell’abbandono della stessa, ma perdura finché egli non abbia adempiuto a tutti gli obblighi previsti dalla legge per liberarsene[1].

Il perdurare della relazione giuridica del soggetto con il rifiuto va individuata nella necessita di contemperare l’interesse pubblico e privato. Infatti, così come la nozione di bene si sostanzia in una disciplina giuridica che ha lo scopo di garantire i diritti che un soggetto può vantare sulla cosa, con peculiare riguardo all’interesse privato, la nozione di rifiuto trova spazio in una disciplina giuridica che afferisce gli obblighi che sorgono nel momento in cui la cosa esce dalla sfera di controllo del soggetto, in un compendio normativo in cui divengono peculiari gli interessi pubblici ed, in particolar modo, la tutela dell’ambiente e della salute[2].

Principio cardine sul quale si fonda il permanere di relazioni giuridiche fra un soggetto ed il rifiuto da esso generato è il principio del “chi inquina paga”, introdotto nell’ordinamento nazionale dall’art. 178 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Codice dell’ambiente) e sancito a livello comunitario dal TFUE, all’art. 191, comma 2.

Tale principio stabilisce che i costi connessi all’uso delle risorse ambientali e ai fenomeni di inquinamento siano attribuiti ai soggetti che sono all’origine delle attività che impattano negativamente sull’ambiente, affinché queste non gravino sulla collettività, con la duplice finalità di contemperare il carattere preventivo e sanzionatorio della norma[3].

L’art. 15 della direttiva 2006/12/CE, in conformità con il principio del “chi inquina paga”, statuisce che “il costo dello smaltimento dei rifiuti deve essere sostenuto: a) dal detentore che consegna i rifiuti ad un raccoglitore o ad una impresa di cui all’articolo 9; e/o b) dai precedenti detentori o dal produttore del prodotto causa dei rifiuti”.

Il diritto dell’Unione Europea inquadra il detentore come la persona fisica o giuridica che è in possesso dei rifiuti[4], attribuendo centralità al rapporto materiale del soggetto con il rifiuto, indipendentemente dal titolo giuridico sottostante.

Da ciò discende che il divieto di abbandonare il rifiuto ed il conseguente obbligo di provvedere al corretto recupero e smaltimento dello stesso incombono sul soggetto che lo detiene.

L’art. 188 del Codice dell’ambiente, individua e circoscrive il perimetro della responsabilità in ordine al corretto trattamento del rifiuto, in base al soggetto a cui è attribuita l’appartenenza del rifiuto stesso. La responsabilità per la gestione è, così, attribuita al produttore iniziale o altro detentore che, salvo eccezioni, conservano la responsabilità anche quando i rifiuti siano trasferiti a soggetti terzi (intermediari, enti o imprese) che effettuano operazioni di trattamento.

Il comma 3 del sunnotato articolo prevede, tuttavia, un’esclusione di responsabilità per i soggetti che, mediante convenzione, affidino la raccolta ed il trasporto dei propri rifiuti non pericolosi al servizio pubblico di raccolta oppure a soggetti autorizzati alle attività di recupero o di smaltimento.

Numerosi dubbi interpretativi sono sorti circa l’estensione della responsabilità e l’individuazione dei soggetti che sono tenuti a sopportare il costo della gestione dei rifiuti all’infuori di chi ha li ha prodotti.

Un primo orientamento, ormai superato, poneva in capo al produttore l’obbligo di vigilanza e di controllo correlato ad attività che producono rifiuti, attribuendo allo stesso una posizione di garanzia[5], mentre l’orientamento ormai consolidato, sviluppatosi soprattutto in materia edilizia, ha assodato che l’attribuzione della qualifica di soggetto produttore di rifiuti non discende automaticamente dalla posizione soggettiva, quale può essere quella del committente dei lavori, ma presuppone un’ingerenza o una capacità di controllo sull’esecuzione dei lavori stessi[6].

Tale linea interpretativa risulta coerente con la giurisprudenza della Corte di giustizia[7], secondo la quale il produttore può essere tenuto a farsi carico dei costi connessi allo smaltimento dei rifiuti solo se, mediante la sua attività, ha contribuito al rischio di inquinamento.

La responsabilità connessa alla produzione o alla detenzione dei rifiuti e alla violazione degli obblighi che incombono sui soggetti responsabili del loro smaltimento sono destinati a venire meno quando il rifiuto cessa di essere tale, a seguito di un’operazione di riciclaggio o di recupero, alle condizioni previste dalla normativa vigente, rientrando, così, nel mondo dei beni per i quali esiste una domanda di mercato[8].

