Il sexting e le problematiche sottese al suo inquadramento giuridico

Il sexting e le problematiche sottese al suo inquadramento giuridico

L’evoluzione tecnologica ed il connesso progresso informatico hanno avuto un forte impatto sulla nostra società, determinando cambiamenti che hanno inciso su diversi fattori, primo fra tutti, sulle modalità di comunicazione mediante l’introduzione di nuove forme, come i social network, che hanno finito con l’alterare i criteri regolativi delle relazioni intercorrenti tra le persone nello spazio e nel tempo reale. Difatti, l’erronea percezione che si ha della rete unitamente all’effetto disinibitorio che la connota, hanno dato vita ad una sorta di coscienza digitale priva di empatia, significativa di una crisi diffusa di valori che si riflette sull’agire on-line, di ampiezza tale da indurre un numero sempre maggiore di soggetti a delinquere mediante la commissione di reati posti in essere mediante la rete Internet. Emerge inevitabilmente, “il lato oscuro del web”, l’altro lato della medaglia, un vero e proprio fattore criminogeno, in cui il confine con la legalità diviene molto labile.

I mutamenti indotti dall’evolversi del mondo digitale hanno inciso anche sul fenomeno della pornografia, trasformatasi in una “risorsa” godibile con estrema facilità grazie alla creazione di appositi siti web. Invero, è proprio dalla combinazione tra nuova tecnologia informatica e pornografia nonché dall’accostamento di quest’ultima ai nuovi mezzi di comunicazione moderni che si sono originati nuovi fenomeni strettamente connessi, in cui si colloca anche il sexting

Tutt’altro che pleonastico risulta – prima di procedere all’analisi degli aspetti penalistici che si celano dietro il fenomeno esaminando – effettuare un breve excursus sul famigerato sexting, in modo da escludere un approccio miope al tema, che fuor dubbio non potrà mai portare a risultati concreti.

Il termine sexting deriva dall’unione dei termini inglesi sex (sesso) e texting (invio di messaggi), e si identifica con l’invio, la ricezione o la condivisione di materiale avente contenuto sessualmente esplicito nell’ambito di una conversazione digitale.                                                                              

 La dottrina distingue, poi, tra “sexting primario” che identifica le ipotesi, solitamente consensuali, in cui è lo stesso protagonista dell’immagine ad inviarla ad un altro soggetto nell’ambito di un rapporto privato e “sexting secondario”, che descrive il caso in cui il primo destinatario dell’immagine, o altri, la metta in circolazione portandola alla vista di terzi.

Il sexting, materia ancora magmatica ed in divenire, apre la strada a diverse questioni che attenzionano l’esatta individuazione della cornice di reato configurabile, specie nei casi in cui la condotta sia posta in essere da soggetti minorenni mediante la partecipazione alla realizzazione di immagini a sfondo sessuale.

La giurisprudenza ha sovente ricondotto tali condotte nell’alveo delle fattispecie di pornografia minorile.                        Sul punto, giova analizzare una pronuncia della Corte di Cassazione[1] di discutibile condivisione, sì da poter cogliere, nell’immediato, l’inadeguatezza della soluzione normativa prevista in materia di pornografia minorile rispetto alla tutela che – le nuove forme di strumentalizzazione del minore – rendono necessaria.

La vicenda fattuale dibattuta nella pronuncia esaminanda vedeva una minore scattarsi delle foto a contenuto pornografico che inviava poi a propri coetanei, che a loro volta, senza alcun consenso, cedevano a terzi, salvo un ragazzo che le teneva per sé. Ai minori si contestava il reato di cessione di materiale pedopornografico di cui all’art. 600 ter comma 4 c.p. mentre all’imputato che aveva tenuto per sé l’immagine si contestava la fattispecie di cui all’art. 600 quater c.p.

Il giudice di prime cure dichiarava di non doversi procedere nei confronti degli imputati in ordine ai reati loro ascritti per insussistenza del fatto, ponendo a fondamento del proprio decisum l’argomentazione secondo la quale, ai fini della configurabilità del delitto di cessione od offerta di materiale pedopornografico, è necessario che il soggetto che produce il materiale pornografico – condotta incriminata al 1° comma dell’art. 600 ter c.p. – sia diverso dal minore oggetto delle raffigurazione.

La Suprema Corte condivideva l’esegesi prospettata dal giudice di prime cure, dimostrando, attraverso un’analisi letterale e strutturale dell’art. 600-ter c.p., come il presupposto essenziale per la configurabilità di tutte le fattispecie di reato in esso contemplate sia la condizione di “alterità e diversità” fra il soggetto che ha prodotto il materiale pornografico e il minore ivi rappresentato.

Rilievo centrale assume il presupposto “dell’utilizzazione/strumentalizzazione” del minore previsto dal capoverso n.1 del primo comma dell’art. 600 ter c.p., elemento che peraltro permea l’intera fattispecie criminosa, come si evince dal rinvio che i commi successivi della disposizione operano.

Per meglio comprendere, il comma 1 della disposizione – richiamato dai successivi commi 2, 3 e 4 – ha ad oggetto non un qualsivoglia materiale pornografico minorile, ma esclusivamente quel materiale formato attraverso l’utilizzo strumentale dei minori ad opera di terzi. Infatti, l’impiego del sintagma “Utilizzando minori di anni diciotto” di cui al primo comma capoverso n.1 evidenzia come il legislatore abbia inteso privilegiare proprio il quomodo del reato, da individuarsi nell’impiego strumentale del minore nella consumazione del delitto, elemento costitutivo dello stesso.

Ebbene, nel caso de quo, essendo la produzione originaria di materiale pornografico avvenuta in maniera volontaria da parte della minore, in difetto dunque dei presupposti logico giuridici dell’alterità e diversità dell’autore della condotta rispetto al minore sfruttato e dunque dell’elemento costitutivo della strumentalizzazione del minore, non poteva ritenersi integrata alcuna fattispecie di reato prevista dall’art. 600 ter c.p.

L’opzione ermeneutica adottata dalla Suprema Corte, come già sopra preannunciato, si palesa inadeguata in rapporto alle attuali esigenze di tutela. Ricondurre i casi di sexting nell’alveo della fattispecie di pornografia minorile, rischia di portare a decisioni irragionevoli in contrasto con i principi di uguaglianza e di proporzione. Infatti, la moltitudine di contesti e modalità mediante cui si estrinsecano tali condotte, travalica i confini di tali norme, rischiando di lasciare impunite condotte analoghe a quella analizzata, in cui l’immagine oggetto di eventuale cessione, commercializzazione, divulgazione ovvero offerta, sia realizzata autonomamente dal minore raffigurato.

In siffatte ipotesi non è da escludere la sussistenza del presupposto della strumentalizzazione del minore, che, anziché riflettersi nel momento della produzione di materiale pornografico si sposta ad un segmento temporale successivo, da individuarsi nell’ eventuale diffusione non consensuale dello stesso. Riflessione quest’ultima che ha costituito fattore determinante per l’insorgere di un revirement giurisprudenziale volto a porre rimedio al vuoto di tutela presente nel caso di illecita diffusione di immagine pornografiche autoprodotte dalla persona offesa.

Emblema di tale revirement è la sentenza n.5522 del 21 Novembre 2019 con cui la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione propose una nuova lettura dell’art. 600 ter c.p. confermando il requisito dell’alterità solo con riferimento alle condotte di produzione cui al primo comma, respingendo, al contrario, l’interpretazione originariamente attribuita al sintagma “materiale pornografico di cui al primo comma”, richiamato dai commi successivi della fattispecie criminosa. In definitiva, la Corte chiarì che i richiami interni presenti nella disposizione, sono da riferirsi non alla condotta delittuosa di cui al primo comma, ma esclusivamente al materiale pedopornografico prodotto. Ne consegue che, al di fuori della condotta relativa alla produzione di materiale pedopornografico, per le successive condotte illecite previste dalla disposizione, non occorre attribuire rilievo alla modalità di produzione del materiale pedopornografico che può anche essere autoprodotto dal minore.

Ed allora, inevitabilmente diverse sono le questioni alla tematica sottese. Constatato l’apprezzabile tentativo da parte della giurisprudenza di guidare l’interprete a districarsi nell’ambito di questo attuale fenomeno, ciò potrà ritenersi sufficiente ad assicurare alla persona offesa una concreta risposta in termini di tutela rispetto a simili nuove forme di abuso? Probabilmente nessuna delle interpretazioni prospettate dalla giurisprudenza di legittimità potrà dirsi risolutiva considerata la delicatezza e la complessità della materia. Non sarebbe forse opportuno – prima di assumere posizioni sulla disciplina del fenomeno del sexting – analizzare e comprendere il substrato sociale e criminologico in cui queste nuove condotte si installano?

Inoltre, considerato che da non molto, sul punto, è presente nel panorama ordinamentale un’ulteriore possibilità sanzionatoria, rappresentata dall’art 612 ter c.p. (diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti) e la giurisprudenza di legittimità è intervenuta a chiarire le perplessità connesse alla determinazione dell’ambito di applicabilità tra tale fattispecie criminosa ed il reato di pornografia minorile di cui all’art. 600 ter c.p., appare indiscutibile la necessità di un intervento legislativo in modo da poter avere un quadro normativo coordinato che garantisca coerenza tra le varie disposizioni penali coinvolte.

 

 

 

 


[1] Cass.Pen., Sez. III, 21/03/2016, n.11675

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