Questo ci riporta al concetto esaminato in epigrafe sul rapporto dicotomico di bene e rifiuto, intesi come qualificazioni giuridiche opposte e alternative di una cosa, con una visione più chiara sul valore negativo che l’ordinamento attribuisce alle cose di cui ci si disfa.

La disamina fin qui condotta sul rapporto dicotomico fra bene e rifiuto, intesi come qualificazioni giuridiche opposte e alternative di una cosa, rende evidente il valore negativo che l’ordinamento attribuisce al rifiuto.

Ciò si deduce da un quadro normativo che non disciplina esclusivamente la  gestione dei rifiuti e gli obblighi ad essa correlati, ma anche i processi che favoriscono la rivitalizzazione dei rifiuti attraverso specifici trattamenti, al fine di restituire ad essi il valore di bene giuridico.

Sorge da qui la necessità di identificare, senza incertezza, quali siano le sostanze e gli oggetti che a seguito di trasformazione possano essere riqualificati e quale sia il momento in cui il rifiuto cessi di essere considerato tale (c.d. End of Waste).

3. End of Waste

Definire l’esatto momento in cui un rifiuto riacquista la qualità di prodotto è un’esigenza che sorge laddove, nell’applicare un modello di economia circolare, si traggono dai rifiuti nuove risorse da inserire nei cicli di produzione, ottenendo la riduzione dei costi e l’ottimizzazione di processi produttivi.

Con l’iniziale silenzio della legislazione europea sul punto, gli stati membri avevano il compito di adottare misure per promuovere il recupero dei rifiuti mediante operazioni di riciclo e reimpiego per ottenere materie prime secondarie che andassero a sostituire, nei cicli di produzione, le c.d. materie prime vergini (art. 3, par. 1, lett. b) direttiva 91/156/CEE). Dunque, gli stati tentavano, in autonomia, di inquadrare in una dimensione normativa tale “momento”, per dirimere le incertezze che gravavano sugli operatori nelle fasi applicative dei nuovi modelli di business.

Nel dicembre 2005[9], la Commissione europea dichiarò che non era possibile, sulla base della attuale definizione di “rifiuto”, determinare il momento in cui, un rifiuto, appunto, potesse ritornare ad essere considerato “prodotto”.

In uno scenario di incertezza, quindi, negli stati membri sorsero divergenti interpretazioni, con una ricaduta negativa in termini di coretto sviluppo del mercato.

Successivamente, la Commissione propose una rettifica della direttiva quadro sui rifiuti per individuare l’End of Waste e, cioè, il momento in cui un rifiuto cessa di essere tale per essere considerato nuovamente un prodotto e, più precisamente, una materia prima secondaria[10]. Venne così approvata la direttiva 2008/98/CE che, all’art. 6, ha introdotto i criteri per stabilire quando un rifiuto, dopo essere stato sottoposto a operazioni di recupero, può non essere più considerato tale.

La summenzionata norma traccia un sistema che si articola in due livelli decisionali, prevedendo una procedura comunitaria affidata alla Commissione e una, di carattere residuale, di competenza degli stati membri, i quali possono “decidere, caso per caso, se un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale” soltanto se “non sono stati stabiliti criteri al livello comunitario” (art. 6, par. 4).

Le definizioni che integrano il dettato normativo, non sono di per sé immediatamente applicabili, ma la loro applicazione deriva da una procedura di comitatologia, nell’ambito della quale la Commissione è assistita da un comitato chiamato a esprimere il proprio parere sulle misure esecutive, che dovranno essere sottoposte poi al vaglio del Parlamento europeo e del Consiglio[11].

Attraverso questa procedura è possibile aggiornare rapidamente la normativa, in relazione a settori di natura specifica, senza minare la democraticità delle decisioni, stante il coinvolgimento del Parlamento.

I criteri fissati a seconda della tipologia di rifiuto devono, inoltre, rispettare le seguenti condizioni imposte dall’art. 6, par. 1 della direttiva 2008/98/CE: il bene deve essere utilizzato per scopi specifici; deve esistere un mercato o una domanda che lo richiedono; devono essere soddisfatti requisiti tecnici per gli scopi specifici e determinati standard applicabili ai prodotti; l’utilizzo del bene non deve comportare impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.

La prima condizione, guardando alla giurisprudenza comunitaria, fa fronte alla necessità di verificare che il rifiuto sottoposto a operazioni di recupero sia comunemente impiegato per scopi specifici e assicura, inoltre, la tracciabilità del bene che ne è derivato.

L’esistenza di un mercato o, in ogni caso, di una domanda, permette di sottoporre a operazioni di recupero solo il materiale che sia già proiettato in una dimensione commerciale, con conseguenti vantaggi economici per l’operatore.

La penultima e l’ultima condizione, in conformità ai principi della Corte di giustizia, garantiscono che venga trasformato il rifiuto che rispetti requisiti merceologici e di qualità ambientale, così da rendere competitivi i materiali recuperati e assicurando, al contempo, che il relativo utilizzo non abbia impatti negativi sull’ambiente[12].

Secondo una parte della dottrina, le condizioni poste dall’art. 6 si distanziano dalla giurisprudenza nella parte in cui non vi è un espresso riferimento alla nozione di «recupero completo»[13]. Orientamento, questo, basato sulla lettura dell’art. 3, par. 15 della direttiva, che prevede una definizione di «recupero»[14] nella quale non compare un principio enucleato dalla Corte di giustizia, ovvero che la sostanza sottoposta al trattamento acquisisca “le stesse proprietà e caratteristiche di una materia prima”.

Peraltro, il concetto di «recupero completo» non sembra abbandonato dalla Corte di giustizia, che in una decisione riguardo operazioni di recupero non regolate da fonti di attuazione comunitaria, ha tratto dai propri precedenti storici gli elementi interpretativi di cui gli stati devono tener conto nell’adottare decisioni in ordine agli End of Waste[15].

La seconda procedura prevista dall’art. 6, par. 4, può essere attivata dagli stati membri solo in via sussidiaria, laddove non sia stato definito nessun criterio con la prima a livello comunitario.

Nell’ambito di tale procedura, ai sensi della direttiva 98/34/CE, la facoltà degli stati di adottare caso per caso la decisione riguardo all’End of Waste va esercita nel rispetto della «giurisprudenza applicabile», con l’obbligo di notifica alla Commissione.

La giurisprudenza rappresenta, infatti, un metodo per garantire uniformità nell’applicazione dei principi comunitari all’interno degli stati membri, a fronte della discrezionalità del legislatore nazionale[16].

4. L’End of Waste nell’ordinamento italiano

La nozione di “materia prima secondaria” venne introdotta nell’ordinamento italiano dall’art. 181 bis del Codice dell’ambiente con il d.lgs. n. 4 del 2008, per identificare le sostanze classificabili come rifiuti che, sottoposte operazioni di recupero, potevano essere reinserite nel ciclo produttivo.

Tale disposizione è stata sostituita dall’art. 184 ter, introdotto dal d.lgs. n. 205 del 2010 e rubricato, in conformità all’art. 6 della direttiva, “cessazione della qualifica di rifiuto”, così rievocando il riconoscimento della qualifica di prodotto per i beni che hanno perso la qualifica di rifiuto[17].

La norma italiana fornisce una nozione più ampia, poiché prevede, in generale, che “un rifiuto” cessa di essere tale “quando è stato sottoposto a un’operazione di recupero”, includendo oltre al riciclo anche la preparazione per il riutilizzo, non espressamente menzionata nella direttiva[18].

L’art. 184 ter, comma 2, estende il concetto di «recupero» anche alle semplici attività di controllo volte a verificare se il rifiuto riesca a soddisfare le condizioni e i criteri che determinano il mutamento della qualifica[19].

Nell’ordinamento italiano, la procedura di End-of-Waste avviene nel rispetto delle condizioni generali fissate dall’art. 6, par. 1, della direttiva, che costituiscono il quadro di riferimento per la determinazione di criteri specifici da adottare attraverso decreti ministeriali, oltre alla “giurisprudenza applicabile”, e previa notifica alla Commissione (art. 6, par. 4, della direttiva 2008/98/CE).

Gli atti di normazione secondaria non possono tuttavia prevedere misure legate a qualsiasi tipologia di rifiuto, ma devono essere formulati case by case, in relazione a specifiche tipologie di rifiuto[20].

In caso di fasi transitorie e cioè fino all’emanazione di decreti ministeriali previsti dall’art. 184 ter, continua ad applicarsi la precedente disciplina sulle materie prime secondarie di cui l’Italia si era dotata sin dal 1998[21].

Il Consiglio di stato ha rilevato che il “destinatario del potere di determinare la cessazione della qualifica di rifiuto è, per la Direttiva, lo “Stato”, che assume anche obbligo di interlocuzione con la Commissione. La stessa Direttiva UE, quindi, non riconosce il potere di valutazione “caso per caso” ad enti e/o organizzazioni interne allo Stato, ma solo allo Stato medesimo, posto che la predetta valutazione non può che intervenire, ragionevolmente, se non con riferimento all’intero territorio di uno Stato membro”.

Del resto, per il Consiglio di Stato tale interpretazione risulta coerente con la Direttiva UE che con l’art. 117, comma secondo, lett. s) della Costituzione, che attribuisce alla sola potestà legislativa esclusiva la tutela dell’ambiente[22].

In linea con tali previsioni, il legislatore statale ha attribuito tale potere al Ministero dell’Ambiente.

Lo sviluppo di un efficiente sistema di gestione dei rifiuti è la chiave per la transizione verso l’economia circolare e la definizione di un quadro normativo che possa rendere più chiaro possibile l’End-of-Waste può contribuire a dare una forte spinta acceleratrice per tale processo.

 

 

 

 

 


[1] R. Federici, I rifiuti e le cose in senso giuridico, in Studi in onore di Giorgio Berti, II, Napoli, 2005, 1079
[2] A. Gambaro, La proprietà, in G. Iudica e P. Zatti, Trattato di diritto privato, Milano, 378 ss.
[3] M. Renna, I principi in materia di tutela dell’ambiente, in Rivista quadrimestrale di diritto dell’ambiente, Torino, 2012, 82 ss.; F. Mastragostino (a cura di), Gli strumenti economici e consensuali del diritto dell’ambiente, Napoli, 2011; M. Cafa- gno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente. Come sistema complesso, adattativo, comune, in F.G. Scoca, F. Roversi Monaco, G. Morbidelli (diretto da), Sistema di diritto amministrativo italiano, Torino, 2007.
[4] Art. 3, punto 6 della direttiva 2008/98/CE.
[5][5][5] Cass. pen, sez. III, 21 aprile 2000, n. 4957
[6] Cass. pen., sez. III, 30 maggio, n. 223
[7] Corte. giust. CE 7 settembre 2004, causa C-1/03
[8] A. Gambaro, La proprietà, cit., 379 ss.
[9] COM (2005) 666 DEF, cit., 13.
[10] D. Röttgen, La nozione di materia prima secondaria (End of Waste), in F. Giampietro (a cura di), Commento alla direttiva 2008/98/CE sui rifiuti. Quali modifiche al Codice dell’ambiente?, Milano, 2009, 79 ss.
[11] L’art. 6 della direttiva 2008/98/CE richiama la procedura di regolamentazione con controllo disciplinata dall’ art. 5 bis della decisione 1999/468/CE, in modificata dalla decisione 2006/512/CE.
[12] D. Röttgen, La nozione di materia prima secondaria (End of Waste), cit., 86 ss.
[13] D. Röttgen, La nozione di materia prima secondaria (End of Waste), cit., 93 ss A. Pierobon, Tra prodotti, materie prime secon- darie e rifiuti (in particolare la «preparazione per il riutilizzo», in Diritto e giurisprudenza agraria, alimentare e dell’ambiente, 2011, 2, 103
[14] Corte giust. CE, 18 aprile 2002, causa C-9/00
[15] Corte giust. UE, 7 marzo 2013, causa C-358/11
[16] D. Röttgen, La nozione di materia prima secondaria (End of Waste), cit., 100 ss.
[17] D. Röttgen, Cessazione della qualifica di rifiuto (End of Waste), in F. Giampietro, La nuova disciplina dei rifiuti, Milano, 2011, 69
[18] Cfr. P. Piacenza, La cessazione della qualifica di rifiuto, in M. Bucello, L. Piscitelli, S. Viola, (a cura di), Vas, Via, Aia, Rifiuti, Emissioni in atmosfera, Milano, 2012, 836 ss.; S. Benvenuti, Raccolta, gestione e smalti- mento dei rifiuti in Italia. La complessità del quadro normativo e del riparto delle competenze, in G. Cerrina Feroni, Produzione, gestione, smaltimento dei rifiuti in Italia, Francia e Germania tra diritto, tecnologia, politica, Torino, 2014, 89 ss.; D. Röttgen, Cessazione della qualifica di rifiuto (End of Waste), cit.
[19] Cfr. Cass. pen., sez. III, 15 aprile 2014, n. 16423
[20] D. Röttgen, Cessazione della qualifica di rifiuto (end of waste), cit.
[21] L’art. 184 ter, comma 3, dispone che “Nelle more dell’adozione di uno o più decreti di cui al comma 2, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui ai decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territo- rio in data 5 febbraio 1998, 12 giugno 2002, n. 161, e 17 novembre 2005, n. 269 e l’art. 9-bis, lett. a) e b), del decreto-legge 6 novembre 2008, n. 172, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2008, n. 210. La circolare del Ministero dell’ambiente 28 giugno 1999, prot. n 3402/V/MIN si applica fino a sei mesi dall’en- trata in vigore della presente disposizione
[22] Cons. Stato, sez. IV, 28 febbraio 2018, n. 1229

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